Pubblichiamo la prefazione di Franca Alaimo a "Sorella morte" (Ed. Thule) curato da Giovanni Dino

«E Dio, dall’altra parte, che non si intriga, dà la vita / eterna, non questa, ma quell’Altra. Un istante la Gioia / resta ferma».

(Maria Grazia Lenisa)

 

 

 

Tutti gli esseri viventi sono destinati a perire per assumere un’altra forma di vita, ma soltanto gli uomini, possedendo, come scrive Rossella Cerniglia, il pensiero “nostro privilegio/condanna […] a differenza degli altri esseri, delle altre creature – almeno così presumiamo – viviamo consapevolmente la morte, ne siamo soggiogati e angosciati”. Proprio perché essa costituisce un’esperienza ineluttabile del vivere, se non addirittura, come afferma il filosofo Heidegger, la possibilità tutta propria e peculiare dell’esserci, il tema della morte attraversa la letteratura di ogni tempo.

Esso viene declinato in una serie di tòpoi, la maggior parte dei quali rintracciabili in questa antologia curata dal poeta villabatese Giovanni Dino che ha riunito poco più di cento autori, alcuni dei quali non più viventi (Elio Giunta, Nicola Romano, Maria Grazia Lenisa, Gianni Rescigno, Mario Luzi, Gianfranco Draghi), ma a cui lo hanno legato forti vincoli d’amicizia o di profonda ammirazione

Sarà utile partire da tali tòpoi, spesso contraddittori, talvolta sovrapponibili, spesso brulicanti di spiritualità (laica o religiosa), di temi quotidiani e/o assoluti per orientarsi all’interno di tanta abbondanza creativa e raggiungere il cuore della questione.

La più frequente “tra le inesorabili domande mai risolte” (Angela Donna) che accompagnano l’evento della morte è certamente se vi sia una destinazione per i trapassati e, in caso affermativo, quale (questione, quest’ultima, che ha dato vita a varie e fantastiche architetture dell’aldilà tra le quali la più nota, almeno nella cultura occidentale, resta quella della Commedia dantesca), se in qualche modo essi sopravvivano sia pure in altra forma o si dissolvano, tornando dal nulla al nulla.

È il quesito con cui si apre la celebre Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters: “Where are Elmer, Hermann, Bert […]? They all are sleeping on the hill”. S’intesse tutta di domande la poesia di Anna Santoliquido, dedicata ad Albino Pierri, e Lucio Zinna oscilla tra dubbio e speranza: “La porcellana più fine / è la speranza (la “fede” avresti detto) / che qualcosa si muova oltre l’alpacca / del dubbio che qualcuno ci attenda / oltre quel filo”, ed è certamente un segnale notevole che il poeta scriva “qualcuno” senza la consonante iniziale in maiuscolo.

Va detto che avendo dato la religione cattolica una risposta quasi scandalosa alla questione con la certezza della risurrezione dei corpi - in realtà assai poco messa a fuoco nell’immaginario collettivo, nonché nella ritualità, visto che l’eternità viene sempre prospettata per le anime - l’atteggiamento nei riguardi della morte di quanti credono nella parola biblica è assai diversa da quello di chi pratica altre fedi o di chi dubita o nega; sebbene altre problematiche, quali la liceità o meno dell’eutanasia o l’uso di dispositivi meccanici per allungare lo stato vegetativo di molti malati abbia introdotto nuove interrogazioni etico-filosofiche di non facile risoluzione, ribaltando la rappresentazione del trionfo della morte in un accadimento silente e neutro.

Né, d’altra parte, la destinazione eventuale dell’anima dei defunti ha azzerato anche nei credenti la paura della morte. Un poeta religioso quale fu Gianni Rescigno, non ne fa mistero: “mi sconvolge un presente che tutt’a un tratto / diventa passato”, tanto è vero che solo raramente tale umanissimo timore cede il posto alla contemplazione o alla celebrazione: “sorella” la chiama San Francesco, cristianizzando il tòpos della personificazione. Sposando l’identità vita-morte per cui il giorno del trapasso è quello del ritorno a Dio, il primo poeta della letteratura italiana ricalca San Paolo ed anticipa Petrarca, Tasso e altri autori, anche contemporanei. Ma non va dimenticato che una simile visione caratterizza anche le civiltà pre-cristiane: Eraclito, Platone (per il quale la vita è un esercizio alla morte), Cicerone, l’Ecclesiaste (“la morte fisica è morte luminosa”). Questo tòpos è ripreso sia dall’autrice Adalgisa Zanotto che nel testo “Signora Morte” scrive: “Sorella mansueta della vita libera / germogli per far rinascere l’umano / raccogli ogni respiro che cammina dentro / tieni svegli per il tempo giusto”, sia da Antonio Fiori che la chiama “Sorella di tutti […] invito silenzioso al fresco / della stanza”. Ma per intensità spirituale il più vicino alla letizia francescana è il poeta palermitano Guglielmo Peralta che celebra con questi versi il trapasso: “E sarà nuova grazia il risveglio / Felice di non essere sul calar della sera / se l’oltre offre il grembo alla Bellezza, / se Poesia si fa specchio di Dio / alba nuova del mondo e degli occhi / se un destino di felicità abita la morte”.

Spesso, invece, il pensiero della propria scomparsa genera una sorta di addolorata tenerezza nei confronti del proprio corpo - “Ah, corpo, quanto sarà difficile / lasciarti. Con gratitudine, dolce guscio” (Antonella Barina) - fatto di materia così effimera da indurre quasi a dubitare della “realtà” stessa di quanti più non sono: “ma sono esistiti davvero / con mani operose, leggere / con occhi radenti socchiusi / con voci?” (Aldino Leoni). “Quanti nomi ti porti dentro, morte” conclude Giacomo Leronni nel suo testo “Salendo, scendendo”; e viene in mente Danilo Kiš che ne l’enciclopedia dei morti immagina di comporre un’opera monumentale in migliaia di volumi in cui elencare quanti hanno lasciato il mondo senza traccia di sé, seguendo un’idea di Virginia Woolf che progettava una serie di Biografie degli oscuri tra sinteticità enciclopedica e solennità biblica.

Altro tòpos assai frequente, perfino abusato, è quello della cosiddetta “morte bella” raccontata dai romanzieri inglesi di età vittoriana, così come da autori di altra nazionalità, quali Balzac, Tolstoj, Nievo: il moribondo, attorniato dai parenti, dando le sue ultime disposizioni, pronuncia parole di affetto e di addio spesso patetiche, oppure descrive le sue esperienze di pre-morte: cori angelici, la visione di un qualche parente o amico che lo invita a seguirlo nel regno dei cieli. In verità era quest’ultimo l’argomento che stava più a cuore al curatore Giovanni Dino, curioso di gettare uno sguardo oltre la soglia, ma che solo pochi autori hanno affrontato, probabilmente perché, anche nel caso in cui siano stati testimoni diretti di questi fenomeni, assai più frequenti di quanto si pensi, sono stati trattenuti da una qualche forma di pudore. Come scrive Angela De Leo nella sua particolareggiata e sbalorditiva testimonianza in cui narra come la sua vita sia stata tutta intessuta di eventi miracolosi: “So che è una condizione innaturale la mia. Spesso evito di parlarne perché temo il giudizio affrettato dagli altri”.

Eppure niente più della pre-conoscenza del suo destino finale incuriosisce da sempre l’uomo e lo spinge ad oltrepassare il confine che lo separa dai morti – i quali, secondo Thomas (Urbain, 1978), “sono un’equivalenza ontologica fra ciò che esiste e ciò che non esiste” - al punto da popolarlo o di creature angelicate, come la Fatina di Pinocchio, o di mostri (vampiri, zombi, demoni, fantasmi), protagonisti di tantissime opere letterarie (ma anche cinematografiche), se è vero che lo spazio letterario è quello stesso della morte, “un’apertura su ciò che è quando non c’è più mondo, quando non c’è ancora mondo” (Blanchot); quello che si immagina ruoti attorno all’irrappresentabile della morte: le une e gli altri divenendo figure rispettivamente della speranza e dell’angoscia di fronte a un evento che l’uomo conosce solo per oggettivazione, poiché “L’inconscio di ciascuno di noi non concepisce la propria morte e fa, invece, della morte dell’altro lo spettacolo della morte” (Sigmund Freud).

Una testimonianza letteraria del “tunnel di luce” che i morti attraverserebbero prima di giungere alla loro destinazione è quella di Lev Tolstoj (La morte di Ivan Ilijĉ, 1886), il quale narra che il protagonista, dopo essere spirato, entra in un tunnel buio e, dopo averlo percorso, intravvede, in fondo, una luce accecante. Anche alcuni degli autori antologizzati sostengono di avere vissuto questa esperienza (“Ma cos’è questa luce / che mi abbaglia / e mi fa sentire lieto…”, Caterina Trombetti) oppure altre egualmente straordinarie durante uno stato di pre-morte o in circostanze riguardanti i loro cari: Isabella Vicentini, che ricorda il dialogo tra la madre e il medico avvenuto durante il suo coma; Mara Moretti: “In un lampo visitai la vita di mia madre / immagine luminosa…”; Grazia Tonello, che nel suo brano in prosa scrive: “Mi sono informata e mi è stato spiegato che ero collegata da un filo d’argento a mio padre e per questo la mia visita lo aveva riportato indietro”; Marta Paoloantonio: “Forse è così la morte / un ricordo che prende vita / quando l’anima abbandona il corpo; / e la luce è qualcuno che ti salva / per il rotto della cuffia”, commentando un episodio autobiografico in cui, affondata in una piscina, fu salvata da un misterioso Qualcuno che la portò in superficie; e, ancora, Marzia Spinelli che enumera improvvise apparizioni, segni, colloqui con i trapassati.

Ma, come conferma la maggior parte dei testi qui raccolti, il tòpos per eccellenza è la memoria dei morti, la loro “impalpabile presenza” (Maria Rosa Gianola) nella vita dei sopravvissuti. Pirandello definiva i morti “i pensionati della memoria” visto che trovano il loro spazio ideale nella calotta cranica dei viventi. Molti sono i poeti ad affermare che la poesia stessa (nella sua funzione elegiaca), traendo materia del suo canto dal passato e da tutto ciò che è stato perduto, costituisca in sé una forma di culto della morte, finendo con l’occupare quel vuoto determinato, nella società contemporanea, da una progressiva deritualizzazione e rimozione della sacralità dei morti, considerati alla stregua di rifiuti, di scarti. Da qualche anno, inoltre, a causa della diffusione del COVID, si è aggiunta a tutto questo la condizione sempre più estrema della solitudine del morente, quella di cui già parlò il sociologo Norbert Elias in un saggio del 1982, osservando che, se in passato la morte avveniva all’interno di una comunità, al contrario, oggi, ci si trova a vivere questa esperienza senza la presenza dei propri cari, in spazi ospedalieri anonimi, freddi, stranianti.

In ogni caso, la maggior parte degli autori di questa antologia, più che della morte e del suo enigma, parlano dei loro cari (genitori, parenti, amici) o degli extracomunitari morti per acqua (Francesca Luzzio), o delle vittime sul lavoro (Giorgia Pollastri) o di guerra (Italo Spada), e perfino delle piante (Tiziana Malagoli).

La memoria, tuttavia, non annulla la distanza di quanti non sono più: “Il fiume / è fiume in sé stesso ma / cosa unisce le due rive?” si domanda Ester Monachino.

La perdita di una persona amata alimenta spesso una nostalgia irrimediabile: ai viventi manca il suo corpo da baciare e abbracciare (“E pensarti è come bruciare / alla fiamma di un fuoco / inestinguibile”, Pietro Civitareale), la voce, il dialogo: “Vorrei farti ancora tante domande / ma non posso più avere risposte” (Luigi Bufalino). Il conforto viene spesso dai sogni: “Ci stringiamo così forte / che anche al risveglio / la pelle resta patria per quell’abbraccio” (Alba Gnazi), o dal recarsi presso la tomba che è anch’esso un antichissimo luogo della letteratura (Catullo, Foscolo, giusto per citare qualche nome) che viene echeggiato nei versi di Carlos Vitale (“Eppure le tombe vuote dei morti / custodivano la scoria dei vivi”; oppure da un gesto metaforico dal significato pregnante come quello di Viviana Fiorentino, che, rivolgendosi all’amico morto, il poeta Guido Monte, dice: “E negli anni ho cercato a ogni radura / i bulbi che avevamo seppellito”, versi che in qualche modo ricordano “i secchi tuberi” de “La sepoltura dei morti” in La terra desolata di T. S. Eliot.

In ogni caso, scrivere poesie sui cari morti costituirebbe una forma di elaborazione del lutto, grazie alla trasformazione in ordine e musicalità di quanto è disordine e angoscia, e alla eternizzazione di un corpo ormai celato, sottratto idealmente allo scempio della decomposizione, sulla quale ha insistito, fra astrazione intellettuale e realistica attenzione per il dettaglio macabro la meditatio mortis di molta letteratura del ‘900 (Gottfried Benn, poeta e anatomopatologo, giusto per fare un esempio).

L’approccio con la morte, insomma, tra dubbi, smarrimento, rassegnazione, angoscia, nichilismo, fede, è talmente individuale da dare luogo a varie definizioni, immagini, metafore: essa può essere sorella, amica (“cammino braccio contro braccio con la morte come un’amica”, Emilio Paolo Taormina); “vertigine illusoria” (Antonio Spagnuolo); “un grande magma di ricostruzione” (Daniela Monreale); “una festa di luce e di gioia” (Nazario Pardini); dolce e amara (José Russotti), ladra e salvifica (Lina Riccobene); e tuttavia nessuna morte appare più insensata e inaccettabile di quella dei bambini e dei giovanetti, nessun’altra favorisce l’acutizzarsi del patetico (come ne “L’aquilone” di Pascoli), o diventa ossessione come in Dostoievskij che si chiede dove sia Dio, se i bimbi soffrono e muoiono (I Fratelli Karamazov) o suggerisce versi tra i più dolci e strazianti come quelli che George Trakl dedica nel 1913 “Al fanciullo Elis”, ai suoi “occhi lunari”, viso di fantasma, corpo di giacinto. Questo tema viene ripreso, in questa sede, da Alessandro Fo che dedica versi teneri e musicali a un bimbo morto prima di nascere: “L’affetto che ti giunge ti fa esistere, / anche se spento prima ancora di nascere. / Come e quanto verrai tu ricordato / e da quanti e per quanto é…] Guardo attonito tutto questo bianco / anche per te. La neve che ti manca”; e da Daniela Musumeci: “Ma così a sedici anni / nessuna morte è felice”.

Una prospettiva diversa introduce l’intervento di Elio Giunta - scomparso poco dopo averlo consegnato al curatore Giovanni Dino - che si preoccupa del triste lascito che la morte dei propri cari può determinare nell’esistenza di chi sopravvive loro in termini pratici e morali: “ogni morte sa di un certo grado di desolazione e sconforto, a seconda appunto delle conseguenze e del cosa lascia a chi resta”; così come si differenziano i testi poetici di Mario Rondi che affronta con ironia divertita il pensiero della propria dipartita.

In questo svariare di atteggiamenti si riassume, grazie agli autori che hanno partecipato a questa antologia, un percorso etico-filosofico-emozionale lungo millenni. In buona sostanza, la morte resta il mistero per eccellenza, di fronte al quale ogni uomo è sollecitato a porsi le domande essenziali: Qual è il senso di un vivere all’interno di un segmento temporale più o meno lungo? E perché moriamo? E se la morte è l’Attesa per eccellenza, come ci prepariamo a essa?

Le mie prime, profonde riflessioni sull’argomento risalgono agli anni del ginnasio, quando la professoressa di lingua inglese ci fece leggere il testo teatrale Everyone nella traduzione di Nemi D’Agostino, in cui l’approssimarsi della morte provoca nel protagonista pensieri ed emozioni di forte drammaticità. Ne seguì un’intensa discussione collettiva, in seguito alla quale si giunse alla conclusione che l’unico senso del vivere è, al di là di ogni credo religioso, praticare il Bene e l’Amore, anche se non dovessero mai trovare una ricompensa eterna. Come dice la figura del Saggio in Everyone: “Uomini, tenete a memoria questa morale. / Abbiatela in pregio, vecchi e giovani uditori / e lasciate la superbia che inganna, a lungo andare. / Ricordate: Forza, Bellezza, Giudizio, Cinque sensi: / alla fine ognuno resta solo / se non ha seco le Buone Opere”.

Era il tempo in cui la scuola si faceva con le Idee.

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