“È L'ORA DI UNA NUOVA COSTITUENTE. “NO” A QUESTO “TAGLIO” DEI PARLAMENTARI” di Aldo A. Mola

Al referendum votare “No”
Al referendum del 20-21 settembre occorre votare “No” taglio dei parlamentari. Non in omaggio a quelli in carica, che approvarono in massa la mortificazione delle Camere e quindi di sé stessi. Non solo contro questo pessimo governo, presieduto da Sua Emergenza Giuseppe Conte. Dinnanzi alla scelta tra il “Sì” e il “No”, l'astuto Avvoltoio Appulo si fa remoto, volteggia in attesa dell'esito delle urne per pasteggiare con le spoglie dei vinti e dei vincitori. Unico Precario d'Italia issato al potere a tempo indeterminato, è stato portato sugli scudi da due successivi alleati dei suoi sponsor originari, i grillini (leghisti prima; piddini, italovivaci e leu-cociti poi), da sfasciacarrozze mutati in cocchieri di gala del Potere. Un Publio Ovidio Nasone avrebbe da poetare all'infinito sulle continue metamorfosi di partiti e “politici” italici d'oggi.
Ma non è questo il punto. A togliere ogni dubbio sulla necessità di votare “No” al referendum sono i “ragionamenti” di chi, come Stefano Folli in “La Repubblica”, mette in guardia dal temuto ritorno alle urne politiche quale effetto di un voto “destabilizzante” e tira la giacca di Sergio Mattarella, attribuendogli ferma contrarietà all’eventuale vittoria del centro-destra. Gli fa torto perché il Capo dello Stato d'Italia non è, né può essere, lo sponsor di questo o quel governo, dell'una o dell'altra maggioranza, ma è il garante dell'esito del voto, della sovranità nazionale. E sicuramente Mattarella vuole esserlo.
Votando “No” i cittadini mandano un preciso Messaggio alle Istituzioni e anche a chi dal Quirinale ha molto da dire sul profondo malessere delle Istituzioni stesse, sugli abusi di potere del presidente del Consiglio dei ministri, sul cumulo di decreti presidenziali e di decreti-legge (“pratica” deplorata dal presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati) da convertire all'ultimo momento ricorrendo al voto di fiducia, che in molti casi è un ricatto delle Camere. Lo si è veduto in questi giorni: il Parlamento ha inghiottito il rospo della abnorme proroga dei capi dei servizi segreti infilata in un decreto-legge di tutt'altra genesi, quasi superdose di solfito nella salsiccia di Bra: tanto rilucente quanto dannosa, come la maggior parte delle “cose rosse”.
Votare “No” al referendum significa richiamare all'ordine un Parlamento nato dalle sbandate umorali di un Paese da decenni in confusione ma che da tempo ha mutato direzione, come lasciano intravvedere tutti i “sondaggi” e confermeranno le urne il 20-21 settembre nelle regioni e nei comuni chiamati al voto. Dopo anni di slogan, regalie e mance, rinsavito forse proprio per via della pandemia il Paese si pone finalmente l'interrogativo inquietante: chi, quando e per quanto tempo pagherà tutti i debiti contratti dal governo, in buona parte sperperati in forniture meritevoli di inchieste (si pensi ai banchi per “dervisci rotanti”, risibilmente detti anche “monouso”) anziché destinati a raddrizzare le gracili gambe del sistema Italia, stagnante da un quarto di secolo.
I partiti di governo hanno il consenso del 25% degli elettori
Tocca ai cittadini difendere il poco che resta del loro diritto a essere rappresentati alle Camere e, di conseguenza, al governo. Chi vota “Sì” mette l'Italia nelle mani delle “cupole” sovrastanti i tre o quattro partiti maggiori, liberi di decidere in piena solitudine e senza alcun controllo democratico i futuri parlamentari, scelti fior da fiore tra i segugi più proni anziché tra le persone più competenti.
Ma gli sfiorenti “cerchi magici” chi rappresentano oggi? Tutti insieme i partiti al governo sommano il consenso potenziale del 40% dei votanti. Cinque Stelle, col 15%, Democratici (per modo di dire), con meno del 20%, Renziani e Leu col 3% circa ciascuno costituiscono una minoranza dei consensi dei votanti. Ma questi, in specie alle regionali e alle comunali, sono appena il 50% o poco più degli elettori. In concreto, a conti fatti i partiti oggi al governo tutti insieme hanno il consenso del 25% degli elettori. Pochi, insomma, per pretendere di decidere il futuro del Paese per un paio di generazioni.  Si dirà che gli assenti dalle urne hanno sempre torto e che quindi non meritano attenzione. Ma una democrazia sana, che alle spalle ha anche un tragico regime di partito unico e mezzo secolo di conventio ad escludendum del principale partito d'opposizione negli anni del “bipartitismo imperfetto” (felice formula di Giorgio Galli), non ha motivo di vantare la diserzione dal voto. Anzi, dovrebbe incoraggiare l'afflusso alle urne e salutare con favore la mobilitazione dei giovani non solo nelle movide e nelle discoteche ma anche nelle “piazze”, fisiche e virtuali.
Il taglio dei parlamentari, come noto e ammesso da costituzionalisti (Sabino Cassese in testa: se ne legga Il buon governo. L'età dei doveri, Mondadori)  politologi, esperti di scenari elettorali, storici, ecc., comporterà la desertificazione della rappresentanza politica di intere regioni già oggi trascurate, la ghettizzazione di immense aree condannate al sottosviluppo e all'arretratezza.
In concreto, il “Sì” è un voto contro l'Unità d'Italia che si realizzò tardi, non sempre al meglio e con immenso sforzo tra Otto e Novecento per elevare le condizioni del Mezzogiorno e delle isole a quelle delle aree già integrate con l'Europa industrializzata grazie alla infrastrutture: un cammino virtuoso frenato dalla onerosa partecipazione a due guerre mondiali, faticosamente ripreso negli anni del “miracolo economico” postbellico e poi nuovamente interrotto per la stagnazione del PIL. Quel voto creerebbe un regime di oligarchie sorrette all'interno da feudatari, completi di valvassori e valvassini, ma eterodirette e corrive ad andare spintaneamente a vento e a vapore, secondo i Grandi Suggeritori esteri, dagli USA a Mosca, da Pechino a (persino) Istanbul, ove da anni imperversa un totalitarismo islamico fondato sulla repressione di ogni forma di dissenso, nel silenzio dell'Unione Europea incline a strapparsi le vesti quando le vien comodo recitare una parte in commedia, ma pronta a indossare bavaglio e turbante quando gliene conviene un'altra.
Arginare l'antipolitica
Il “Sì” al taglio dei parlamentari è il punto di arrivo dell'antipolitica, è la vittoria di chi aveva promesso di scoperchiare il Parlamento come una scatola di tonno. Da decenni, da quando il Partito comunista italiano sparò a zero contro l'ala “occidentale” della DC, PSI, PSDI PRI e PLI e mise a frutto Tangentopoli e la leggendaria farsa detta “Mani Pulite”, il pregiudizio atavico contro i “politici” si è tradotto nell'indifferenza e nella peggiore diserzione civile: il “non voto”. È stato ripetuto sino alla nausea il cinico brocardo “tutto cambia perché niente cambi” e che governare in Italia non è difficile ma inutile. Sono battute qualunquistiche, che disprezzano gli enormi sacrifici di chi ha costruito l'Italia quale Paese unito, indipendente e a lungo libero. Se, malgrado tutto, essa non è affatto il fanalino d'Europa né, meno ancora, del mondo, lo si deve al Parlamento ispiato e guidato, nel tempo, da Cavour, Giolitti, De Gasperi e anche da Andreotti, Berlusconi e Prodi. Se in Italia l'ordine pubblico è retto con la forza della legge mentre altrove dilaga la violenza (la differenza è abissale) lo si deve alla lunga lotta per la democrazia rappresentata dal primato del Parlamento, che elegge il Cap dello Stato e al quale l'Esecutivo deve rispondere.
Non per caso, dopo una lunghissima serie di costituzionalisti, Romano Prodi e Silvio Berlusconi, pur così diversi, hanno deplorato e deplorano chi intende usare il “taglio dei parlamentari” per inquinare il legame tra elettori e loro rappresentanti (l'articolo 67 della Costituzione recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”: né ideologico, né religioso, né d'altro genere).
La conseguenza è nei fatti. In pochi anni l'astensione è balzata dal 15-20% al 40-50% e oltre, con grande soddisfazione di chi era e, ancor più, di chi è al potere; ma con altrettanto disgusto di chi non si preoccupa di sé ma per il futuro della democrazia parlamentare, fondamentale e irrinunciabile per la società civile (inclusa la demenziale “decrescita felice”, che ha bisogno di norme più di quanto ne abbia la crescita: la “natura” è più tutelata oggi che prima dell'industrializzazione).
Sta ai cittadini decidere se vivere in uno Stato costituzionale o nel Paese di Cetto Laqualunque. Nel primo caso si vota “No”, nel secondo si “taglia”, per far dispetto... alla democrazia.
Quando è la Camera a voler male all'Italia
A ben vedere, questo Parlamento forse non merita di essere difeso, se non contro se stesso, dai suoi errori, dalle sue debolezze: nell'interesse generale permanente de cittadini, non dei suoi improvvisati e sepsso stralunati componenti. Esso, infatti, votò con ostentato entusiasmo per la propria auto-mutilazione. Ma, come insegna l'Ecclesiaste, nulla è nuovo sotto il sole. Neppure sotto quello italico. Una minoranza di patrioti introdusse anche in Italia le libertà costituzionali, le irrobustì, le difese e le rese “normali”: da Melchiorre Gioia e Giandomenico Romagnosi (massoni) a Cavour e a Giolitti. Nel corso del tempo, però, proprio la Camera elettiva talvolta ha approvato leggi elettorali stupide e infauste. Il regime di partito unico non è stato una conquista del “truce” Benito Mussolini, ma il regalo dei deputati che via via gli conferirono tutti i poteri e che di legislatura in legislatura approvarono la propria evirazione: la legge Acerbo nel 1923 (quando il “regime” era di là da venire, con buona pace di affabulatori come Emilio Gentile), la legge Rocco nel 1928, la sostituzione della Camera succuba ma ancora elettiva nel 1929 e nel 1934 con quella dei fasci e delle corporazioni nel 1938-1939, composta smaccatamente di “nominati”. Il Senato andò a rimorchio. Non vi si levarono forti e chiare le voci di chi vi era entrato prima del regime di partito unico. Che cosa allora poteva fare di iniziativa propria un re statutario se le Camere si mettevano in ginocchio dinanzi al “duce”? Vediamo anche oggi i preoccupati silenzi del Capo dello Stato dinnanzi a una riforma che priverà intere regioni di propri rappresentanti e che azzera la libertà dei cittadini di scegliere i propri rappresentanti. Certo il Presidente dello Stato d'Italia non può sostituirsi al Legislativo né negare in perpetuo la propria firma a leggi approvate dalle Camere, salvo il vaglio della Corte Costituzionale. E' un’esperienza, quella odierna, che dovrebbe aiutare a capire il passato neppur tanto remoto della nostra storia.
Mentre i Cinque Stelle possono menar vanto di aver costretto alleati e oppositori a votare in massa una legge di cui ora in parte significativa molti deputati e senatori sono pentiti (“Sapientis est mutare consilium...”) il “democratico” Nicola Zingaretti e i suoi stretti referenti si debbono contentare della calendarizzazione di una proposta di legge elettorale solo una settimana dopo il possibile squasso del 20-21 settembre, quando potrebbe essere tardi per spegnere l'incendio. A fine mese il Paese sarà in pieno affanno per il caotico inizio dell'anno scolastico e per le ripercussioni del crollo del PIL, con quanto ne consegue sull'occupazione, in specie femminile e giovanile. Di lì, già si intravvede, dilagherà la tentazione dei “democratici” di cedere all'estremismo fanciullesco di proposte sempre più strambe in materia elettorale.
È il caso del conferimento del voto ai diciottenni per l'elezione dei senatori e dell'eleggibilità a soli  25 anni a membri del Senato, che, etimologicamente, sta per “Camera degli Anziani”. Questo, con buona pace dei costituzionalisti eventualmente corrivi a benedire la riforma,  sarebbe l'ennesimo colpo di Stato contro la lingua italiana, oltre che contro la decenza politica.
E' l'ora di una nuova Costituente
Che fare dunque?
Dopo decenni di proposte ingarbugliate di modifiche della Costituzione (fu il caso della Renzi-Boschi, che non eliminava il bicameralismo e istituiva un Senato farlocco) e di elogi stantii della Costituzione più bella del mondo, tempo è venuto di redigere una nuova Carta Costituzionale.
L'Italia va rimessa sulle proprie gambe e in linea con l'Unione Europea, di cui essa fa parte e di cui ha bisogno disperato perché senza le aperture di credito, parte meri aiuti e parte prestiti, che le possono arrivare da “lassù”, essa è condannata alla catastrofe. E' il caso del MES, da chiedere e da rendicontare senza imbarazzo alcuno, come si usa tra persone perbene.  Dopo decenni di stagnazione, che vuol dire regressione se gli altri vanno avanti, incombe l'ora del fallimento. Non è scritto in alcun libro del destino che questa sia la sorte del Paese, ma neppure che non lo sia. Paradosso vorrebbe che l'Italia finisse come l'Argentina proprio nel 150° di Porta Pia e proprio mentre a Roma vi è un papa arrivato “dalla fine del mondo”, come disse Francesco alla sua elezione.
Occorre una nuova Costituzione, dunque. Anche per fermare sul nascere i pericolosi cenni di Zingaretti Nicola a favore del monocameralismo. Non sappiamo quali siano le sue letture di storia e di politica. Sappiamo invece bene che tutti i regimi liberticidi sono stati partoriti dall'Assemblea unica. Cominciò Cromwell, poi fu la volta della Convenzione repubblicana francese del 1792 e via continuando sino ai Soviet, al regime hitleriano e a quelli tuttora imperversanti in molti Stati.
Nuova Costituente, pertanto, incardinata sulla divisione dei poteri e sul bicameralismo, che, per esperienza storica, in Italia costituisce una rete di sicurezza. Non per caso nel 1938 l'unica opposizione alle leggi razziali si registrò nel Regio Senato, ove esse furono approvate con 154 voti su 400 membri (nessuno chiese la verifica del numero legale!) e si registrarono dieci voti contrari (fra i quali Luigi Einaudi): pochi, ma “a futura memoria”.
È l'ora di una nuova Costituente, da eleggere con la proporzionale e una quota di sbarramento molto bassa: non superiore al 3%, o anche meno. Qualcuno troverà paradossale e persino astrusa questa ipotesi/proposta. Ma chi appena un poco conosca la storia politica, parlamentare, culturale e civile d'Italia non vi troverà nulla di abnorme né di scandaloso.
In età monarchica, dal 1861 al 1925, la pattuglia dei radicali e dei repubblicani era piccola ma pugnace, rispettata e ascoltata, proprio perché spesso dalle opposizioni pensanti vengono moniti lungimiranti. Il 16 novembre 1922 solo Eugenio Chiesa, repubblicano e massone, gridò “Viva il Parlamento” quando Mussolini disse che dell'Aula sorda e grigia avrebbe potuto fare “bivacco” per i manipoli delle sue camicie nere. Nel dopoguerra un contributo fondamentale ai lavori della Costituente fu dato dal minuscolo Partito d'Azione, già diviso in due (con Parri e La Malfa “a destra”), dotato di esponenti memorabili quali Leo Valiani e Piero Calamandrei. Anche se non sempre ascoltate, vi si levarono le voci delle minoranze, compresi liberali, monarchici e libertari. Fu il caso di Benedetto Croce, che si oppose all'iniquo Trattato di pace del 10 febbraio 1947, e del “fratello” Concetto Marchesi che, ricorda il suo biografo Luciano Canfora in Il Sovversivo. Concetto Marchesi e il comunismo italiano (Ed. Laterza, eccellente finalista al Premio Acqui Storia 2020), votò contro l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione.
Negli anni più difficili della Repubblica il partito liberale ebbe due soli senatori, Giovanni Malagodi e Giuseppe (Beppe) Fassino, eletto in Piemonte: una fiaccola che tenne vivi la Tradizione in tempi procellosi, quando il Paese affrontò e vinse la lunga lotta contro il terrorismo senza ricorrere a leggi speciali, bensì rafforzando lo Stato, le sue competenze, e chiamando i cittadini a far quadrato attorno alle Istituzioni, sollecitate ad ammodernarsi dall'indimenticabile Presidente Francesco Cossiga.
E quanto concorse al progresso vero del Paese la pattuglia dei radicali, con Marco Pannella, che fece eleggere euro-deputato Enzo Tortora? Erano pochi, ma tenaci e inventivi. Europei. Il Partito socialista di Bettino Craxi fu numericamente minoritario rispetto a DC e PCI ma politicamente più lungimirante. Se la “grande riforma” a suo tempo da lui avanzata avesse ottenuto più ascolto  anziché l'ostilità loro e di certi “corpi separati”, l'Italia non sarebbe oggi qual è: sull'orlo dell'abisso, mentre imperversa il conflitto governo-regioni, apparentemente sopito da Sua Emergenza nel caso Lampedusa/Sicilia ma destinato a esplodere all'indomani della conta de voti.
Coscienza e dignità
Qualcuno, come il Presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi, ha detto che la scelta tra il “Sì” e il “No” rientra tra le “libertà di coscienza”. Ha detto bene. Ogni cittadino ha in mano la sua parte di sovranità e il 20-21 prossimi potrà esercitarla in piena libertà. Chi vota “Sì” risulterà forse in maggioranza ma si accollerà la responsabilità storica delle conseguenze devastanti del taglio dei parlamentari, inclusa la disfunzione del Parlamento. Correrà dietro a chi dice di voler “fare nuove tutte le cose”, come il Mostro dell'Apocalisse,  ma sa solo distruggere e non ha alcun progetto di Ricostruzione del Paese. Chi invece vota “No” avrà l'orgoglio di aver messo gli altri sull'avviso e sarà in pace con se stesso. Non è il momento della diserzione ma della dignità. La rappresentanza dei cittadini è il sale della democrazia. Dopo tanti, troppi anni di “antipolitica”, il “No” è la premessa al ritorno alla Politica, la premessa della seconda Costituente, di cui il Paese ha urgente bisogno. Ogni “No” in più concorrerà a rialzare le sorti dell'Italia, mattone su mattone.
 
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