“Fenomenologia dell’anti radical chic” di Mario Bozzi Sentieri

Del  radicalismo chic conosciamo moltissimo e non solo per il sempre verde libro che è alla base di questa efficace definizione (“Lo chic radicale” di Tom Wolfe), sintesi dell’innamoramento dei Mondani  (ricchi borghesi) per i propri Nemici (Pantere Nere, attivisti sindacali, terzomondisti, eccetera). Frutto dell’età dell’inconsistenza e della banalità – per usare l’immagine di Christopher Lasch (“La cultura del narcisismo”)  - i radical chic hanno finito per scaldarsi alla luce dei propri idoli, venendone assimilati. “L’élite c’est moi”: Bernard-Henri Lévy si incarna sulla copertina del rotocalco patinato, mentre la vulgata radical chic impazza sui mass media, nei salotti televisivi, sulle prime pagine dei quotidiani, segno di rassicurante conformismo e di quieto vivere.

Ma gli altri ? Dei no-radical chic che cosa se ne sa ? Brutti, sporchi e cattivi – secondo la vulgata corrente. Ovviamente incolti, intolleranti, timorosi delle differenze …  In realtà – a ben guardare – i no-radical chic incarnano un’idea, certamente “altra”, ma complessa del mondo, con cui la cultura dominante (ed i mezzi d’informazione ad essa assimilata) prima o poi dovranno iniziare a fare i conti.

I no-radical chic rifiutano il quieto conformismo e l’omologazione corrente. Delle vecchie ideologie non sanno che cosa farsene, usando come metro il buon senso popolare, quella  capacità di giudicare con equilibrio e ragionevolezza la realtà, comprendendone  le necessità pratiche, di cui si era – per decenni – perso traccia. I no-radical chic sono orgogliosi della propria individualità, ma ripudiano l’individualismo borghese, neo ideologia di un uomo e di una donna “liberati” dai legami tradizionali (familiari, comunitari, nazionali, religiosi) e sempre più prigionieri delle frustrazioni/depressioni contemporanee.

Al “Dio morto” la vulgata radical  chic ha sostituito desideri e consumi, riprodotti all’infinito, mettendo da parte le autentiche domande sul senso dell’esistenza, sulla forza del “limite”, sulle “ragioni” del Sacro. I no-radical chic  comprendono l’emozione massmediatica per Notre Dame in fiamme, ma ancora di più, guardano con sgomento alle chiese vuote (o peggio trasformate in discoteche). I no-radical chic non si esaltano per le bollicine millesimate e per l’aragosta, preferendo lambrusco e ravioli. Si inquietano per il linguaggio contemporaneo infarcito di inutili anglicismi, rivendicando la loro appartenenza alla Penisola dei mille dialetti. Allo spread oppongono il lavoro quotidiano. Costretti a vivere in una realtà fisicamente  periferica ed anonima, amano la loro terra, quella concreta, segnata all’orizzonte da torri e campanili. Ascoltano la Greta nordica e si chiedono: il vituperato medioevo non aveva già capito tutto ? 

Di zone “grigie” i no-radical chic non sanno che farsene. Cercano e coltivano il sì si no no, pianta malsana per chi è eternamente abituato a mediare e a tutto concedere, nel segno di una progressismo infinito. Essi guardano all’oggi facendo appello ad alcuni principi immortali: il senso della Fede in un Dio ed in una Dottrina, che hanno informato la civiltà occidentale; la Patria quale senso di appartenenza ad una comunità, casa dei Padri, anima e destino spirituale; la famiglia come scommessa e lascito, presente e futuro insieme, carne e Spirito.

Nel senso del relativismo-ideologia è la ricucitura di senso che “agita” i no-radical chic: il Bello, il Buono, il Giusto sono le sfide reali sulla strada di una nuova ricomposizione culturale, sociale e  politica. E’ molto di più di un Progetto e di un Programma. E’ un’aspettativa, quella a cui i radical chic hanno rinunciato, appagati nel loro elitismo senza popolo, quella a cui un popolo guarda, magari inconsapevolmente, in attesa di una nuova élite che  renda palese e concreta questa aspettativa.

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