L’essere “Muse” fra condizionamenti e trionfi – di Maria Nivea Zagarella

La crudele uccisione qualche mese fa di Giulia Cecchettin a pochi giorni dalla laurea in ingegneria non ha solo scosso emotivamente, ha soprattutto tragicamente denunciato la resistente e assurda “possessività” del maschio in un miscuglio spesso torbido di superiorità preconcetta e frustrazioni angoscianti e insopportabili. A patirne le conseguenze la sensibilità delle vittime, la loro solitudine, i loro sensi di colpa. Perciò pare risuonare a proposito nel recente libro di Serena Dandini, La vendetta delle muse, l’invito alle donne a un sano egoismo e ambizione, due parole -scrive l’autrice, tratteggiando il profilo della disinibita e anticonformista Colette (1873/1954) che impose la sua libertà di donna, scrittrice, attrice alla Francia di primo Novecento- che accostate a una donna fanno storcere il naso, ma che per raggiungere una vera emancipazione è importante rivalutare. In questo nuovo album di figure “valorose” la Dandini allinea, alternandole agli abituali flash autobiografici, che qui insistono particolarmente sulle sue libertarie irrequietudini adolescenziali e giovanili degli anni ‘60 e ‘70 e sull’affettuosamente compatita “immagine” materna dal modesto destino in una Italia che sembrava allora inguaribilmente “provinciale“ con le sue famiglie austere e tradizionali, allinea -dicevo- personalità femminili selezionate dai più svariati settori della vita collettiva, e senza filtri moralistici. Donne -sottolinea- che hanno percorso sentieri impervi…(acrobate su un filo teso sull’abisso) a beneficio delle generazioni venute dopo. Non mancano le muse-vittime, o quelle defraudate dei loro meriti, e qualche esemplarità “positiva” in senso più tradizionale, quale la tenerezza–forza, consapevole e eroica, nella vita privata e sullo schermo di Giulietta Masina, moglie di Fellini. Ma campeggiano le audaci, le eversive, donne in genere di cultura, e di carattere che, o sono “risorte” da ogni crisi come l’araba fenice, o sono state capaci di “divorare” le possibilità della vita specialmente in epoche in cui a loro non era permesso nulla o assai poco.

Tra le muse-vittime finite in manicomio: Léona Delcourt divenuta Nadja nel romanzo surrealista di André Breton, musa-medium del’inconscio per l’occhio curioso e indagatore dello scrittore; la scultrice Camille Claudel irretitasi nell’amour fou per lo scultore Auguste Rodin e schiacciata dai pregiudizi accademici verso una donna che creava opere d’arte con soggetto “un uomo nudo”, anche se Rodin ne riconosceva “l’eccellenza”: L’oro che trova è tutto suo; Dora Maar, affermata fotografa surrealista e attivista politica, distrutta dall’amore per Picasso, del quale diceva: Pablo è uno strumento di morte. Non è un uomo, è una malattia; non un amante, un padrone. Godeva infatti il pittore nel vederla soffrire, piangere, la provocava, la ingelosiva, traendo ispirazione dal suo dolore: Sono la donna che piange. Sono la donna verde dei quadri del genio. Sono l’idea stessa del dolore, il mio, il suo, il dolore del mondo. Un mix di amore malato ed egoismo maschile, che porterà più drammaticamente invece al suicidio con una overdose di laudano Elisabeth Siddal (Lizzie) la bella modella di Deverell, di Millais e del preraffaellita Dante Gabriele Rossetti, che la voleva come sua musa esclusiva, proibendole di posare per altri: la venerava ma la tradiva tranquillamente - osserva la Dandini- mentre anche Lizzie inseguiva vanamente il suo talento d’arte in un mondo costruito apposta per negarlo alle donne. E che dire del divieto a comporre musica del musicista viennese Mahler alla moglie Alma Schindler dall’innato talento musicale, moglie che anch’egli voleva tutta e solo per sé, come un bambino la mamma, e di cui recupererà tardi gli eccezionali Lieder da lei composti per non perderla, dato il nuovo amore di Alma per l’architetto Gropius, il futuro fondatore di Bauhaus; o della proibizione a continuare la carriera di attrice ad Audrey Hepburn da parte del ricco fidanzato, l’industriale inglese James Hanson (che lei non sposerà), e ad Hedwig Kiesler (futura Hedy Lamarr, la più bella donna del mondo), da parte del marito Friedrich Mandl, ricchissimo commerciante di armi da guerra negli anni dell’ascesa di Hitler al potere, che amava esibirla ai suoi ospiti come una attraente statuina senza idee, un arredo di pregio. Gabbia dalla quale Hedy (ebrea) riuscirà con uno stratagemma a fuggire dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga, facendosi ingaggiare a Londra dalla Metro Goldwyn Mayer, e progettando poi in America fra un film e l’altro, grazie alla sua passione/conoscenza della scienza e a quanto aveva appreso sulle armi dai commensali del marito, un sofisticato sistema per missili radio-controllati che poteva impedirne l’intercettazione da parte dei nemici. Otterrà il brevetto nel 1941, ma il Dipartimento di guerra americano non lo adotterà. Come dare credito- ironizza la Dandini- a una donna, per di più femme fatale del cinema? Oggi invece -continua l’autrice- le radiofrequenze studiate da Hedy hanno trovato applicazione nelle nuove tecnologie militari e mediche, e anche nel WI-FI, nel bluetooth, nella telefonia mobile… e solo nel 1996 l’Electronic Frontier Foundation le ha conferito il premio quale pioniera dell’elettronica.

Il suo nome va dunque messo accanto a quello di tutte le altre donne scienziate che, con le loro naturali inclinazioni e genialità confermano, contro quanti tuttora si ostinano a negarlo, la tesi di Amalia Ercoli Finzi, la signora delle comete, che pure le donne sono portate per le materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), come già nel 1870 aveva affermato Matilda Joslyn Gage che nel saggio Women as an Inventor aveva mostrato che nonostante la quasi totale esclusione delle donne da ogni formazione scientifica alcune delle invenzioni più importanti si dovevano a loro: l’acquario, alla biologa marina Jeanne Villepreux-Power; il telescopio subacqueo, a Sarah Mather; la sgranatrice di cotone, a Catharine Littlefield. E la Dandini si sofferma anche sulla matematica di fine Settecento Sophie Germain,il cui nome non figura inciso in oro tra tutti gli altri scienziati ricordati al primo piano della Tour Eiffel, pur avendo Sophie con la sua teoria dell’elasticità aperto la strada all’ingegnere Eiffel e agli attuali studi sui terremoti; sulla dottoressa salernitana medievale Trotula De Ruggero autrice del De curis mulierum, la cui identità sarà messa in dubbio da un editore del 1544, avendo preferito  la società -rimarca la Dandini- declassare le dottoresse, le magistrae di questa o quella branca, a streghe, sciamane, guaritrici; sugli importanti studi di “calcolo” di Ada Lovelace, figlia di lord Byron, amica del matematico Babbage che si appropriò delle sue intuizioni, mentre oggi Ada è correttamente riconosciuta come la prima programmatrice di computer. E ancora, il destino della genetista e microbiologa Nettie Stevens che già nel 1905 affermava che il sesso è da attribuire a un cromosoma (XY nel caso dei maschi, XX per le femmine), conclusioni che guideranno le ricerche del suo ex professore Thomas Morgan che avrà invece il Premio Nobel. Nobel mai assegnato neanche a Vera Rubin scopritrice della materia oscura che pare costituisca la quasi totalità della massa presente nell’universo, e dirottato su un altro astronomo, un “maschio” appunto, per il solito strabismo di genere -ironizza la Dandini. D’altronde non avevano già i giacobini ghigliottinato Olympe de Gouge che chiedeva la partecipazione delle cittadine agli affari di Stato con la motivazione di immaginazione esaltata? Volle essere un uomo di Stato -scrivevano su Le Moniteur Universel- e sembra che la legge abbia punito questa cospiratrice (sic!) per avere dimenticato le virtù che convengono al suo sesso. Al contrario Amalia Ercoli Finzi ha oggi proposto che, per l’esplorazione umana di Marte, dei 7 membri della missione quattro siano scienziate, e afferma perentoria che bisogna “educare” gli uomini: fare loro capire che ostacolando le donne ostacolano il cammino della scienza e -aggiungiamo- anche lo sviluppo di una democrazia “reale”.

Delle “audaci” che hanno trionfato inseguendo con determinazione il loro “futuro” e il loro “desiderio”, gestendo in estrema libertà il loro musismo, la Dandini ricostruisce innanzitutto le vicende di Alma Schindler e di Gala (la russa Elena Ivanovna D’jakonova). Alma, dai magnetici occhi blu, dopo la morte di Mahler e vari flirt di breve durata, sposò prima Gropius (rivelatosi anch’egli dispotico e bisognoso di “cura”), e poi il poeta ebreo Franz Werfel che lei indirizzerà con successo alla prosa narrativa, vantandosi nella sua biografia che se il destino le aveva permesso di “assistere” tutti quei cavalieri creativi, la sua esistenza era giustificata e benedetta; Gala fu prima, musa ispiratrice del marito e poeta surrealista Paul Eluard, del suo amante il pittore Max Ernst (in un consensuale rapporto a tre) oltre che degli altri membri del movimento d’avanguardia, poi divenne amante, moglie e attivissima manager di Salvador Dalì che, insicuro e egomaniaco, le dedicherà tutte le sue opere, darà il suo volto a tutte le donne da lui dipinte, firmerà i suoi quadri con i loro due nomi, Gala Salvador Dalì, creando per impulso di lei, fra ricchezza e gloria, un brand commerciale di abiti, profumi, accessori… Brand paragonabile a quello odierno nato dalla collaborazione fra l’eccentrica, tenebrosa e sciamanica, creatrice e ispiratrice di fashion design Michéle Lamy e il marito Rick Owens, anticipati all’inizio del ‘900 dalla coppia Colette-Willy (Henry Gauthier-Villars) sull’onda allora del successo di pubblico dei romanzi scritti da Colette e firmati dal marito Willy che avevano a protagonista la disinibita e ironica ragazza Claudine: profumi, saponi, abbigliamento, caramelle alla cipria… tutto à la Claudine. Colette infine emancipatasi dal marito, dal quale divorzierà e a cui farà causa per i diritti delle sue opere, continuerà a scrivere con successo, calcherà da vamp e seminuda le scene, avrà amori con uomini e donne (fra cui la nobildonna Mathilde de Morny), sposerà il barone Henry de Jouvenel e avrà una relazione col figlio diciassettenne di questi, come aveva già prefigurato nel romanzo Cheri, e conterà quale terzo marito Maurice Goudeket, dopo avere continuato a rivendicare alla letteratura e alla luce del sole la sessualità adolescenziale, la fluidità di genere, la sessualità e la dignità del desiderio d’amore di un corpo maturo di donna (Cheri). Lungo la stessa linea di libertà sessuale e di sregolata frenesia vitale negli anni ‘60 e ’70 del Novecento, fra protesta, droga, sesso, feste e musica, si sviluppano le storie di Marianne Faithfull e Eve Babitz. Della colta Marianne, autrice di Sister Morphine e compagna (dopo avere lasciato marito e figlio) di Mick Jagger del gruppo dei Rolling Stones, cui avrebbe ispirato con le sue letture e il suo tentato suicidio in Australia le canzoni di successo Sympathy for the Devil e Wild horses couldn’t drag me away, la Dandini ripercorre le cadute esistenziali (l’arresto per doga con tutta la band, il tentativo di suicidio, la fine della relazione con Mick, la vita di homeless a Londra) e soprattutto le “resurrezioni”, dal 1979 a oggi, che la vedono cantante e attrice affermata, e ancora affettivamente legata ai poeti amati nella sua controversa giovinezza (Byron, Keats, Tennyson), che -sottolinea l’autrice- l’hanno accompagnata nella sua lunga e turbolenta vita e sono stati un’ancora di salvezza nei momenti bui. Di Eve Babitz,  anch’ella groupie all’inizio come Marianne, vengono evidenziate la giovanile totale immersione nella movida di Los Angeles fra corse notturne in auto, albe chimiche sulle spiagge di Malibu e naturalmente il sesso… flirtare e sedurre e vedere l’effetto che fa… [andando] a letto [Eve] con chi le pare ma mai per interesse e prestigio: solo per divertimento e piacere (fra gli altri, i futuri famosi Jim Morrison, Steve Martin, Harrison Ford, Dan Wakefield…); la realizzazione delle originali, creative, per l’arte del collage, copertine degli album degli artisti allora più in voga, come i Buffalo Springfield; l’approdo alla scrittura dal 1974, i 7 romanzi che restituiscono -precisa la Dandini- con spregiudicata freschezza un quadro avvincente e unico del bagliore della California di allora, e di quelle effimere illusioni, opere rivalutate solo oggi dopo quarant’anni forse per la nostalgia -azzarda l’autrice- di quella ribelle spudorata allegria e pizzico di leggerezza.

Di diverso spessore e lontane da ogni “fiera” di commercializzata apparenza (dal fenomeno Twiggy anni Sessanta alle odierne chiare ferragni sui social a stereotipo unico) così come da ogni incosciente euforia, si rivelano altre “storie” presenti nel libro. Quella della seicentesca Artemisia Gentileschi, che trionfò dello stupro di Agostino Tassi, del controllo del padre Orazio, e dei condizionamenti del suo tempo, diventando una pittora indipendente, la prima donna ammessa all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze fondata dal Vasari, e una abile manager di se stessa, economicamente autonoma, da tutti apprezzata per l’indiscussa autorevolezza artistica, come vividamente filtra dal suo Autoritratto come allegoria della pittura (1638/1639), sintesi di soddisfatta soggettiva intraprendenza e appagata confessione del proprio unico amore: il nobiluomo Francesco Maria Merighi. O le vicende delle tante “combattenti” e “guerrigliere” dei diritti civili e politici, e della giustizia: da Anita Garibaldi con il suo Giuseppe al fianco dei farrapos (straccioni) brasiliani, degli uruguayani, dei patrioti della Repubblica Romana del 1849 e con lei, a organizzare ospedali e assistenza infermieristica, anche la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso e l’americana Margaret Fuller inviata del prestigioso giornale New York Daily Tribune, fino alle eroine della Resistenza: la francese Catherine Dior, catturata nel 1944, torturata, costretta a lavorare in una fabbrica di esplosivi, poi amorevolmente assistita dal fratello Christian, che per la sorella sopravvissuta creerà il profumo Miss Dior, compendio degli aromi del giardino della loro infanzia e nella sfilata del 1949 l’abito Miss Dior con il corpetto e l’ampia gonna ricoperti da una cascata di impalpabili boccioli di seta [come] un’eterna primavera; la partigiana italiana Francesca del Rio, anch’ella catturata e torturata ferocemente ma che, scheletrica e ferita, riuscirà a fuggire prima di essere deportata a Buchenwald. E ancora, le innumerevoli donne iraniane tuttora sempre più ribelli e in fermento dopo l’uccisione da parte della polizia morale della curda Masha Amini per il “velo” male indossato, o l’economista afghana Laila Basim, cui i talebani al potere hanno impedito di lavorare e chiuso la biblioteca per donne da lei aperta a Kabul, perché per il regime dopo gli undici anni le ragazze non dovrebbero più istruirsi. Slogan di Laila è Meglio morte che cancellate, e fa epicamente eco a quello delle iraniane in lotta: donna-vita-libertà.

 Storie e figure poliedriche come si vede, talune anche affermatesi per scelte assai discutibili, che i lettori a discrezione -precisa la Dandini- possono scegliere o respingere quali eventuali compagne di viaggio, e tuttavia legate fra di loro dallo stesso incoercibile bisogno di femminile autodeterminazione e creativa operatività: il decidere cioè liberamente del proprio corpo, di se stesse e della propria esistenza. E superatasi ormai storicamente la remora del riferimento al vincente modello maschile ancora presente nelle parole di Artemisia che diceva di sé di avere un animo di Cesare nell’anima di una donna, possiamo concludere circa una autodeterminazione “politicamente” nutrita e da nutrire, in sinergia paritaria di “risorse” umane maschili e femminili (e quasi in un ideale ponte da Olimpe de Gouge a Amalia Ercoli Finzi passando per l’Ottocento), della seguente, innovativa e “modernissima” concezione anche se espressa -ricorda la Dandini- nel 1845 dalla femminista Margaret Fuller nel saggio La donna nel Diciannovesimo secolo. Scriveva allora Margaret (poi morta in un naufragio con il marito e il figlio): E’ tempo… che la Donna, l’altra metà dello stesso pensiero, l’altra stanza nel cuore della vita, prenda il suo turno e inizi a pulsare appieno; e si migliorerà la vita delle nostre figlie femmine, cosa che sarà di massimo aiuto perché migliorino e mutino anche i nostri giovani figli maschi. L’utopia visionaria e lungimirante della Fuller guardava, attraverso un maggiore, maturo, coinvolgimento delle donne nella vita pubblica e politica, a una femminilizzazione della cultura con conseguente (si augurava) drastica diminuzione delle violenze in ogni campo.       

 

 

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.