Francesco Maria Cannella, "Non saltare giù dal letto prima di mezzogiorno" (Ed. Thule)

di Antonio Martorana

  

 

Il lettore fedele alla tipologia del romanzo tradizionale, il cui statuto prevede la forma dell’algoritmo, rispettosa, nella sua linearità sintagmatica, della gerarchia del prima e del dopo, sull’asse del dire, rischierà di sentirsi risucchiato in un vortice di straniamento, nell’avventurarsi all’interno del labirinto del romanzo di Francesco Maria Cannella: Non saltare giù dal letto prima di mezzogiorno, uscito per la ‘Collana Narrativa’, Edizioni Thule (Palermo, 2016). D’altronde, questo è un testo che sembrerebbe escludere, a prima vista, ogni possibilità di corresponsione con quello che ad oggi i narratologi definirebbero “patto narrativo” tra lettore ed Autore.

Eppure, chi si addentra nel racconto, prima o poi non potrà non sentirsi preso da quel modo di procedere che Viktor Šklovskij, nel saggio Una teoria della prosa (Garzanti, 1974) definisce “a schidionata”, per l’alternarsi incalzante di giustapposizioni di episodi secondari sui principali e viceversa.

Ma tale meccanismo giustappositivo, comportando ritardi e complicazioni, non àltera quella che Tomaševskij definisce la “logica di base” della matrice, il suo tentativo connettivo-sintattico (Boris Viktorovič Tomaševskij, La costruzione dell’intreccio, Einaudi, 1968). Perciò Cannella può avvertire il lettore che “la struttura del romanzo è il risultato di un attento connubio tra episodi primari e secondari: gli eventi principali della storia, infatti, sono ritardati da discussioni, dialoghi, racconti e parentesi che solo in apparenza non risultano pertinenti, ma che effettivamente sono il vero collante del romanzo” (p. XII).

Si verifica, insomma, che ogni sequenza (micro-récit) risponde pienamente alla definizione che ne dà Roland Barthes: “una serie logica di nuclei uniti tra loro da una relazione di solidarietà” (R. Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti, Bompiani, 1969).

Sotto il profilo stilistico ci troviamo in presenza di una cifra anarchicamente aperta ad ogni intemperanza, registrando continui sorpassi dell’immaginale sul verbale, e viceversa. Una girandola che può frastornare, eppure non è difficile cogliere una sostanziale identità tra mundus imaginalis e significato. Si potrebbe dire con Jung che qui “…immagine e significato sono identici, e come la prima si forma, così il secondo si chiarisce. In realtà, alla prima non occorre propriamente nessuna interpretazione, essa rappresenta il suo significato”. L’Autore ha la piena consapevolezza della carica eversiva che sta alla base dello statuto ontologico del suo romanzo, quando afferma che “la trasmissione delle sensazioni e delle atmosfere non si basa sulle descrizioni, ma è affidata ad unico grande flusso di coscienza ritmato dagli accenti” (p. XI), analogamente a quanto avviene, ad esempio, nell’Ulisse di Joyce. Conseguenziale è perciò una destrutturazione del racconto, con un montaggio e rimontaggio dei pezzi “in modo straniante ed eterodosso” che infrange “i dogmi tradizionali della narrazione cronologica” (p.XII).

 Viene in tal modo scardinata l’impalcatura storicistica e diacronica del raccontare classico, centrato sulla “suite des événements” (Manzoni, Lettre à Monsieur Chauvet sur… - 1820), funzionale all’unità totalizzante dell’intreccio.

Il dichiarato sganciamento dalle categorie spazio-temporali (l’Autore parla di “frantumazione temporale di derivazione lockiana”, riferendosi ad “una sorta di tempo coscienziale, caratterizzato da continui salti dal presente al passato e viceversa”) basta a far ascrivere il testo nell’ambito tipologico di quel romanzo che Albert Thibaudet, come a volerne sottolineare l’eterodossia, non esita a definire “bastardo” e “proteiforme”.

Siamo in presenza di un modulo, una delle cui matrici teoriche può essere individuata nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), che fu una delle due dissertazioni presentate da Bergson ai fini del conseguimento del dottorato in filosofia presso la Scuola Normale di Parigi.

Il punto focale di tale lavoro era il concetto di tempo psichico, contrapposto, per la sua incommensurabilità, alla nozione di tempo misurabile, scandito dalla clessidra e dall’orologio. Lo spazio del romanzo, entrando in combinazione con una temporalità che si frange, arretra o balza in avanti, finisce anch’esso per dilatarsi e restringersi sotto la spinta di una carica immaginativa intensa. [Da qui anche Marcel Proust]

L’adozione di un codice è conseguenziale, dunque, agli assunti teorici da cui prende le mosse Cannella: è “un codice che ha tutta l’immediatezza di dar voce, tra sarcasmi e pietà, alla tragicommedia del quotidiano, in cui lo spettacolo dell’abiezione scatena un riso liberatorio, un divertimento grottesco più forte dell’incubo”.

Guardandosi allo specchio, lo scrittore-protagonista riconosce le proprie qualità di “buon osservatore” di un mondo in cui è facile “falsare la struttura del mito” (p. 84), di un mondo “alla rovescia, tutto il contrario dell’opposto” (p.85).

Se Cannella implicitamente condanna l’attentato al sistema dinamico dei simboli che connota la struttura del Mito, è perché riconosce a questo la funzione di “esprimere il significato profondo delle cose” (Paul Ricoeur, La sfida semiologica, Armando Editore, 1974). E ciò tradisce in Lui il bisogno di recuperare una primitiva purezza e autenticità, a fronte dei fenomeni deiettivi (il Verfallen heideggeriano) per cui l’uomo decade dal proprio autentico poter - essere - se - stesso nella gretta quotidianità della pubblica opinione e del sé impersonale.

Così è il Protagonista ad avvertire il bisogno del riscatto dalla condizione di difettività del Dasein (Esserci), quando afferma: “Ma ciò che non sopporto, più di tutto, è vivere una vita alla carlona sapendo che non potrai mai spiegare le tue frustrazioni - le ripicche che ti hanno inflitto - la nèmesi, la storia della tua famiglia racchiusa e stretta in un pugno livido come un aborto, un utero prigioniero di una vita non tua eppure indotta…” (p.76).

 Considerando tale disagio esistenziale in chiave heideggeriana, cogliamo in quello sfogo la “situazione emotiva” di un’apertura alla progettualità come bisogno insopprimibile di prendersi cura delle cose, degli altri e di se stesso, fino a poter comunicare e “spiegare” finalmente le proprie frustrazioni. Si riflette nella sofferenza interiore dell’Autore la crisi di identità che affligge la società del nostro tempo (“Si sbagliò la colomba. Si sbagliava.”, Rafael Alberti; “Si è perso un uomo, oltre lo spazio, oltre il tempo”, Raymond Queneau).

La forma monologante adottata e la ricerca di un’estrema essenzialità espressiva ricordano gli autori del Nouveau Roman, come Alain Robbe-Grillet e Nathalie Serraute.

L’Autore sembra essere sulla stessa lunghezza d’onda delle teorizzazioni e dei precetti formulati dai citati scrittori: “Il Nuovo Romanzo non è una teoria, è una ricerca (recherche), Robbe-Grillet; “Il Nuovo Romanzo rifiuta i vecchi accessori inutili” (refuse les vieux accessoires inutiles), Nathalie Serraute. Così possiamo intendere la tensione polisemica del comunicare in Cannella come una ‘ricerca’ al fine di adeguare il proprio dictum al reale extralinguistico e alla multiforme e variegata complessità della vita. C’è in Lui il bisogno di cogliere la mobilità e la vera essenza del linguaggio, che in un certo senso corrisponde alle riflessioni di Hans George Gadamer sui limiti del sistema convenzionale.

Scrive infatti Gadamer: la parola “è un voler dire, un intendere, sfiorandolo appena; va sempre al di là di quel che realmente, nella lingua, nelle parole raggiunge l’altro. Un’esigenza inappagata della parola giusta: ecco che cosa costituisce la vera vita e la vera essenza del linguaggio”. (H. G. GADAMER, I limiti del linguaggio, in Linguaggio, a cura di  D. Di Cesare, Laterza, 2005).

Il rifiuto dei vecchi accessori significa in Cannella mettere al bando qualsiasi verosimiglianza, vista la sua conformità ad una realtà convenzionale e di comodo.

Si spiega la prosaicità sconcertante sino a sfiorare la blasfemia di certe immagini, destinate a turbare i benpensanti, e tuttavia indicative della brutale franchezza del rapporto che l’Autore intrattiene con la realtà (“risalire la Storia dal tuo buco di culo e invitare nuovamente un’altra fuligginosa Pasqua al vade retro”, p. 90).

Se Hegel, riferendosi al romanzo del suo tempo, lo definiva una “epopea moderna borghese”, il romanzo di Cannella, che potremmo definire ad autofocalizzazione costante, rappresenta un’epopea post-moderna, il cui protagonista è “l’eroe moderno, prevalentemente un inetto con il suo io frammentato, confuso, debole ed irrisolto ad auto-annullarsi per coscienza di sé, ad immolarsi kafkianamente in un suicidio morale, categorico, scomponendo all’interno del suo stesso io, resosi partecipe, la negazione del racconto costruitosi addosso” (p. XII).

Sono parole speculari al disagio esistenziale dell’Autore, nella consapevolezza che l’uomo sta perdendo ogni punto di riferimento, in un’alienazione crescente. E l’immagine dell’inettitudine chiamata in causa sembra echeggiare quanto scrive Robert Musil ne L’uomo senza qualità: “Non c’è più un uomo completo di fronte ad un mondo completo, ma un qualche cosa di umano che si muove in un comune liquido nutritivo”.

Nella visione di Cannella è il mito a porsi agli antipodi della heideggeriana Gerede (“chiacchiera”), quella modalità inautentica del discorso (Rede) che, insieme alla “curiosità” (Neugier) e all’ “equivoco” (Zweideutigkeit), caratterizza l’Esserci nella quotidianità.

La posizione di Cannella dinanzi alla mitopoeia non si apre certo all’ottimismo, come quello che permea l’affermazione di Peter Berger secondo cui “E’ attraverso il mito che gli uomini si elevano sopra la schiavitù del quotidiano, conseguono grandi visioni del futuro e riescono ad attuarle” (Pyramids of Sacrifice), ma risponde tuttavia all’esigenza di recuperare una primitiva dimensione di purezza e di autenticità.

Nella filigrana del romanzo si coglie il valore fondato del mito relativamente ai valori morali, e, potremmo aggiungere, anche il suo carattere terapeutico, su cui molto insistono gli psicoanalisti americani (Rollo May, Il richiamo del mito, Rizzoli, 1991).  “Il mito è dunque un ingrediente vitale della civiltà umana; non favola inutile, ma forza attiva costruita nel tempo” (Bronislaw Malinowski; Magic, Science and Religion).

Ed è assai significativo, nelle pagine di Cannella, il velato connubio tra mito e memoria, configurandosi il Mito, con il suo sostrato mnesico, direbbe Sartre, “un comportamento di trascendenza”.

E’ stato Adler a sviluppare il fondamentale concetto della “fantasia guida” come sinonimo di “mito”: il termine sta ad indicare un particolare evento della prima infanzia che, tenuto vivo dalla memoria, viene trasformato in mito, sì da diventare il principio conduttore dell’esistenza. “Per il resto della vita, l’individuo guarda a questa ‘fantasia guida’ come al mito segreto di se stesso” (Rollo May, Il richiamo del mito, cit. p. 60). Così tra i vari recuperi memoriali di cui è disseminato il testo, possono acquistare un significato mitico anche le “battute memorabili con le pistole alle mani e il pasto caldo da consumare in fretta” con riferimento al film di Sergio Leone Il buono, il brutto, il cattivo.

Tale reminiscenza del Maestro del “western all’italiana”, al pari di “una gravida Cinquecento fatta di ricordi”, sono gli appigli mnesici che, grazie all’adleriana “fantasia guida” del protagonista, si colorano di una significatività magica proiettata nella poesia.

E’ il recupero della funzione liberatoria del Mito, nel rovesciamento degli schematismi convenzionali in cui la vita si è irrigidita.

Analoga è la funzione del riso, vera insopprimibile forza oppositiva contro lo “spettacolo dell’abiezione” offertoci da questo mondo alla deriva. Attraverso la sua Scarica vengono alla luce i contenuti preconsci o inconsci inibiti e socialmente compressi, finalmente sganciatisi dalle strettoie della logica e delle censure imposte. In tal senso troviamo nel ‘racconto’, volendo utilizzare una terminologia greimasiana, la compresenza di due isotopie contrastanti, cioè di due piani conflittuali di contenuto (A. J. GREIMAS, Semantica strutturale, Rizzoli, 1968).

Ciò spiega l’opzione di Cannella per il comico-ironico, come modalità rappresentativa più adeguata, la chiave per forzare la chiusura precaria della realtà e irrompere all’interno della stessa smascherandone le contraddizioni che si annidano come germi patogeni nei suoi interstizi.

Mito-Memoria-Riso sono dunque le piste narrative dalle quali decolla l’immaginario dell’Autore: una formidabile miscela di anticorpi valida ad immunizzare dalle patologie che affliggono la società odierna.

 

Il fatto che Cannella, a chiusura del racconto, collochi quasi a mo’ di naturale prolungamento un passo tratto da uno dei libri capitali del Novecento, e cioè Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, è segno che ha voluto significare una chiara consonanza con un Maestro capace, come forse nessun altro, di demistificare la realtà, rendendola in fantasmatiche e allucinate polarizzazioni simboliche, tramite un linguaggio che, nel rifiuto di qualsiasi falsa innocenza, riesce a mimare l’autenticità del parlato.

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