“La questura che Cicerone assunse ed esercitò a Lilybeo nel 75 a.c  ed il sistema tributario vigente in Sicilia” – La scoperta del sepolcro di Archimede a Siracusa

 

Parlare di Cicerone e Lilybeo significa parlare della questura che Cicerone assunse ed esercitò proprio a Lilybeo nel 75 a.C.

Però prima di affrontare tale argomento vediamo come era la città di Lilybeo, in quel periodo, dal punto di vista socio-economico, linguistico-letterario e strategico – militare.

Lilybeo, come Drepanum, era stata imprendibile per i Romani nella prima guerra punica nonostante i numerosi assalti e l’annoso assedio a partire dal 250. Era, infatti, città ben fortificata, fornita di vettovaglie a sufficienza per sostenere un lungo assedio, ben protetta, oltre che dalle truppe, dai bassi fondali a ponente e dal porto di difficile accesso.

Anche Virgilio nel III libro dell’Eneide (v. 705) parlerà di  ‟ vada dura … saxis Lilybeia caecis” per significare le difficoltà di approdo nel porto di Lilybeo.

Dalla parte di terra la città era difesa dalle solide mura e da un ampio fossato.

Stretta d’assedio durante gli anni cruciali della prima guerra punica, Lilybeo resistette e fu vinta solo dal trattato di pace tra Lutazio Catulo ed Amilcare, dopo la sconfitta cartaginese del 241 alle Egadi, che fra l’altro imponeva ai Cartaginesi la cessione di Lilybeo e di Drepanum.

Si sa bene che sino alla fine della repubblica la Sicilia rimase  sostanzialmente greca. D’altronde, la lingua madre dei Siciliani ed anche della maggior parte dei numerosi schiavi era il greco.

Certo a Lilybeo l’elemento di origine punica doveva continuare a formare, insieme con elementi indigeni, il sostrato della popolazione e probabilmente vi si parlava un greco abbastanza imbarbarito. Il latino, comunque, fu considerato intruso ed estraneo fino al termine della repubblica. Né i Romani vollero ovviare ad una tale situazione e portare avanti una campagna di romanizzazione dell’Isola.

Sappiamo che Verre era costretto a servirsi di interpreti, mentre Diodoro Siculo, dopo la fine della repubblica, si considerava ancora un greco e, nell’introduzione alla sua Storia, informa i lettori che egli conosce il latino solo a causa dei suoi contatti con i Romani dell’Isola.

Come attesta Cicerone nelle Verrine, vigeva ancora in Sicilia il calendario greco e le città continuavano a mandare rappresentanti a Delfi ed agli altri santuari panellenici. Di tipico stampo ellenistico continuavano ad essere i templi e gli edifici teatrali.

Cicerone, nel processo contro Verre, afferma in modo significativo che la Sicilia, la prima provincia romana, fu anche ‟la prima ad insegnare ai nostri antenati com’é bello governare paesi stranieri”. E a suo tempo Catone aveva sostenuto che la Sicilia era il granaio della repubblica, la nutrice al cui seno il popolo romano si era alimentato.

Marco Tullio Cicerone, grande avvocato, strepitoso oratore, uomo politico di primissimo piano, nacque il 3 gennaio del 106 a.C. ad Arpino, un villaggio della regione abitata dai Vosci, a sud-est di Roma. La madre Elvia, era una donna irreprensibile e di buona famiglia. Più contradditorie sono le voci riguardo il padre, che alcuni dicevano facesse il cardatore. Cicerone presto mostrò la sua intelligenza. Così, appena ebbe assunto la toga virile, il padre cardatore lo condusse a Roma, lo introdusse nel circolo degli Scevola, i massimi giuristi della città, per far conoscere questa sua precoce intelligenza. A Roma, Cicerone studiò, insieme all’amico di tutta la vita, Tito Pomponio Attico, la filosofia (frequentando seguaci dell’epicureismo, dello stoicismo e della Nuova Accademia) e l’oratoria.

Il suo primo processo fu in difesa di Sesto Roscio Amerino, che un potente liberto di Silla, allora al potere, accusò di parricidio. Cicerone vinse la causa, ma subito dopo partì per la Grecia. Fece  spargere la voce che le sue condizioni di salute richiedevano delle cure. In realtà – come specifica Plutarco – aveva paura di Silla.

Ad Atene, seguì le lezioni di Antioco di Ascalona, capo dell’Accademia; frequentò  poeti e i filosofi. Intanto, a Roma Silla era morto e gli amici lo tempestavano di lettere perché tornasse in Italia. Allora, immaginandosi un futuro politico, e giudicando che a esso fosse necessaria una perfetta eloquenza, si trasferì a Rodi, dove studiò retorica con Apollonio Molone.

Plutarco dice che l’eloquenza ciceroniana era tutta orientata verso motti di spirito e facezie: cosa che per un avvocato riusciva efficace, ma a lungo andare spiaceva a molti, e gli procurò la fama di malizioso.

Tornò a Roma; sposò Terenzia, una donna ricca che gli dette due figli: Tullia e Marco; ed essendo molto ambizioso, avido di successi e di riconoscimenti, si lanciò con fortuna prima nell’avvocatura e poi nella politica.

Nominato questore in Sicilia, al tempo della carestia, prese la difesa dei siciliani contro l’ex governatore Verre accusato di malversazioni. E lo fece condannare.

Quale era la situazione della Sicilia quando Cicerone assunse la questura a Lilybeo?

Nei discorsi contro Verre, Cicerone cerca di far credere che tutto andasse bene in Sicilia, che vi regnassero pace, prosperità e lavoro sino all’arrivo di Verre che, nei suoi anni di governariato, l’avrebbe ridotta ad un deserto.

Quasi 150 anni dopo la conquista di Siracusa nella seconda guerra punica, Cicerone insiste con compiacimento sul motivo del sistema fiscale romano, quale esatta continuazione di quello di Gerone. Sicché i Siciliani non avrebbero pagato più di quanto avessero sempre pagato, e per di più avrebbero goduto dei vantaggi della pace.

Il sistema tributario vigente in Sicilia era in gran parte basato sulle decime. C’era un primo versamento in natura di un decimo del raccolto del grano o d’orzo che veniva spedito a Roma; poi una imposta, probabilmente una decima, sul vino, le olive, la frutta e la verdura; una imposta anche sul pascolo.

Per di più, in caso di necessità, Roma aveva il diritto di prelevare una seconda decima a un prezzo stabilito dal Senato. Di questa antica e, ahimé, premontrice applicazione dell‘ una tantum certamente Roma si giovò più volte oltre ai casi ricordati dalle fonti storiche ( nel 190 per rifornire un esercito che combatteva in Grecia, nel 189 e nel 171 per l’esercito di Macedonia).

C’erano poi altri balzelli per le esigenze della locale amministrazione romana. Le esportazioni dalla Sicilia erano permesse solo in Italia, salvo nei casi in cui il Senato romano concedeva un permesso speciale. C’era un dazio del 5% sul valore delle merci importate o esportate da qualsiasi porto siciliano da cui erano esentati soltanto le decime e i beni personali dei viaggiatori.

Vigeva, infine, l’obbligo dell’allestimento, da parte delle città sicule, di una piccola flotta per proteggere i porti dai pirati. In più i Siciliani, già gravati a sufficienza, dovevano pagare delle imposte locali relative agli edifici pubblici, al culto, alle feste.

Al tempo di Cicerone, dalla decima erano esentate alcune città siciliane ritenute libere ed immuni. Fra esse non era Lilybeo. Roma, come è noto, era rappresentata dal governatore romano e da due questori romani, che in pratica erano funzionari del tesoro, di stanza  uno a Lilybeo, l’altro a Siracusa.

Quando  Verre giunse in Sicilia come governatore nel 73 a.C., trovò un paese solido e maturo per essere saccheggiato. Certo è che la Sicilia  per la vita politica ed economica, per la sussistenza stessa di Roma,aveva  un’importanza capitale. La prosperità crescente della Sicilia voleva dire una decima più abbondante, il frumento comprato a miglior prezzo e, con l’aumento delle importazioni e delle esportazioni, una quota più alta di tributi indiretti. Cicerone, eletto questore con voto unanime dei Comizi, in varie occasioni ricorderà questo successo con enfasi ed orgoglio.

A Lilybeo il problema principale che Cicerone fu costretto ad affrontare fu il modo di assicurare un rifornimento regolare di grano a Roma. Di questo egli parla nelle Verrine (2,3,182) per dimostrare la sua assoluta onestà. Egli dice di aver acquistato il grano da inviare a Roma corrispondendo ai venditori la somma spettante, senza dedurre nulla per sé, come invece faceva sistematicamente Verre.

Durante il periodo della sua questura, Cicerone non trascurò la sua attività di avvocato. Per questo particolare la nostra fonte è Plutarco, nella vita di Cicerone (6,2), il quale ci dice che Cicerone difese dinanzi al tribunale del propretore Peduceo, a Siracusa, molti giovani di famiglia illustre che erano stati accusati di insubordinazione e di viltà durante la guerra. Grazie alle sue brillanti e convincenti orazioni Cicerone riuscì a far assolvere tutti i nobili accusati.

Riguardo la tenuta onesta della sua magistratura, lo stesso Cicerone, nel paragrafo 64 della ‟Pro Plancio” dice:

‟ In un momento di grande carestia avevo mondato molto frumento. Sono stato cortese con i grandi commercianti, giusto con i piccoli, benevolo con gli imprenditori, disinteressato con gli alleati. E i Siciliani mi avevano attribuito onoranze mai prima udite

Cicerone nella Pro Plancio prosegue narrando un episodio del suo viaggio di ritorno (episodio ricordato anche da Plutarco, Vita di Cicerone, 6,3-4).

Cicerone non parla qui, come invece farà nelle ‟Tusculanae” (V, 64), della sua sosta a Siracusa e dell’appassionata e puntigliosa ricerca della tomba di Archimende. Cicerone pensava che, per i meriti acquisiti da questore  a Lilybeo, a Roma non si parlasse d’altro  che della sua questura. Ma dovette  ben presto ricredersi.

Non appena giunto a Pozzuoli, nel periodo della villeggiatura dei nobili romani, per  poco non crollai a terra – dice Cicerone – quando un tale mi chiese quando fossi partito da Roma e se ci fosse qualche novitàAlla mia risposta che tornavo dalla provincia, quello esclamò: ah! è vero, dall’Africa , mi pare”-

Cicerone fu colpito nel suo orgoglio di ex questore, ignoto suo malgrado.

E io –continua – Macché! dalla Sicilia!”. E allora un tale, il solito sapientone, intervenne:

Come, non lo sai che è stato questore a Siracusa?”  (quindi dalla parte opposta dell’Isola).

A che continuare? – dice Cicerone – Cessai di stizzirmi e diventai uno dei tanti che erano arrivati a Pozzuoli per i bagni”.

Da questo infortunio il già questore,  poi bagnante per forza, trasse però una severa lezione di vita.

Questo episodio – egli dice –  mi ha probabilmente giovato perché, accortomi che le orecchie del popolo romano erano alquanto dure, ma gli occhi acutissimi, cessai di pensare all’ascolto che avrebbero prestato a quanto mi riguardava e feci in modo che da allora in poi mi vedessero ben presente …”.

A Roma non si sapeva nulla della sua questura anche perché, come denuncerà Cicerone nelle Verrine (II 3, 215), tutto il merito se l’era arrogato Ortensio, allora edile e addetto alla distribuzione del grano in Sicilia.

Altre, sia pur non molto numerose, citazioni di Lilybeo, che tra l’altro l’Onomasticum Tullianum neanche registra compiutamente, sono presenti nelle opere di Cicerone.

Ovviamente Lilybeo ritorna più volte nelle Verrine e per ricordare l’amministrazione della giustizia, e per citare le opere d’arte un tempo di proprietà di ricchi abitanti di Lilybeo, poi trafugate da quel maniaco e vorace collezionista che era Verre.

Nella Divinatio in Quintum Caecilium  Cicerone deve battersi contro Cecilio e deve spiegare perché proprio lui, abituato a difendere, si assuma il ruolo di accusatore.

In questo processo sento di avere accettato la causa dei siciliani, ma anche di avere assunto da me quella del popolo romano. Devo schiacciare non  un solo disonesto, come vogliono i siciliani, ma la disonestà tutta deve essere da me estirpata e annientata”.

Per quanto riguarda la scoperta del sepolcro di Archimede da parte di Cicerone nella sua permaneza a Siracusa, si riporta quanto da lui stesso descritto:

Testo originale

 Archimedis ego quaestor ignoratum ab Syracusanis, cum esse omnino negarent, saeptumundique et vestitum vepribus et dumetis indagavi sepulcrum. Tenebam enim quosdam senariolos,quos in ejus monumento esse inscriptos acceperam, qui declarabant in summo sepulcro sphaeram esse positam cum cylindro. Ego autem cum omnia collustrarem oculis (est enim ad portas Agragantinasmagna frequentia sepulcrorum), animum adverti columellam non multum e dumis eminentem, in quainerat sphaerae figura et cylindri. Atque ego statim Syracusanis (erant autem principes mecum) dixi me illud ipsumarbitrari esse quod quaererem3. Immissi cum falcibus multi purgarunt4et aperuerunt locum.Quo cum patefactus esset aditus, ad adversam5basim accessimus. Apparebat epigrammataexesis posterioribus partibus versiculorum dimidiatis fere. Ita nobilissima Graeciae civitas,quondam vero etiam doctissima, sui civis unius acutissimi monumentum ignorasset6, nisi abhomine Arpinate didicisset. (Cic. Tusc. V 23)

 Traduzione

Io, (quando ero) questore, scoprii il sepolcro di Archimede non conosciuto dai Siracusani, visto che dicevano che non esisteva affatto, circondato da tutte le parti e rivestito di cespugli e rovi. Ricordavo infatti alcuni senari di poco conto che sapevo che erano stati incisi sulla sua tomba, i quali dicevano che sulla sommità del sepolcro era stato posta una sfera con un cilindro. Ora, io, mentre scrutavo con lo sguardo tutte (le tombe) – c’è infatti fuori dalla porta sacra a Ciane (lett.: di Ciane) una gran quantità di sepolcri -, scorsi una colonnina non molto sporgente dai cespugli sulla quale si trovava la figura di una sfera e di un cilindro. Ed io subito dissi ai Siracusani (si trovavano per altro con me i cittadini più ragguardevoli) che pensavo che fosse proprio quello che cercavo. Molti, mandati con le falci, ripulirono e aprirono il luogo; e dopo che fu aperto l’accesso là, ci accostammo alla parte frontale del piedistallo: si vedeva un’iscrizione quasi dimezzata, poiché la parte finale dei versetti era corrosa (lett.: essendo state corrose le parti finali dei versetti). Così una città della Grecia nobilissima, un tempo anche molto dotta, avrebbe ignorato (l’esistenza del) la tomba del suo cittadino più geniale (lett.: del suo unico cittadino intelligentissimo), se non gliel’avesse fatta conoscere (lett.: se non l’avesse appresa da) un uomo di Arpino.

Giovanni Teresi

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