L’industria edilizia e la “maniera” di costruire a Palermo. 1898-1925

La scuola dell’architetto antico era il cantiere. Maestro diveniva l’artefice che maggior destrezza aveva acquistato nell’arte di costruire, che maggior intelligenza, fantasia ed ardimento aveva mostrato nello applicare, sviluppare e rinnovare i metodi e le formule tradizionali della corporazione, che sui compagni aveva guadagnato una autorità maggiore”.

Così apre, il periodico ‹‹L’Architettura Italiana››, ne L’educazione dell’architetto moderno[1].

L’articolo studia l’evoluzione del ruolo dell’architetto, e la sua crescita all’interno del cantiere.

La figura dell’architetto del primo Ottocento, progettista, era fortemente distinta dal ruolo svolto dalle maestranze edili in cui il capomastro curava le manutenzioni, i consolidamenti, gli ampliamenti e tutta l’edilizia minore di nuova costruzione, di cui l’architetto si riservava solo la progettazione.

Il costruttore perfeziona per conto proprio le sue pratiche costruttive, educa le maestranze ispirato a criteri di semplificazione, di massimo rendimento dei materiali, degli attrezzi, delle manovre, degli operai; l’architetto accetta le pratiche in uso con tutti gli aggiornamenti ed i perfezionamenti e le involge nelle sue composizioni.

Un episodio alquanto indicativo che aiuta a comprendere la realtà edilizia del periodo va rintracciato poco tempo prima nel cantiere del Teatro Massimo, poiché istituisce una vera e propria scuola per le maestranze; la necessità di potenziare la già qualificata compagine di “murifabbri” e di scalpellini induce Giovan Battista Filippo Basile, sollecitato dalle sue stesse istanze intellettuali sulla problematica del rapporto tra arti tecniche, architettura e arti decorative e industriali, a istituire corsi di approfondimento professionale nel campo della steretomia e della “scultura architettonica”.

G.B.F. Basile organizza il cantiere di lavoro, il teatro Massimo diventa un immenso cantiere-scuola, l’approfondimento di quest’opera rivela contenuti innovativi di carattere tecnologico, legati alla ricerca sulle possibilità espressive dei materiali tradizionali; la sua opera acquisisce valore anche nell’organizzazione strutturale e tecnologica rinnovata dall’adozione del ferro, come uno degli elementi principali della costruzione dell’architettura che deve però “avere luogo con molto discernimento, in quei casi ove rendersi necessario[2]

Alla prima chiusura del cantiere (1882-89) e alla conclusione dei lavori del teatro nel 1897 (sotto la direzione di Ernesto Basile) l’edilizia cittadina verrà monopolizzata dall’operatività di maestranze altamente qualificate, che assicurano all’architettura palermitana della Belle Epoque quel livello di qualità e maestria che ne avrebbe fatto una “piccola capitale dell’Art Nouveau”.

Per tutto il secolo fino alla fine dell’Ottocento i capimastri sono raggruppati in una dozzina di famiglie che operano nel campo imprenditoriale per generazioni: Albanese, Caronia, Casano, Cordone, Corrao, Cusimano, Di Pisa, Maniscalco, Patti, Piazza, Rosano, Rutelli spesso imparentate tra loro .[3]

Un caso che ci viene raccontato, con umiltà di spirito, è la storia dell’impresa Caronia, di cui abbiamo notizia attraverso l’articolo scritto da Salvatore Caronia Roberti e pubblicato nel 1966 in ‹‹Architetti di Sicilia››, “Mastri, Capimastri e Ingegneri, ricordi di fine Ottocento”.[4]

Una parentesi vivace, che figura il cantiere attraverso i suoi “elementi” gli operai (di cui la descrizione dei “personaggi” di cantiere), dando anche una definizione non poco dettagliata degli strumenti di cantiere; sottolinea come, in realtà, il cantiere nonostante subisca l’avanzamento della tecnologia e del progresso di macchine e materiali, rimane legato alla tradizione ancora per molto tempo.

Nel campo delle opere murarie esistevano tre categorie di operai: il garzone (detto ‘u picciotto), il manovale e il mastro. Questa terna costituiva un’unità lavorativa; il garzone stava vicino al mastro, gli appressava strumenti e materiali leggeri, mentre apprendeva il mestiere, il manovale si occupava dei lavori pesanti, preparava gli impasti di malta e calcestruzzi e trasportava conci, mattoni, sollevandoli colle primordiali carrucole di quel rudimentale impianto che si chiamava ‹‹’u tiraturi››, l’antenato delle attuali efficientissime gru. Il manovale non aveva carriera, cominciava e finiva manovale per le sue scarse capacità di apprendere(…). Il garzone intelligente verso i diciotto-venti anni era promosso a “mezzo-mastro”, poteva aspirare a diventare “summastru”, (…).”

Attraverso una digressione sulle radici della sua famiglia di costruttori, traccia un particolare profilo dei capimastri, le origini, il ruolo sociale e l’importanza di questa figura all’ interno del cantiere.

Raramente il capomastro proveniva da una famiglia di mastri; generalmente proveniva da una famiglia di capimastri, attraverso un faticoso tirocinio presso il padre. Socialmente restava ad un livello tra classe borghese e operaia, anche se una conquistata agiatezza gli consentiva comodi e lussi. (…).

Ricorro ad un esempio quello della famiglia di mio nonno, don Salvatore Caronia (1821-1907), una figura eminente tra pochissimi capimastri dell’epoca, (…).

Nei riguardi della moglie che era figlia di don Antonino Rosano, capomastro di corte presso i Borboni, e cresciuta tra i comodi e gli agi, mio nonno fu squisitamente tenero e generoso, circondandola di benessere che toccava il lusso.

Coi sette figli maschi fu invece esageratamente rigoroso ed esigente; tutti furono avviati agli studi, ma ai primi insuccessi alle scuole medie(…) per castigo venivano mandati in cantiere a lavorare da garzoni, a piegarsi le spalle e incallirsi le mani.(…).

Allora si restava nell’ordine di natura quando erano soltanto giovani eccezionalmente dotati di ingegno e di volontà che affrontavano il salto sociale (…). Fra questi ricordo  l’ing. Salvatore Caronia Romano, mio cugino omonimo, morto assai giovane, professionista colto, studioso ed autentico pioniere del cemento armato a Palermo, era figlio del capomastro don Ferdinando, il sottoscritto figlio del capomastro don Peppino, l’ing. G.B. Caronia figlio di don Giovanni, (…).

(…) alla fine dell’Ottocento gli Ingegneri, Architetti liberi professionisti erano pochissimi e a loro volta si ricorreva solo per opere di eccezionale importanza, giacchè per il resto, manutenzioni, consolidamenti, ampliamenti o piccole costruzioni a nuovo, tutto era compito del capomastro di fiducia, compresa la progettazione(…).

Salvatore Caronia Roberti continua con una piccola parentesi sulle famiglie di costruttori, che si affiancano al nonno nei cantieri dell’epoca; continua delineando il mutamento del cantiere in connessione alla figura del capomastro che diventa impresario, quasi a polemizzare sulla perdita di quei “valori del cantiere” che avevano per secoli educato i mastri costruttori.

Tra i capimastri dell’epoca merita particolare attenzione la figura di don Giovanni Rutelli, che era un abilissimo mastro intagliatore di pietra e che fu l’impresario del TeatroMassimo. Quest’opera è considerata come mirabile esempio di tale accurata esecuzione, che può trovare riscontro soltanto nella perfezione dei templi greci del secolo d’oro.(…).

Il Rutelli non aveva i mezzi per concorrere ad un appalto di tanta mole, ma trovò spontaneo finanziatore un ricco signore un certo Mariano Machì, che gli consentì di partecipare alla gara d’appalto e ne riuscì aggiudicatario.

Allora l’attrezzatura dei cantieri era quella tradizionale e rudimentale anche per il sollevamento dei grossi blocchi, a base cioè di piani inclinati e rulli, funi e paranchi, e potenza di mano d’opera bruta.

I prezzi erano ovviamente adeguati a questo faticoso magistero, ma il Rutelli aguzzò l’ingegno, ideò e costruì con mezzi di fortuna una torre di sollevamento in legno e ferro con un sapiente gioco di carrucole, azionato da una macchina a vapore.(…).

Con questa macchina, che percorse le moderne gru girevoli, il costo dei sollevamenti si ridusse enormemente, ciò che diede luogo ad una vertenza tra l’impresa e la direzione dei lavori da parte del Municipio, che avrebbe voluto ridurre il prezzo di contratto. Naturalmente ebbe ragione l’impresa che vide così moltiplicati gli utili presunti. (…).

Capomastro è una parola scomparsa dal vocabolario, come un appellativo quasi degradante; oggi si è ‹‹costruttori edile››, ‹‹industriale edile›› , ‹‹impresario di opere pubbliche››. Ed è forse giusto perché molti, moltissimi, di effettive capacità e competenza di capo non hanno nemmeno l’ombra, e spesso nemmeno di mastro.(…).

(…) nel periodo del boom edilizio con un solo edificio si diventava capitalisti in proprio,(…).”

Fatte queste premesse, bisogna leggere  mutamenti a cui fa fronte il cantiere edilizio nel passaggio dall’Ottocento (dopo l’unificazione del 1860), al Novecento il secolo “moderno”.

Nell’Ottocento con la nascita della classe borghese e la crescita dell’industria, con l’ espansione dell’imprenditoria palermitana, la fabbrica si modifica, si adegua alle nuove esigenze derivanti dal progresso scientifico e tecnologico e dallo sviluppo dell’industria che aveva apportato un rinnovamento sia in campo economico che sociale.

Segni dell’avviamento dalla produzione artigianale all’industria sono, la graduale modificazione dell’organizzazione del lavoro, sempre più basata sulla separazione delle competenze, e  la complessità delle nuove tecniche produttive.

Mentre prima il lavoro e la qualità del prodotto erano attributi personali, denotati dal marchio dell’artigiano, adesso la nuova organizzazione comincia a basarsi sull’inventiva di poche persone, i capi d’arte e successivamente gli architetti; l’esecuzione del materiale invece era assegnata all’attività collettiva ed anonima degli artigiani, divenuti operai.

Tra Ottocento e Novecento, l’industria edilizia è ancora molto legata alla tradizione, si sostiene molto sulla capacità espressiva che tanti materiali avevano avuto in passato, anche se comincia ad affacciarsi  il Liberty, il movimento modernista che vede il progresso innovativo di molti settori produttivi, che delineano i caratteri della nuova architettura siciliana.

Nelle città le maggiori imprese edilizie del tempo, su commissione della borghesia, cominciano a costruire ville, villini e palazzine, tramite cui ingegneri e architetti diffondono un linguaggio nuovo che esprime il rinnovato senso dell’architettura e l’esigenza di un innovativo assetto non solo per nuovi quartieri, ma pure per le città.

Già alla fine del secolo compaiono i primi manufatti in cemento, nuovi intonaci, il grès, i cosiddetti materiali artificiali.

Tra questi ricordiamo:

- Pietra artificiale: elementi strutturali e decorativi realizzati in conglomerato cementizio (cemento

armato, laterizi e stucchi).

- Marmo artificiale: mattoni in cemento che rimpiazzano le pavimentazioni in marmo naturale.

Tra i pionieri dei nuovi materiali dell’industria edilizia di fine Ottocento, possiamo annoverare una figura emblematica come quella di G.B.F Basile.

Nel teatro Massimo di Palermo,[5]  l’opera che lo tiene ininterrottamente impegnato per quasi trent’anni,

si evince la predilezione di G.B.F.Basile per i materiali locali si accompagna ad una particolare attenzione rivolta ai materiali innovativi, ed a certe tecniche introdotte di recente nella pratica edilizia dei paesi tecnologicamente più avanzati: il Teatro Massimo è stato considerato come un laboratorio dove la progettazione esecutiva avviene secondo i sistemi costruttivi che i progressi della scienza e dell’industria consentivano per quell’epoca.

Altro spunto che G.B.F. Basile trasmetterà alla cultura liberty è costituita dall’idea che il lavoro dell’architetto debba svolgersi attraverso una continua collaborazione con le maestranze e che ha il valore di un metodo per la qualificazione dell’opera da realizzare; in tal senso sarà proprio il figlio Ernesto a raccogliere l’eredità del padre, sarà guida di artisti, artigiani e maestranze esaltandone il lavoro nell’ambito dell’unità stilistica.

L’atteggiamento del figlio di G.B.F. Basile, riguardo i materiali è nettamente diverso da quello del padre, infatti, per lui la natura dei materiali pur concorrendo a determinare l’effetto complessivo dell’opera, non riguarda direttamente l’arte, il materiale influenza lo sviluppo delle forme.

Ernesto Basile nel campo della strutturazione del cantiere, arriva a sfruttare pienamente la capacità produttiva ed espressiva dell’industria artigiana locale e riesce a convogliare nel cantiere le forze artistiche aderenti alle sue ideologie; il cantiere diventa un laboratorio di forme artistiche differenti che sotto la direzione del progettista convergono nella determinazione dell’unità stilistica.

Le scuole d’arte applicata all’industria siciliana, infatti, contribuiscono a diffondere il Liberty, formando

artigiani orientati nelle scuole stesse verso forme floreali, volte ad una sperimentazione innovativa e aggiornata del repertorio modernista.

Nel liberty il rapporto con la tradizione, non viene negato ma rivissuto attraverso un procedimento di trasformazione, rigenerazione sia delle forme che delle tecniche e dei materiali, ancora radicati nei costumi della tradizione; E. Basile verrà coadiuvato e affiancato da una schiera di colleghi, collaboratori, artisti, allievi insieme anche all’apporto di committenti e costruttori che in un particolare clima culturale e con la capacità creativa che si riscontra nella fisicità del costruito, si approda ad una stagione nuova dell’architettura.

Le produzioni liberty, specialmente private a Palermo, delineano quello che in realtà è il carattere dell’architettura in questo periodo; rimane cioè un fenomeno strettamente legato al rapporto progettista-committente-privato, che vede, tra il 1899 e il 1920, il periodo di maggiore fioritura.

Come per Basile, per molti progettisti dell’epoca, l’esperienza architettonica diventa un’attività totale, che fa progettisti dal primo all’ultimo segno grafico, fino al più minuto dettaglio, senza prescindere dall’impegno tecnico e costruttivo, infatti lo stesso Basile si avvale in cantiere di una cerchia qualificata di collaboratori, di cui fanno parte pittori, scultori, artigiani che condividono le scelte moderniste e sanno renderle materiali.

L’esperienza liberty, non sarà una collaborazione unilaterale tra progettisti e artigiani, ma la cooperazione sarà compiuta anche al contrario, cioè anche artisti e artigiani intervengono nel progetto, mettendo a profitto l’esperienza del vedere e del capire, che hanno acquisito nei cantieri; come nel caso dei fratelli Li Vigni[6] che oltre ad esercitare il ruolo di esecutori, contribuiscono a diffondere l’immagine della Palermo liberty, attraverso progetti di buon livello qualitativo, come il disegno per la casa di Francesco Li Vigni in via F. Juvara, realizzata nel 1906.

Imprenditori, capimastri, ingegneri architetti costituiscono l’ossatura, la base sociale su cui si costruisce il nuovo stile, i progettisti sono committenti di loro stessi, ancora i committenti impresari come i Florio, con i quali nasce un sodalizio di stretta collaborazione; ovviamente non bisogna dimenticare l’azione svolta dall’imprenditoria edilizia,  proprietari di imprese di costruzione si avvalgono spesso dei progetti di esponenti del modernismo,come i Rutelli con Salvatore Caronia Roberti, o gli Utveggio con E.Basile.

È un momento di particolare vivacità per l’imprenditoria palermitana, che si riversa nel settore edilizio; è un’imprenditoria che applica un atteggiamento nuovo, interviene cioè in tutte le fasi del processo sia progettuale che costruttivo, funge da committente, da impresa costruttrice, da operatore economico; riesce molto spesso a diventare progettista e costruttore allo stesso tempo, come accade nel caso degli impresari Utveggio-Collura, il costruttore Salvatore Di Pisa che insieme a Geraci progetta la sua abitazione in via Garzilli; l’intero quartiere Libertà è opera dei costruttori Messina, i Rutelli, i Paladino o ancora opere di architettura minore firmate da artigiani come i fratelli Li Vigni.

Il liberty diventa il linguaggio anche di altri settori dell’imprenditoria, quella teatrale e cinematografica,

i Biondo, i Finocchiaro e gli Utveggio diventano committenti per gli architetti in voga, di edifici destinati allo spettacolo. L’architettura liberty, in sostanza, figura quale prodotto della collaborazione tra la più raffinata ed esigente committenza che partecipa attivamente alla realizzazione dell’architettura, la progettazione eccelsa dei professionisti più scrupolosi e la maestria dei capi mastri più importanti.

L’imprenditore Michele Utveggio, è uno di questi. Capostipite di una famiglia di costruttori, sarà costruttore e gestore del cinemateatro Utveggio, ideatore del Castello Utveggio sul Monte Pellegrino, su progetto di G.B. Santangelo realizzato tra il ‘28 e il ’31.

Inizia la sua attività come stuccatore, lavorando alla decorazione interna del Teatro Massimo per conto della ditta Corrao e Casano. L’attività imprenditoriale indipendente comincia nel 1899, quando esegue il primo palazzo per conto proprio, il palazzo in via XX settembre in cui le decorazioni del prospetto sono disegnate da Basile[7]. Nel 1921 costituisce con il nipote Antonino Collura l’Impresa costruzioni edilizie ed industriali Utveggio e Collura  che opera fino alla fine degli anni ’30.

Questa impresa, che tra il 1925 e il 1930, conta più di 400 operai, realizza molti edifici ubicati nelle zone di nuova espansione della città, si contano circa 40 villini, costruiti tra il 1905 e il 1915 sulle vie Libertà, Ariosto e Notarbartolo, per la progettazione dei quali si affida ai progettisti più affermati: Ernesto Armò[8] , Giovan Battista Santangelo[9] e altri.

L’impresa disponeva di un proprio laboratorio, attrezzato di macchinari e con maestranze specializzate

per lavorazioni di falegnameria ed ebanisteria; è una delle prime ad applicare nell’edilizia i vantaggi offerti dalle nuove tecniche costruttive, il suo interesse per le attrezzature moderne è testimoniato dalla commissione dei Cantieri Navali, che attesta ad uso dell’impresa una gru in ferro smontabile. Per prima applica le metodologie costruttive del cemento armato, coadiuvato dall’apporto di valenti professionisti come gli ing. Santangelo e Manetti, Caronia e altri.

Un’altra delle maggiori imprese palermitane del periodo è quella dei Rutelli, Salvatore ex-capomastro,

che aveva assunto in appalto i lavori del Teatro Massimo, abitava in un grande palazzo in via Libertà, dove il figlio Mario, scultore, impianta la sua fonderia.  Nel 1914, invece, insieme con l’ing. Paolo Bonci, firma il compromesso con il Municipio per la costruzione del secondo tratto di via Roma, la ditta Bonci-Rutelli.

Si occuperà della costruzione di venticinque villini a Mondello, siamo nel 1910, per conto della società italo-belga, il cui progettista sarà Salvatore Caronia Roberti; questo contatto con il modernismo farà si che, i Rutelli, ne diventino i principali interpreti, tra le realizzazioni si annovera, la Cassa Centrale di Risparmio di Basile, il cinema Excelsior e il villino Pojero di Salvatore Caronia Roberti.

Intorno al 1913 Rutelli, diventa rappresentante e concessionario a Palermo della società Porcheddu di Torino, che detiene il monopolio in Sicilia del cemento armato eseguito con il brevetto Hennebique, motivo di slancio per la costruzione di importanti opere in cemento armato.

Ma non sono le sole imprese che legano il loro nome a validi professionisti, anche il costruttore Pietro Albanese insieme ad Emanuele Albanese, che realizzano progetti di Basile quali, il villino Florio, il Grand Hotel Villa Igiea, il Palazzo delle Assicurazioni di Venezia; ancora i fratelli Messina che realizzano su progetto di Benfratello Casa Torre Scardina e Palazzetto Russo Radicella e conseguentemente il villino Messina, Giuseppe Piazza che realizza con Salvatore Baronia Roberti, il Palazzo Napolitano, struttura in cemento armato con calcoli eseguiti dallo stesso progettista.

All’attività dei Biondo sembra legato, Ferdinando Caronia, per i quali realizza il teatro Biondo su progetto dell’ing. Mineo e più tardi il Kursaal Biondo di Basile.

Oltre le imprese menzionate, a Palermo continua a spopolare una fitta compagine di capomastri[10] , capaci di affrontare con e padronanza il nuovo modo di costruire e le nuove tecniche, come Ciulla e Di Chiara per Palazzo Alagna (1907-08), il capomastro Garofalo che esegue i lavori di casa Ammirata di Rivas, Salvatore Barrica che realizza il palazzo Tagliavia (1910-13) di Armò.

Dagli anni venti si riduce fortemente sia il numero delle storiche imprese, si consolideranno Bonci-Rutelli, Utveggio-Collura, Amoroso, impresa che realizza una grossa fetta di quell’edilizia di “qualità”, diventando una delle più attive del Novecento, di cui purtroppo poche sono le notizie reperite; e infine la SAILEM[11] , anche se si allontanano sempre più dal settore immobiliare concentrandosi sulla costruzione di strade[12], fognature, edifici pubblici e opere portuali[13] e specialmente dal trenta in poi viene incentivata la politica delle opere pubbliche, per diminuire la crisi industriale e la disoccupazione.

L’impiego del cemento armato a livello industriale in Italia ha grande impulso come suddetto, in seguito ai brevetti di Hennebique[14], a partire dal 1892, mentre giunge a livelli di applicazione mentre giunge a livelli di applicazione più vasti, anche i Sicilia, dopo il terremoto di Messina del 1908.

Il cemento armato consente di risolvere particolari problemi costruttivi: “E’ ferro e pietra nello stesso tempo, in quanto ha carattere lapideo e requisiti di resistenza alla trazione come un metallo”[15].Il calcestruzzo prende forma colandolo nelle casseforme, è versatile in quanto, preferibilmente è un “elemento strutturale”, ma può anche divenire elemento decorativo.

L’anno che segna una svolta nell’utilizzo del cemento armato è il 1912, a Palermo viene aperta una sede della Società Anonima G.A. Porcheddu di Torino che faceva venire ferro dalla propria ferreria di Genova e si serviva di operatori locali, soprattutto dell’impresa Rutelli-Bonci ed i qualche sporadico caso di quelle di Utveggio.

Sarà proprio via Roma il cantiere “a scala urbana” di questa sperimentazione di una nuova architettura.

L’edificazione di via Roma, definisce un nuovo tipo di architettura, possibilmente libera da indicazioni di piano troppo vincolanti, che si riducono a sole indicazioni planimetriche ed altimetriche e da programmi di omologazione del linguaggio. E’ questo il punto chiave dell’architettura di questo periodo che rilancia il grande cantiere. La nuova trama architettonica si legge nel mutamento subito dal cantiere; la struttura sempre più vicina alla moderna tecnica costruttiva, figlia ormai di una logica moderna, in cui l’elemento decorativo perde la sua connotazione semantica, lasciando campo al linguaggio figurato del “costruito”.

Il cantiere di notevoli dimensioni, abbandona la tipologia di edilizia residenziale borghese, senza per questo rinunciare alla raffinatezza e al gusto, senza perdere l’eleganza manifestata dalla linearità della struttura, priva di segni del passato; muta la fabbrica, si parla di grandi palazzi, secondo la logica condominiale, e muta anche il cantiere edilizio.

Dopo il 1920, si registra una più vasta applicazione del cemento armato, di cui ormai a livello industriale, in seguito ai brevetti Hennebique, già dal 1908 in Sicilia. Non si può però ancora parlare di vere e proprie costruzioni in cemento armato fino a quando non si costruirà un “(...) edifizio completo, tutto intero in cemento e ferro. Realmente, solo così oprando, il sistema può trionfare e mostrare tutti i vantaggi suoi. La fabbrica venendo a costituire un solo e vero monolite, mostrerà, assieme al valore statico, anche quello artistico, non essendo l’opera dell’edificazione che una creazione di uno scultore in grandiose proporzioni[16].

Sarà proprio con l’utilizzo di queste nuove tecniche, già nel Liberty, che si comincia ad acquisire coscienza di una nuova cultura del costruire e della sua validità nelle applicazioni.

 

                                                                                                                                    Virginia Bonura

 

 

 

 


[1] G. Lavini  L’educazione dell’Architetto moderno in « L’Architettura Italiana» X, Torino 1° Luglio 1915, n° 10, p.1.

 

[2]  G.B.F. Basile  Osservazioni sugli svolgimenti dell’architettura odierna all’Esposizione Universale del 1878, Parigi 1879.

 

[3]  Come nel caso dei Caronia con i Rosano, costituiscono la compagine di imprese di costruzione, che operano a            Palermo nell’Ottocento, alcune delle quali protrarranno il loro lavoro ancora nei primi del Novecento.

F.Brancato, Storia dell’industria a Palermo. Dal primo Ottocento ai nostri giorni, edizioni Giada, Palermo 1991.

 

[4]  S. Caronia Roberti, Mastri, Capimastri e Ingegneri, in «Architetti di Sicilia», n° 7-12 gennaio/dicembre 1966.

 

[5]  Il concorso per il progetto del Teatro Massimo venne bandito nel 1864 e fu vinto nel 1868 dal Basile.

I lavori di costruzione iniziarono nel 1875, interrotti nel 1881 e ripresi solamente nel 1890; G. B. Filippo Basile vi lavorò fino alla morte e venne completato dal figlio Ernesto nel 1897. Per i lavori di costruzione furono impegnate diverse imprese: l’impresa Rutelli e Machi, per l’esecuzione dei lavori in muratura e la decorazione esterna; la Fonderia Oretea, che aveva fornito la gru per la collocazione della pietra da taglio dei muri perimetrali, e l’impresa Industriale italiana di Napoli, per la realizzazione  delle coperture metalliche della sala e della scena, nonché i solai in ferro, l’impresa Agozzino per la costruzione degli infissi; l’impresa Corrao e Casano per l’esecuzione dei lavori di finitura.

 

[6]   Nota famiglia di stuccatori, impegnati nei più importanti cantieri  della città affiancando i più grandi professionisti       dell’epoca, famosi per aver brevettato un tipo di intonaco per la decorazione di interni ed esterni ad imitazione di tutte le pietre tufacee e marmi, che soddisfa sia esigenze estetiche che di igiene, ha minore capacità di assorbimento dell’acqua, un maggiore potere evaporante e grande resistenza agli agenti esterni, rispetto agli intonaci comuni.

E. Sessa, La materia e la forma. Rivestimento architettonico nella Sicilia del periodo modernista, in « Aa. Quadrimestrale dell’Ordine degli Architetti di Agrigento », IX, 21 Dicembre 2006 (pp. 55-63).

 

[7]  Tra il 1901-03 Basile progetterà per Utveggio un altro palazzo nella stessa via, all’angolo con la via Siracusa.

M. Collura, Il Castello Utveggio: Storia di un’impresa, Sellerio editore, Palermo 2002.

 

[8] Ernesto Armò. Nasce a Palermo nel 1867, si laurea in Ingegneria civile a Torino, collaboratore e assistente di Ernesto Basile, divenne l’architetto di fiducia di facoltose famiglie palermitane.  Tra le sue opere, il villino Bacchi Salerno, il palazzo e  il cinema Utveggio, il villino Rutelli e quello Stagno a Terrasini. Si spense nel 1924.

 

[9] Govan Battista Santangelo. Ingegnere nato nel 1889. Fra le sue opere il cinema Imperia, lo Stadio di Palermo, il Castello Utveggio sul Monte Pellegrino. Fu docente universitario e socio del circolo di matematica  di Palermo. Realizza con l’arch. Luigi Epifanio il Quartiere Littorio poi Matteotti .  Morì nel 1966.

 

[10]  V. S. Caronia Roberti, Mastri Capimastri e Ingegneri, in «Architetti di Sicilia», Palermo 7 dicembre, 1966.

 

[11]   Società Anonima Italiana Lavori Edili e Marittimi, impegnata   dagli anni  venti in poi nella sistemazione e realizzazione delle opere di ampliamento del Porto di Palermo. 

V. Cammarata, Architetture e Opere pubbliche a Palermo 1930-40, Novecento editrice, Palermo 1999.

 

[12]   L’impresa Bonci-Rutelli assume l’appalto per la costruzione del secondo tratto di via Roma.

V. Cammarata, Architetture e Opere pubbliche a Palermo 1930-40, Novecento editrice, Palermo 1999.

 

[13]  M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Varcica, Palermo e il suo Porto, edizioni Giada, Palermo 1986, p.p. 240-276.

 

[14]   Il calcestruzzo non armato era stato già sperimentato da tempo per  la sua durezza simile alla pietra, mentre le ricerche condotte su manufatti eseguiti utilizzando anche armature erano state avviate nella seconda metà dell’Ottocento: Lambert nel 1850 aveva costruito  un’imbarcazione in cemento con armatura in ferro; in seguito Coignet e l’americano Hyatt fecero ulteriori esperimenti e Monnier, nel 1868, costruì in cemento un serbatoio e altri manufatti.  Fu però solo Hennebique, nel 1892, a costruire un intero fabbricato con pilastri, travi e solette in cemento armato.

 

[15]   S. Caronia Roberti, Il valore  del materiale nell’opera architettonica, Palermo 1937, p.28. 

 

[16]   L. Mina, Il cemento armato e lo stile nuovo,  in «L’artista Moderno», 5, 1906, p.72.

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