Tommaso Romano, "L'illimite sorte" (Ed. Spirali) - di Mario Inglese

La produzione in versi di Tommaso Romano sembra prendere le mosse da una dicotomia di fondo, una contraddizione all’apparenza insanabile: vivere nel mondo e al contempo fuggire dal mondo. Solo all’apparenza insanabile perché la sintesi sembra possibile, ma a quale prezzo! In questi versi è sempre riscontrabile un gesto aristocratico, la visione si staglia verso l’alto, verso un oltre che riscatti il vivere quotidiano dalla contemplazione forzata delle miserie del mondo.

            Il volume collettaneo L’illimite sorte, Milano, Spirali, 2004, permette di ripercorrere i punti di continuità e le linee di sviluppo di questa poesia lungo un arco ventennale che va dal 1984 al 2004. Un’inquietudine esistenziale permea la scrittura di Romano, un tono generale di mestizia traduce la consapevolezza di un Weltschmerz cui vano è sottrarsi. Il senso della caducità, della labilità delle cose terrene in ultima analisi proietta l’individuo in una dimensione d’esilio, il quale – come è stato notato – non è altro che la nostalgia, platonicamente esperita, dell’anima che anela alla pienezza dello spirito, lontano dalle lusinghe della materia. L’implacabile scorrere del tempo (“Senza cortesie ipocrite / scorrono le sabbie delle clessidre /  e non sapendo se aggiungerle / o toglierle / all’indifferente storia del mondo / – che inghiotte fulminea / ogni morte – / anche il tramonto alla fine / si spegneva / convertendosi alla notte.”) pare farsi beffa di ogni spinta opposta dall’uomo. Ogni attivismo deve scontrarsi con le frequenti battute d’arresto di un viaggiatore che rischia di essere travolto non solo dalla fatica del suo andare ma da un senso di disgusto. Ed è noto come azione e contemplazione – cosa comprensibile, considereate le premese di cui sopra – siano due poli fondamentali nella figura non solo artistica ma anche umana di Romano.

            Il giudizio sul mondo che il poeta formula è tra i più crudi e inappellabili. Non pare esservi dubbio sulla natura corrotta, contaminata, del consorzio umano, della società, della città. Città che, nel preciso contesto storico in cui viviamo, ne esprime – dell’umano consorzio –  pressoché integralmente ogni intervento significativo (“Questo mondo mi pare, / a volte, / un obitorio desolato. / Uomini-cadaveri / vegetano spenti / intorno a me, / giorni e notti uguali si decompongono. /Sogni d’Ulisse / tormenti di dolore / grida agli Dei. / S’agita la volgarità / si fa beffa / del fuoco di sangue / dei miei solitari silenzi / di pietra”; “il carro dei monatti / ricorda ai convitati blasfemi / del festino del mondo / il contagio inatteso e funesto / che nella lingua di tempesta / inonda e assale”).

            Il dettato dei versi sovente si tinge di un’aura funerea, barocca e crepuscolare al tempo stesso, e non pochi sono i richiami da un lato all’estetica grandiosa quanto mortuaria di certo barocco siciliano nonché spagnolo, dall’altro all’estenuazione di talune atmosfere gozzaniane e corazziniane, con quell’emergere di oggetti, anticaglie, ricordi e luoghi di cara memoria familiare o l’evocazione di una noia da lunghi pomeriggi domenicali.

            Allora meglio agognare all’approdo a isole lontane, spazi edenici o iperuranici, eremi più dello spirto che fortezze, fatti di concreta materia nel caos del mondo, o ancora ieratiche sommità inondate da un “mare di luce” cui tendere lo sguardo e le residue energie. Sono tutte metafore, a ben vedere, di quel “desiderio d’Eterno” cui Romano allude ripetutamente e senza soverchie ritrosie, perché nominare l’Eterno pare rafforzarne la nostalgia. Non è un caso che precisi riferimenti ascensionali siano spia di questa ricerca dello spirito, quale che sia lo strumento impiegato (ad esempio un viaggio in aereo, come nel componimento “In volo su Ponza”), il culto per i grandi poeti (si veda “Mentre Dante in cielo”) o i grandi musicisti.

            L’autore persuade anche per quel suo stile terso e innervato in una lingua “alta”, la quale non disdegna tuttavia di sostanziarsi di moduli espressivi tipici del parlato quotidiano, contrassegnato altresì da riferimenti alla nostra società altamente tecnologizzata in cui si inscrive, senza per questo accusare stonature di fondo, la sofferta indagine esistenziale e metafisica dell’uomo e del poeta.

                                                                                                          

 

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