Il “Symbolon” cosmico e il cammino esoterico nella scrittura sapienziale di Ester Monachino

di Rossella Cerniglia
 
   Fin dal suo incipit, l'ultima opera di Ester Monachino, Symbolon, affascina e lega, già con quelle  parole che cominciano ad enucleare il senso delle prime frasi. Si coglie subito il respiro che le plasma, l'intima spiritualità che le costituisce in essenza. Una scrittura in cui armoniosamente si coniugano due elementi che potrebbero apparire antinomici: semplicità del dire e profondità di concetto. Ma tale”semplicità”, è essenzialità e bellezza, è verità: gli appellativi dell'essere, contigui al silenzio denso e profondo dell'anima.
  E l'intero libro è libro dell'Anima, e gli esseri, le cose, tutte le cose, racchiudono la loro bellezza  e verità nel loro stesso essere. Come per il Siddharta di Hermann Hesse, le pagine di questa preziosa  opera di Ester Monachino acquistano il sapore di un Bildungsroman, di un romanzo di formazione, che richiama la valenza simbolica degli antichi riti di iniziazione o di passaggio dall'adolescenza all'età adulta dell'uomo, ma qui, come per il Siddharta, secondo il maturare di un cammino ascetico che condurrà ad uno stadio di umanità superiore.
   La narrazione segue il percorso di un'anima “chiamata” dalla domanda umana per eccellenza: quella relativa all'origine e destinazione dell'uomo, domanda che ha in sé l'urgente desiderio di portare alla luce ciò che è nascosto: la verità che è il valore e il senso dell'esistere, incluso quello di una felicità implicita e ad esso destinale.
   E la ricerca ha inizio proprio a partire dall'assunzione di quel Symbolon - filo conduttore delle vicende narrate – che rappresenta nella sua vastità il carattere ampio di tutte le sintesi universali e cosmiche, vale a dire dell'intera vita. È ciò che connette la terra - e quindi l'uomo- al cielo, poiché, come affermava Platone, nell'Iperuranio, questi ha le proprie radici. È ciò che rappresenta la sostanziale equazione di Bellezza e di Amore che sono l'essere stesso nella sua Verità. Uno straordinario sillogismo esprime le stesse prerogative dell'essere nel personaggio di Ula, l'invincibile amore di Otù: “La bellezza è amore. Ula era bellezza. Ula era amore”. Perché Ula era la verità di sé, forgiata nella misura della sua stessa anima, la piena realizzazione del suo stesso essere.
   Le profonde e, al contempo, eteree pagine di questo libro hanno un loro cardine nella spiritualità orientale e nella saggezza millenaria  di un pensiero e di una pratica di vita, a lungo sconosciuta nel nostro materialistico Occidente. Vibrano in consonanza con una visione animica e hanno un valore sapienziale che appartiene alla radice della vita, all'essere e alle cose tutte di questa terra.       
   I fatti narrati, e i luoghi in cui essi si svolgono, privi di precisi riferimenti spazio-temporali, rinviano ad una dimensione tutta interiore, eterna, che è dell'anima. E sono eterni in se stessi, in quanto simboli del percorso interiore che porterà il protagonista, Otù, al raggiungimento di una saggezza  profonda, quale è appunto quella dell'anima.
    Nel testo, le frasi  hanno struttura minimale, si presentano, a volte, nominali o ellittiche del verbo, tacciono del superfluo e nominano solo l'essenza perché essa è la verità, il nucleo che nel transeunte rimane sempre fermo in se stesso come luce inoppugnabile. E nella verità è la loro profondità e  ricchezza. Si plasmano, perciò, in piena consonanza con il contenuto, con l'intima sostanza  della realtà rappresentata.
   Otù, ragazzo, riceve i primi insegnamenti dal maestro del villaggio Stilu. È l'iniziazione a una comprensione dell'essere come coralità di un Tutto, in cui ogni elemento cosmico, uomini compresi, non è isolato o scisso, ma partecipa dell'insieme, e  come “l'asola al bottone” è legato agli altri esseri in una relazione di compartecipazione interdipendente. Un insegnamento fondamentale, che apre al senso della vita come Amore, e alle sue declinazioni di fratellanza, condivisione, collaborazione e, in generale, di altruismo, che Otù terrà sempre presenti.  É un'istanza preparatoria che pone le basi per quello che avverrà in lui dopo, a partire dal ritrovamento del Symbolon, appunto -  la pietra con una profonda spaccatura centrale - che nel libro starà a rappresentare il sacro legame di una relazione in cui il duale diviene unità, perché ciò che a noi appare diviso ha in sé la propria ricomposizione. Un concetto che troviamo anche in  Eraclito, e poi in Cusano e in Giordano Bruno, espresso in quella Coincidentia oppositorum che sconfigge il polemos di ogni dualità e di ogni opposizione, nella metafisica asserzione dell'Uno, origine e ritorno a sé dello stesso Essere.
   Nel caso specifico, starà a rappresentare la perfetta integrazione dell'anima di Otù  con quella di Ula, anticipata dalla fase dell'innamoramento  che avviene attraverso  il  compenetrarsi  degli sguardi, “i portali dell'anima” come li definisce la nostra Ester. È il miracolo di un Amore che nell'intimo combaciare di due anime crea una nuova unità: un'Anima più grande e intensa, in cui quelle individuali sono ricomprese nella loro fusione. Ma esso rappresenta, in verità, il miracolo presente in tutto l'essere, che coniuga il proprio divenire e la nascita del nuovo, proprio attraverso quella Sintesi di ogni dualità che è Amore, in tutte le sue multiformi sembianze. E questo, ancora una volta, ci riporta di fronte alla dialettica tra finito e Infinito, tra microcosmo umano e Macrocosmo divino.
    Otù apporrà il simbolo dell'infinito, a metà tra le due parti della pietra, che poi dividerà, dandone una a Ula e tenendo l'altra per sé, a significare che l'amore per Ula, non solo non conosce limiti, ma è eterno. Il segno posto da Otù sancisce, in realtà, ciò che è già di fatto, - poiché l'Amore tra due anime non può che essere eterno. Evoca, inoltre, la sacralizzazione del matrimonio nella ritualità cattolica, chiamato, anche qui, a sancire ciò che dovrebbe essere di fatto: un amore eterno.
   A partire da questo ritrovamento ha inizio il cammino di Otù che molte prove avrà da superare in questa sua peregrinazione terrena: l'abbandono della casa e del suo villaggio, Tiaré, in seguito a un'alluvione, l'allontanamento di Ula che, con i suoi familiari, cercherà scampo a Narsi. E poi, l'inizio di una nuova vita a Plurima, “la città grande”, nella quale crescerà la coscienza del suo sé, la consapevolezza delle sue naturali doti e tendenze, dei doni della sua anima. In essa farà  incontri decisivi per la lievitazione del suo essere interiore: Gorki, Nukao ed Etsuko gli porgeranno preziosi ammaestramenti che segneranno e guideranno il suo cammino.
   Il senso  tutto  della  vita  sarà  vagliato  in  ogni  suo aspetto: il divenire  delle  cose;  la Dynamis,  
l'intimo motore dell'universo, che è Amore; e l'equazione tra esso e la Bellezza in quanto espressione della divina totalità dell'Essere; i quattro elementi naturali - terra, acqua, aria e fuoco i rizomata, secondo la definizione empedoclea, radici dell'essere da cui tutte le cose originano, plasmate sempre dalla forza che le lega e le porta in uno, cioè dall'Amore. Otù imparerà, lungo il cammino, a non guardare alla superficie di esse, ma sempre dentro alla loro profondità, nella loro essenza nascosta che è il prodigio da rivelare.
   E la vita scorrerà in lui attraverso le scelte sempre più sapienti che verranno dall'esperienza stessa, che è una con questo scorrere; verranno da quello stesso cammino intrapreso, disseminato di occasioni che gli arrivano come semi sparsi sulla sua stessa strada. Così è per l'incontro con altri esseri umani, anch'essi semi, fatalmente posti sul suo stesso andare. E la loro azione ha proprio il senso di una inseminazione che farà germogliare nuova vita, nuova saggezza, nell'animo di Otù.
   Ma pur nella profondità di questa visione, ogni cosa apparirà semplice in questo andare, che è incessante ricerca, fatta, prima di tutto, di ascolto reverenziale della realtà tutta, nelle sue molteplici forme e aspetti, nel suo incessante divenire. E nel fluire di queste emblematiche vicende - minimali nell'affabulazione, ma di grande pregnanza spirituale- campeggia sempre, sullo sfondo, il ricordo e la visione di Ula: il suo viso, gli occhi, il suo nome, tutti gli appellativi che le sono propri e che tessono  nel silenzio i giorni di Otù, nel grande e inestinguibile fuoco che arde nel suo petto.
   A Plurima e poi a Narsi, Otù, che ha imparato l'arte del vasaio, conquista fama di grande artista, ed è chiamato a decorare il palazzo del governatore della piccola città. Gioisce, è grato alla vita, ma non inorgoglisce per questo: essa è accettazione di tutto quello che riserva, nel bene e nel male.
   A Narsi non ritroverà Ula come sperava, ma il cammino lo porterà ad incontrare Gaia, la fanciulla dagli “occhi verdi, delle olive mature”, che lo coinvolgerà con la sua bellezza e la malia del suo canto. Un avvenimento nuovo nella vita di Otù, in cui confluiscono tutte le analogie e le sinestesie del reale che rendono magica l'atmosfera di queste pagine. Anche i sensi di Otù saranno risvegliati in questa nuova esperienza, ma al di là dell'aspetto sensuale, ancora una volta, l'amore è narrato nella sua intima essenza, come profonda avventura spirituale, e Gaia rimarrà in Otù, viva in essenza, particella dell'anima forgiata nell'infinita beatitudine dei giorni della loro intimità.
    Tuttavia, nel confronto con Ula, Gaia sarà solamente “il corpo della terra” e Ula, “l'essenza di essa”, l'elemento che permane ed è perciò eterno, come l'amore che ne consegue.
  Profondo significato riveste questo confronto, sul quale infinite cose si possono dire: Gaia è collegata alla bellezza che si incarna nella materia, è creatura terrena, appartiene alla terra e al grande potere e al valore che hanno le cose terrene per noi, perché in qualche modo ci appartengono e pur sempre lasciano un segno nella nostra anima. Ma Ula consiste di una dimensione altra, di sconfinamento al di là delle cose, pur belle, ma finite di questo mondo; è profondamente legata all'anima, è spirito e bellezza soprasensibile, immaterica ed eterna.
     In verità, l'intero testo è una meravigliosa tessitura di sensi che ramificano e si accrescono intrecciandosi tra loro, sensi molteplici che hanno uno specchio in ogni singola parola. Perciò quel che avvince profondamente nell'opera, al di là di ogni altra considerazione, è l'essenza stessa di questa scrittura, il respiro di purezza, in essa condensato, che diviene la sostanza stessa di tutte le cose che tocca, una materia che appare pur sempre immateriale, sapientemente eterea – a significare che l'essenza ultima di tutte le cose è in se stessa immaterica, corpo intangibile, Anima, che si coniuga nel divenire di ogni essere. È questa la dimensione del prodigio, immanente nelle cose tutte della terra e del cosmo: il loro divenire, la perpetua Creazione  che è il ripetersi dell'atto divino in ognuna di esse.
   Una delle virtù o delle disposizioni dell'animo che incontriamo sempre in Otù è, perciò, l'empatia , l'accettazione non solo delle proprie esperienze, ma anche l'accoglimento di quelle altrui entro la propria anima, a diventare parte di un se stesso sempre più vasto, in grado di entrare in comunione con l'intima essenza delle cose, di percepirne il “midollo” -secondo l'appropriata definizione dell'Autrice -  e l'Anima che le attraversa, in un sentire dharmico, in armonia con le leggi che governano il cosmo, che gli consente di maturare una sempre più affinata visione.
   Così, anche le esperienze di dolore, nella sua anima che tutto comprende e tutto accoglie, “si tramutavano in miele”, e “una cosa che può sembrare perduta nel mondo può appartenere all'anima per l'eternità”. Parole queste di struggente bellezza, che, nella sua essenza, è il prodigio di una struggente verità.
   Lasciata Narsi, dopo aver ultimato il lavoro nella casa del governatore, Otù torna a Plurima dalla madre, e poi insieme decidono che è ormai tempo di chiudere il cerchio delle esperienze esistenziali che li hanno condotti lontani dalla loro “sorgente”, dall'amata Tiarè, città simbolica, punto dell'anima da cui origina la loro vita a partire dall'identità fisica ed animica che li costituisce. 
  Così tutte le esperienze di Otù, i suoi attraversamenti intramondani, rappresentano un metaforico cammino che procede verso una precisa meta, quella alla quale siamo chiamati e che costituisce il nostro destino, la riappropriazione di noi stessi, vale a dire il ritorno a quella divinità che ci manca e di cui avvertiamo il “vuoto”.  Un concetto, questo, che ritorna spesso, nel testo, in contrapposizione a quello del “pieno”, riferibile l'uno all'elemento femminile, l'altro a quello maschile che ha  il potere di colmare tale vuoto. Ritorna nella forma e nell'essenza del vaso che le mani sapienti di Otù hanno imparato a forgiare, e nel quale è evidente la loro compresenza. Il loro senso simbolico ripropone, perciò, l'idea della complementarità fisica ed animica tra uomo e donna, e questa  rinvia al rapporto dialettico tra finito e infinito, e ciò che è terreno, alla paternità dei Cieli.
  Gli accadimenti narrati sono, dunque, tappe e luoghi dell'anima, emblemi e paradigmi di come questa, partita da se stessa, da quella divina scintilla che il Creatore ha posto in ciascuno di noi, a se stessa ritorna. Ritorna, cioè, ad appropriarsi della sorgente del suo essere, della divinità, posta in noi come potenza che può divenire atto – per dirla con Aristotele. 
   Così il libro  può essere percepito come una grande figurazione allusiva: l'allegoria di un percorso salvifico che è ritorno alla propria anima, al pieno possesso di essa, cioè, a quella promessa di divinità, che se conquistata coincide con la nostra salvezza.  In questa luce, l'opera ci riconduce allo stesso soterico cammino che Dante descrive nell'allegoria della sua Commedia, al paradigma eterno, che ha in sé il senso stesso dell'esistenza: un arduo instancabile cammino alla ricerca del se stesso, del vero se stesso: il compito ultimo, autentico, cui ci destina la vita.
  Otù ritroverà Ula inaspettatamente, proprio perché la vita, che è continua creazione, è prodiga di doni, di sorprese, di prodigi che ci giungono spesso inaspettati. Attraverso il ricongiungimento con la sua metà, Otù sarà proiettato in una dimensione di sconfinamento che sarà eterno come il Symbolon che lo rappresenta. E le due metà,  l'individualità dell'uno e dell'altra, si compenetreranno in una nuova unità attraverso la legge dell'Amore che è eterna Creazione.
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