Fermate la vita, voglio scendere. Recensione a “Exfanzia” di Valerio Magrelli, Einaudi, 2022 - di Mario Inglese

Il titolo dell’ultima raccolta di versi del poeta romano riprende quello del secondo capitolo di Nel condominio di carne e come in quest’ultimo libro si inizia con un riferimento all’infanzia. Per certi aspetti Exfanzia rappresenta una summa del lavoro in versi, ma non solo, finora compiuto dall’autore. Vi sono presenti alcune costanti dell’opera di Magrelli: infanzia, identità, corpo, malattia, sguardo, mass media, società, invettiva civile, per esemplificare. Dal punto di vista formale osserviamo ancora una volta il rifiuto del “poetichese”, lo sperimentalismo dei metri e delle strutture strofiche, la prevalenza delle forme brevi. Non manca neppure il ricorso a una certa narratività, che si affianca all’attitudine, tipica in Magrelli, al ragionanemento serrato a partire da un’intuizione. Ancora una volta la poesia nasce da un corto circuito del pensiero, più che da un’illuminazione. Siamo sempre di fronte – io credo – a una poesia che si presenta all’apparenza semplice, lineare, ma che in realtà si sviluppa attorno a un’intuizione innescata dall’osservazione di alcuni fenomeni o epifenomeni, per mostrarci che le cose non stanno esattamente come appaiono ma suggeriscono implicazioni profonde, e pertanto nuove, in chi le vede senza quella distrazione che la vita quotidiana spesso comporta.

Il libro ha una sua logica interna precisa e si snoda attorno al tema della vecchiaia, o perlomeno dei prodromi dell’età estrema. In verità queste avvisaglie erano già presenti nelle precedenti raccolte e nei libri di prosa. È come se Magrelli le avesse volute esternare per meglio prepararsi all’avvento definitivo di questa fase della vita. Nulla della ciceroniana apologia contenuta in De senectute, per intenderci.

Se il comprensibile insistere sulle metamorfosi – sempre in peggio – del corpo rimandano, come è ovvio, a Nel condominio di carne, altre manifestazioni cui ci ha abituato l’autore rinviano a testi quali Il sangue amaro o Disturbi del sistema binario o Il commissario Magrelli. Ecco dunque, per citare, la repulsione per i rumori imposti, inclusa la musica non scelta (“E ricominica la solita tortura”), l’avversione per il cattivo gusto (“Sopra una mostra di Georgia O’ Kitsch”), il corpo come gabbia  (“Pensavo di soffrire / come un criceto in gabbia. / Soffro, / invece, / perché sono la gabbia.”

“La vecchiaia è questione d’idraulica, / la valvola mitralica che perde, / l’urina che non viene trattenuta, / lacrime. / Basta un attimo e senti già che affiorano: / io non pensavo d’avere dei terreni / talmente acquitrinosi, d’essere, io stesso pantano!”, scrive Magrelli. Come non pensare, ancora una volta, a Nel condominio? Il poeta si domanda se sia “possibile uscire vivi dalla vecchiaia” ma subito vede sul suo volto, in un’impercettibile, inesorabile trasformazione, scolpirsi i lineamenti dei genitori morti. Segno di una catena che ci lega alle nostre origini biologiche ma che ci addita anche quanto la sorte ci riserva dietro l’angolo.

Non mancano gli autoimprestiti (si vedano “Calchi e gessi” e “In regione dissimilitudinis”), o “autotrasfusioni”, come le ha chiamate il poeta, ma in Exfanzia sono in numero ridotto rispetto ad altri volumi. Così come è presente la riflessione sulla natura del fare poetico, sulla “metapoesia” (basta solo menzionare “Etimologica”, dove apprendiamo la derivazione di “poesia” da “pus”, la poesia come “infiammazione del linguaggio”).

Vivere non è necessario, ci ammonisce l’autore, e ogni giorno assistiamo a una resurrezione inutile di noi stessi, dove ci sdoppiamo all’infinito senza mai raggiungere l’unità, la nostra vera identità. Si è parlato di personaggio che si costruisce nel corso del libro; preferisco parlare di scrittura autoriflessiva, attraverso cui il poeta interroga se stesso e il proprio corpo, così come autoriflessiva, persino “autofinzionale”, è la scrittura di Nel condominio. Perché scrivere è il solo modo per dare un minimo di senso al nostro esistere e la vecchiaia che incombe è certamente il vestibolo che conduce a un redde rationem con noi stessi. E se oltre alla scrittura vogliamo scorgere una luce in questo buio tunnel o prigione che è la vita, ci fa notare Magrelli, bisogna scorgerla nell’amore per, e nelle, persone care, in primis la propria famiglia, e in quella sorta di aurorale ‘oltre’ che trascende la nostra esistenza rappresentato dalla bellezza o dalle altezze della musica.

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