Ester Monachino, "99 petali e 1 sortilegio" (Ed. Thule) - di Guglielmo Peralta

LA ROSA E LE SUE DECLINAZIONI NELLA POESIA MAGICO-RITUALE DELLA MONACHINO

 

 

La Rosa è regina dei fiori, come la Parola lo è del linguaggio. In questo parallelismo s’inserisce e fruttifica il discorso poetico di Ester Monachino a ‘coltivare’ e raffigurare tutto un giardino di “rose” aulentissime, sbocciate dalla gemma dell’origine, dalla Parola assimilata alla Rosa, simbolo d’amore, di bellezza, della creazione, nonché della rinascenza, dal momento che non mancano le spine e “di sangue e latte” sono i versi, le parole “che declinano i battiti dell’Anima”. E sono “petali” che profumano di rosaverbo, privi della corolla e del calice, del legane necessario per la composizione unitaria del Fiore impareggiabile. Manca sempre un petalo da aggiungere ai 99 affinché si compia il “sortilegio” e all’improvviso si sveli il mistero, accada l’evento magico della Poesia, o della Rosa mistica: il fiore più bello, attributo della Vergine, il quale si addice alla natura celeste della Creazione, del  “punto zero, immateriale, (in cui) s’avvia la sua partogenesi”,[1] ma che, tuttavia, resta sconosciuto e ineffabile perché tutto “si crea ex nihilo” e del nulla non ci è concesso di sapere più di quanto apprendiamo dalla filosofia. Eppure, feconda è la parola votata alla Poesia; il suo profumo inebria e ci distoglie dall’acre e amara condizione esistenziale perché essa è vita che nutre la vita, perché, come asserisce Heidegger, nel linguaggio abita l’Essere, e il nostro stesso ‘esserci’ volge a una dimensione più ‘autentica’: respiriamo “cosmicità e alterità” nell’interiore profondità e ‘siamo’ l’essenza della Rosa che sublima e unifica le contraddizioni, che sollecita e dà vigore al pensiero elevandolo e mediando fra Eros e sentimento del divino, fra la realtà terrena e il sovrasensibile.

      Non mancano, in questa silloge, i riferimenti ai miti della classicità, che conferiscono particolare liricità alla poesia della Monachino, dove la bellezza ellenica si fonde con la sapienza biblica e la sacralità cristiana attraverso il filtro della rivelazione. Essere fedeli alla Rosa è respirarne e aspergerne la “fragranza / che sprofonda e svetta”; che feconda il pensiero, gli dà la forza del “Suono Nascente”, della “novella Parola”: mistero e sortilegio che, per magia e per grazia, all’improvviso si ‘manifesta’ lasciando affiorare e svettare dal «caos» profondo la «stella danzante», di nietzschiana memoria. C’è, dunque, vitalismo in questo pensiero della Monachino, che si nutre di filosofia e di poesia, ma che, al tempo stesso, si eleva, incede e procede liturgicamente dalla sorgente unica generatrice del cielo e della terra e riconosce il valore superiore della vita in tutte le sue forme, qui declinata in forma di Rosa, emblema, quest’ultima, di Luce e dell’“inaudibile Amore”, al quale il pensiero, devoto, presta ascolto e incide in modo “indelebile nell’Anima” con i suoi odorosi “petali”, con il dolce sussurro delle parole, dei versi. Vari sono i nomi e gli attributi della Rosa. Essa è Parola, Essere, Verità, Amore, Poesia, Grazia, Luce, Bellezza, Saggezza, Mistero, “Esperienza di sacralità”, “Maternità”, Vita, che nel suo scorrere s’interroga e si cela; che, tra dolori e inganni, dispensa sogni e incantamenti; che vuole fortemente sé stessa lasciando ai filosofi e ai poeti “gli arcani segni alchemici” ché li conducano all’approdo, là dove la Rosa ha occhi dove guardare il mondo e vedere sorgere l’Aurora. Perché essa è l’oracolo, e il canto è “la sillabazione dei misteri” che apre nuovi occhi alla visione dentro il “paese dell’Anima”, che “non ha limiti” e dove noi, sconfinando e sconfinati, “Abbiamo la sua cittadinanza”. Qui, è il “punto infinito”, il cuore della Rosa, dove siamo, dov’è “il frutto dell’Io Sono”; dove le parole e ogni “forma” ricevono “il bacio” della “quintessenza”, la quale v’imprime l’identità profonda di chi, come la nostra poetessa, ha imparato a coltivarle, a farne petali radianti. - “giardiniere di roseti, io: / emergo dalla tua impronta di luce” - “Rosa, chi è il vedente / chi il visibile?”, si chiede la Monachino. Il vedente è chi contempla il sogno. E il sogno è il visibile: la Rosa, il Fiore di Coleridge, che al ‘risveglio’ vorremmo tenere in mano per avere certezza del paradiso, di esserci stati, non solo da sognatori. Perché fare poesia è mangiare dell’albero. Senza divieto. È attingere alla sorgente il “Canto un canto mai cantato (…) sogno nuziale del Poeta (…) canto di trasfigurazione. Amore.” Così è il linguaggio di questa silloge: ‘trasfigurato’. Esso si ‘oltrepassa’, va oltre le proprie ‘figure’ e mostra i “segni profetici” del difficile cammino, del ‘calvario’ di “sangue e latte”; di “carne / che sa ruggire e piangere” e di spirito nascente; di petali e spine; di passione e stupore. Esso lascia intra-vedere la Rosa, nascosta tra i significati. La ‘tocchiamo’ nel sogno dello sguardo, in interiore, dov’è la nostra vita segreta, la vera conoscenza. Ci ri-conosciamo nella “Parola essenziale”, poetica, che ci trasfigura. E il linguaggio è il nostro ‘costato’ che ci rende riconoscibili e ‘divini’. Perché per noi parla la Rosa. “È in noi e in ogni luogo”, ed è il Tutto, e “una particola”, ogni suo petalo, è “il centro del Tutto”. Così la Monachino: “Nel tuo centro ci sono anch’io, Rosa”. “La tua saggezza / è nell’essere il Tutto e te stessa, / fiamma amorosa, colore.” Qui, il dire della nostra poetessa prende quota; il canto è tutt’Anima; ogni cosa splende e appare purificata; ché “carne di luce, luce di carne” e “Maestra d’Amore” è la Rosa. E tutto l’essere del mondo sogna ed è nelle sue “fioriture”, nella sua “essenza”. Leggiamo ed entra negli occhi l’universo. Assistiamo a un sogno che cresce, si costella e si espande in una galassia di luci, colori, sapori, profumi, suoni, immagini, che tocca i nostri sensi e ci rapisce. È, questo linguaggio, tutto un fluire di “acque sorgive”, un fiorire di piantagioni, dove si coltivano zolle di stelle: parole di luce, che celebrano lo sposalizio del cielo e della terra; che annunciano epifanie, nutrono l’Anima di nuovi succhi e lasciano “in bocca / le gioie segrete e indicibili”. Colpisce in questa silloge la profondità di questo linguaggio, prossimo al ‘dire’, (Sage), frutto della ricerca della parola ’veritativa’, che va oltre il suo significare e lascia “affiorare il succo interiore delle cose (…) l’impalpabile attraverso il materico, l’impossibile e l’indicibile[2]. I 99 petali ricordano i 64 esagrammi che compongono il libro dei Ching, il libro dei mutamenti, di filosofia orientale, scritto per offrire un percorso di meditazione sulla vita umana e sul creato, per stimolare la ricerca del SÉ, di quello che si aspira a essere, e acquisire una propria, intima saggezza. È un testo, questo della Monachino, di ‘esplorazione’ interiore, d’interrogazione e ricerca di contatto con l’Io profondo e con l’universo: l’uno e l’altro non sono separati, sono unica creazione, unico poema. Perché “l’Anima del sé (…) è Anima Mundi[3]”, afferma la nostra poetessa ricordando Hillman. Grande saggezza, dunque, grande sapienza della parola poetica, che, attraverso la sonorità, la delicatezza e la magia alchemica e ‘oracolare’ dei suoi “petali”, ci fa partecipi e coscienti di appartenere all’Uno, di essere parte della Rosa, dell’armonia universale. Dentro questa poesia c’è un tempo infinito, all’interno del quale sembra di assistere alla nascita della luce, che squarcia le tenebre e orienta e apre infinite possibilità, nuove esperienze. C’- è la vita che si fa interprete dell’arcano mistero dell’Essere; che si rigenera e gravita verso l’impareggiabile bellezza; che imita la Rosa e promette nuove fioriture per scrivere, alfine, il suo poema.

 

[1] Dalla nota dell’Autrice

[2] Ivi

[3] ibidem

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