Mario Inglese, "Dell'assenza e della meraviglia" (Ed. Thule) - di Arnaldo Orlando

La poesia e le parole
 
La mia lettura delle poesie di Mario Inglese che compongono la raccolta Dell’assenza e della meraviglia è stato un itinerario di ricerca intellettuale e di emozioni, una ricerca impegnativa ma piena di promesse mantenute. Ho letto Dell’assenza e della meraviglia come, io credo, vada letto un libro di poesia vera. Durante la presentazione del libro, cui ho assistito, l’ho adocchiato, l’ho sfogliato, ne ho colto qualche fiore. Poi a casa l’ho messo sul comodino, e l’ho letto in modo rapsodico, nei momenti che mi invitavano a farlo, nel silenzio, per trovare qualche scampolo della sua essenza. Quando, con questo sistema, l’ho letto tutto, l’ho ripreso, e l’ho riletto ancora, dalla prima all’ultima pagina, con una matita in mano, per dialogare con lui, per scoprire la sua chiave, il segreto di quella poesia, e anche qualcosa di me stesso. Va da sé che sono stato spinto a fare un’operazione del genere, lenta e certosina, solo perché in queste pagine ho intuito subito il seme della poesia. Quella capacità particolare di incuriosire, di spingere a prendere e a riprendere il libro; la capacità di infondere piano piano la sensazione che quello che si è inteso a una prima o a una seconda lettura è stato un inizio, non una fine.
I primi passi di questo itinerario sono stati incerti e perplessi, lo confesso. La perplessità m’era nata da un’affermazione più volte ripetuta nel corso della presentazione del libro – non dall’autore, beninteso, ma dai suoi relatori: e cioè che, nel suo specifico, la poesia si riconosce per la sua “musica”. L’affermazione era, naturalmente, provocatoria: la poesia è poesia e non musica, perché la poesia non può solo suscitare suggestioni ma deve dire cose, deve essere un esercizio di intelligenza e umanità. Tuttavia era chiara l’idea sottesa a quell’affermazione. La poesia non è una veste di musica su un concetto, ma è il concetto stesso, o meglio il mondo intero del poeta, che si oggettiva in parole che sono esse stesse le cose poetiche di cui parliamo; e tuttavia è altrettanto chiaro che, nel sentire comune, quelle parole devono suscitare emozione attraverso la musica del verso, il suo ritmo interno e la sua rima interiore. Questo era il senso dell’affermazione provocatoria, e questo, in fondo, pensavo anch’io. Ma questa poesia/musica, a una prima lettura del libro di Mario Inglese, la trovavo solo qua e là. Come in questi versi, che mi apparvero subito bellissimi:
 
Se io morissi, disse,
nulla muterebbe,
il mondo seguirebbe il suo corso,
la piazza spazzata dal vento
i soliti volti avrebbe,
la campana seguiterebbe
a scandire messe.
Se tu morissi, dissi,
i tuoi occhi muti avrei,
asciutti come sassi del deserto,
e un silenzio da riempire
e un enigma da scoprire.
 
E le altre poesie? Mi chiesi. Che cosa nascondono la maggior parte delle altre poesie di questa raccolta, nelle quali quella musica sembra volutamente essere elusa? Quelle poesie un po’ mi allontanavano e un po’ mi attiravano. Finché ho compreso, credo, dove risiedesse il nodo della questione. Il nodo stava nel fatto che, per quanto apprezzassi l’intelligenza delle poesie di Mario Inglese, non ne avrei colto l’essenza poetica finché non mi fossi liberato dell’idea di poesia/musica e non avessi cominciato a cercarla, quella poesia, altrove, e più in profondità.  Così ho imparato, lettura dopo lettura, che l’essenza della poesia di Mario Inglese risiede in una “musica” più riposta, sta nel peso specifico della parola. Ogni parola in questi componimenti è il prodotto di una meditazione, di un bilanciamento, di una cultura, di una finezza di pensiero che mi fanno pensare all’impegno di certi classicisti del primo Ottocento come Giordani o Leopardi prosatore, e che danno alla parola stessa un valore in sé, nell’essere, con la sua semplicità tersa e pudica, gravida di significati umani e totalizzanti; e perciò poetici.
 
 
La meraviglia e l’assenza
 
Ma le parole di Mario Inglese, naturalmente, sono anche tutt’uno con la sua particolare visione delle cose. Una visione che, come quelle parole, è una visione di cultura, meditazione, bilanciamento, finezza di pensiero, e infine di sconfinata umanità. Assenza e meraviglia. La meraviglia è nel sentire le cose. La meraviglia è dare vita agli oggetti, come al poeta ha insegnato sua madre. Proverò adesso a disegnare quella che secondo me è la visione delle cose che emerge dal libro di Mario Inglese, ben consapevole che il valore straordinario della poesia è di consentire al lettore di interpretare anche se stesso, oltre che il poeta, e perciò il mio non sarà un “tirare a indovinare” le  intenzioni dell’autore, ma sarà semplicemente un esprimere quello che le sue poesie hanno provocato in me.
La mia idea della poetica di Mario Inglese è questa. Come noi esseri umani siamo spirito e corpo senza separazione, come è detto, forse magrellianamente, nella bellissima “Perché abbiamo un corpo”, così la nostra realtà è fatta di uomini e cose senza separazione. Ne deriva che l’incapacità di accorgersi della presenza delle cose, di riconoscerle come parte di noi (come nella poesia L’assedio, dove il proprietario è assediato semplicemente perché non si accorge di esserlo: se avesse contezza delle cose queste non sarebbero più assedianti, ma compagne…) coincide con l’incapacità di capire gli altri uomini, di trovare il senso della “social catena”. Ed ecco l’assenza. Certo, a una lettura immediata, l’assenza si legge come una circostanza biografica, personale: quella degli uomini spesso altrove o presenti fugacemente, per un essere umano spesso anche lui altrove (come nella splendida Lezione di prossemica). È come se i tanti “cieli” sotto i quali l’autore ha vissuto come “pellegrino” della cultura, trasmettessero un segno di solitudine, di precarietà, forse di inanità... E l’assenza, naturalmente, è anche quella della madre, trasformata in presenza sacra nelle poesie della sezione Elegia per la madre. Questo è l’evidenza, ed è una lettura. Ma io ho letto l’assenza anche e soprattutto come legata alle cose: le cose sono presenti, le cose SONO; e attendono, agognano lo sguardo degli altri (che meraviglia gli ultimi tre versi de Il ronzio del frigo…); ma chi questo non comprende resta assente alle cose, agli altri, e alla fine a se stesso. L’antidoto al male dell’assenza, naturalmente, è la meraviglia. Anche se l’impressione è che l’antidoto “personale” non salverà il mondo.
Ma torniamo allo specifico del discorso poetico, alla poesia di Inglese che rifugge dalla musica “facile” e cerca la verità poetica su un nuovo livello. Devo dire, insomma, della bellezza di queste poesie; bellezza che risiede in quella che è l’unica qualità di una vera poesia: le parole sono le cose, e la commozione deriva dal trovare in quella forma la sostanza dell’idea. Il segreto ultimo, se così si può dire, sta nell’umiltà di Mario Inglese di fronte alle cose, e nella ricerca paziente, e appunto umile, della parola in cui la cosa si incarna. È questa umiltà, credo, il nucleo dell’altissimo sentire che innerva tutta la raccolta. Il richiamo a Montale, che qualcuno ha fatto, attiene a un’analisi superficiale: Montale, in qualche passo, è certo clamorosamente presente (certo, in Mal di stagione; ma anche nell’incipit di La morte delle cose; ancora più corposamente in Volto); ma è in realtà una presenza di passaggio: nel suo cammino Mario Inglese ha casualmente incontrato la memoria delle parole di Montale o piuttosto dei suoi andamenti sintattici, ma il suo percorso poetico è assolutamente personale e va oltre. L’immenso Montale non ha mai dimenticato, se vogliamo dire così, la “musica”: perfino nelle sue poesie più cifrate della Bufera, e perfino in quelle per così dire più prosaiche di Satura. Mario Inglese vuole spingersi oltre, ed esplorare una poesia che si concentri, come ho detto, sul senso meditato, classico, pudìco, di ogni parola, con il coraggio di cercare quella “musica” molto più in profondità, o addirittura, talvolta, di rinunciarci, a quella musica… (ci vuole il coraggio di Mario Inglese a cominciare una poesia con un’ipotassi come “Anche se la nozione di bello / è legata alla cultura che la esprime”; e ci vuole il suo coraggio per scrivere in un verso di una poesia, la VI della sezione Opere di misericordia spirituale, “Sì, ma che noia…”: eppure quell’esclamazione improvvisa, subito dopo il primo verso, dà una sferzata straordinaria, e vera luce, all’andamento dei versi).
Questa nuova “musica” allora, più difficile, più austera, e piena, voglio dire, di dignità umana, è presente in ogni angolo del libro. Io amo, in particolare (per ora), Il ronzio del frigo, Consigliare i dubbiosi, Se io morissi, Lezione di prossemica, Esilio, L’assedio, L’alba arriva, le tenerissime poesie della sezione Occhi, La cattedrale di Galway, Natale ancora, Un’amicizia.
Leggere Dell’assenza e della meraviglia è un itinerario impegnativo, certo. Ma credo che il destare in un lettore tutto questo groviglio di emozioni, pensieri e riflessioni, che è come dire riuscire a creare un dialogo, sia il massimo, o forse l’unico, risultato che può desiderare chi scrive. Per questo Mario Inglese è un poeta di livello speciale, per la sua ispirazione, per la sua cultura e per la sua anima.
 
 
 
 
 
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