“L’Oriente di Dacia Maraini” di Maria Nivea Zagarella

Il libro Sguardo a oriente (2022) di Dacia Maraini è una silloge composita di testi, in prevalenza articoli della scrittrice di quest’ultimo trentennio editi su testate diverse (Corriere delle sera, IO Donna, Il Messaggero, L’Unità…).  Ma troviamo pure una lunga nota, con le sue ombre, su un viaggio di Dacia in Cina con Alberto Moravia negli anni della rivoluzione culturale maoista. Una Cina invasa allora di libretti rossi (con i pensieri di Mao), e dalle giornate inesorabilmente “scandite” da slogan e marziali “balli rivoluzionari”, e da una propaganda anticapitalista e antiborghese che investiva anche il “gusto del cibo” (vizio borghese), l’uso femminile delle gonne (corruzione borghese), la visita turistica, parziale e ultraselettiva, alle tombe dei Ming (Basta una tomba -diceva la guida- per mostrare come vivevano gli sfruttatori del popolo, imperialisti e capitalisti), la censura perfino dei dipinti del giardino d’inverno, coperti da una vernice temporanea rosa, spessa e grassa, come una pasta dentifricia…. perché rappresentavano delle scene di vita di corte della vecchia monarchia. Nel libro sono presenti pure due prefazioni a due singolari volumi: uno, Non si può incatenare il sole. Storie di donne nelle carceri iraniane di P. Najafi e H. Hajhassan, sulla lunga protesta, dal lontano 1981, delle donne iraniane contro il regime khomeinista; l’altro, Tibet, l’altra metà del cielo - L’alpinismo tibetano raccontato dalle protagoniste, di M. A. Sironi, H. Diemberger, S. Tsomo, su un alpinismo tibetano tutto al femminile, la cui prestigiosa storia registra le vicende straordinarie delle coraggiose tibetane Sheirab, Pentog, Kusang, Lachyi, Purpur Droma, e accanto ad esse la polacca Rutkiewicz, la cinese Kyi Kyi, la nepalese Pemba Droma, tutte -sottolinea la Maraini- scalatrici indomite, grande esempio per le donne di tutto il mondo di indipendenza e fattività, di passione e intelligenza sportiva. Il ventaglio di figure, argomenti, fatti, riportati nel libro attinge prevalentemente a episodi e ricordi autobiografici della scrittrice, ma anche ad occasioni di cronaca internazionale (guerre, regimi totalitari, attentati, stupri, iniziative umanitarie, eventi culturali…), attraversando in lungo e in largo il continente asiatico, di cui l’autrice restituisce le trasformazioni fra “tradizione” e “modernità”, fra quelle che le sembrano armonizzazioni possibili e ben avviate (in Giappone, Seul, Kual Lumpur, Hanoi…) e difficoltà e gravi contraddizioni invece ancora insolute (in India, Cina, Turchia...), affrontando dunque anche i drammi attuali dell’immenso territorio continentale, e le problematiche che chiamano in causa il destino collettivo dell’umanità. Indicative, e conclusive, a fine libro risultano le riflessioni indotte dal disastro infinito della guerra civile nello Yemen: Chiudersi nel proprio giardino privilegiato -scrive la Maraini- è la cosa più inumana ma anche più stupida che possiamo fare. Di fronte a fenomeni così estesi e disperati non c’è muro che tenga.

La sua penna è costretta quasi a muoversi di guerra in guerra, a cominciare dall’esperienza di Dacia/bambina nel campo di concentramento giapponese di Nagoya dal 1943 al 1945, dove visse nell’assillo continuo della fame, mangiando per sopravvivere anche formiche, serpentelli, felci bollite amare e legnose, topi. Donde l’attenzione in molti articoli ai bambini: quelli filippini, sfruttati, picchiati, stuprati, seviziati, arrestati per strada, soccorsi solo dai Medici Senza Frontiere e da qualche prete che li ha salvati dai turisti voraci e dalla colla, la droga dei poveri (un solvente per scarpe) che toglie fame sete paura, ma causa grossi danni neurologici; o i bimbi vittime della guerra civile siriana fra bombardamenti (Perché Assad vuole distruggere il suo popolo, compresi i bambini?) gas nervino e mine antiuomo. E ancora, quelli ridotti a scheletri nello Yemen, paese -precisa la Maraini- una volta fiabesco (come appare in alcune sequenze filmiche di Pasolini e nel suo documentario del 1970) con la sua Sanaa dai palazzi di fango rossiccio, le pietre di merletto, le finestre incorniciate di gesso bianco, orrendamente sfigurato oggi da guerra, carestia, fanatismo religioso; o i bambini palestinesi, nell’interminabile conflitto con Israele (sanguinosamente e ferocemente riarso il 7 ottobre scorso per l’incursione terroristica di Hamas), mentre continuano a rinnovarsi (e vanificarsi) gli sforzi di gruppi come “Coalizione di donne per la Pace” o “Donne in nero” che vedono  -come puntualizza la scrittrice- la collaborativa compresenza di donne ebree e palestinesi per la ricerca tenace di punti di dialogo e convivenza fra i due popoli. Attive, nell’antimilitarismo e impegno globale per la giustizia e i diritti, le “Donne in nero” e quelle dell’“Associazione italiana donne per lo sviluppo” (Aidos) anche negli aiuti e nella difesa delle donne afgane contro le vessazioni dei talebani che, tornati al potere in Afghanistan nel 2021, come già nel 1996, le hanno “sepolte vive“ in casa, escludendole dai luoghi di lavoro, dalle scuole, vietando loro di uscire da sole. Osserva la Maraini che i diritti civili, quali la libertà di parola, di pensiero, di movimento, non sono valori solo occidentali, ma “universali”, e che non ci sarà vera emancipazione finché la cultura dei Padri non avrà accettato di dividere la guida della società col mondo femminile, rinunciando al dominio e al controllo sul corpo e sulla mente delle donne, in un comune progetto solidale per il futuro. Progetto che è il filo rosso della recente ribellione sul finire del 2022 anche delle donne iraniane scatenatasi, con al loro fianco giovani uomini, soprattutto dopo la morte, per le percosse della ”polizia morale”, della curda Mahsa Amini che non portava il velo “in modo appropriato” (episodio a cui si è aggiunto  qualche mese fa, anche in questo 2023, un altro pestaggio della polizia morale ai danni di una studentessa sedicenne perché senza velo). Nella prefazione al libro Non si può incatenare il soleStorie di donne nelle carceri iraniane la Maraini ricorda altre coraggiose iraniane arrestate, uccise, o torturate fino a diventare pazze o restare menomate, come la studentessa Puoran Najafi e l’infermiera Hengameh Hajassan, autrici del volume, passate per il famigerato carcere di Evin, e in un articolo si sofferma sulla protesta nel 2018 di Vida Movahed che legò il suo velo bianco in cima a un bastone per dire al regime che non ne poteva più della disoccupazione, della corruzione, della mancanza di prospettive per il futuro, del [suo] stato di sudditanza come studentessa e come donna. Vida si è salvata grazie a una campagna internazionale di sensibilizzazione e per l’intervento di Amnesty International.

Non mancano in Sguardo a Oriente pure l’elenco, oltre agli arresti e alle esecuzioni, di quei tibetani (nel 2012 già 38 uomini e una giovane madre, Rikyo) che si sono suicidati per protesta contro l’occupazione cinese, che li sta spogliando della loro lingua, territorio, luoghi sacri, e il “racconto” della figura contraddittoria -come opportunamente sottolinea il prefatore del libro della Maraini, Michelangelo La Luna-  della birmana San Suu Kyi dentro il contesto delle varie giunte militari alternatesi in Birmania (oggi Myanmar) dal 1962 al 2021, o delle personalità “determinate” di altre tre donne: la pakistana Benazir Bhutto leader del Partito Popolare Pakistano uccisa nell’agguato kamikaze del 2007; la giapponese Akie Kobe, moglie dell’ex primo ministro Shinzo Abe, che nel 2015 ha pubblicamente rivendicato il suo diritto come donna all’autonomia di pensiero in politica rispetto al marito (Io penso che nel mio paese i ruoli delle donne devono cambiare… d’ora in poi vorrei esprimere le mie opinioni); la curda Ayse Deniz Karacagil morta sul fronte di Raqqa a 24 anni nel 2017, dopo avere combattuto le sue generose e idealistiche battaglie per l’ambiente (opponendosi al taglio di alberi centenari a Gezi Park, a Instanbul), per la libertà (venendo arrestata per avere manifestato contro le violenze di Erdogan ai danni dei curdi), per la pace (prendendo le armi nella guerra contro l’Isis e per la difesa del suo popolo). Lo stupro feroce infine, nel 2012, dell’indiana violentata (davanti al fidanzato) da 6 giovani su un autobus di New Dheli detta alla Maraini dure riflessioni sull’aumento della violenza nelle città (i femminicidi infatti vanno crescendo, non diminuendo) e su taluni perversi, diffusi, modelli culturali. Le donne -scrive- sono le prime vittime di una cultura della predazione, che nasce dalla paura, dalla crisi, dalla frustrazione, dall’odio per i diritti civili, dall’avversione per le regole sociali, dal disprezzo nei riguardi dei più deboli… Di fronte alla richiesta di più libertà e autonomia il mondo androcentrico… si arma di disprezzo e di rabbia vendicativa… Ma ammonisce la scrittrice: La collera delle donne offese, se diventa massa, può fare cambiare le leggi, rendere efficienti gli indagatori, prendere di mira i prepotenti. E invita tutti a “educarsi” all’indignazione collettiva, perché lo stupro -aggiunge- è una terribile ferita sociale, che non riguarda solo chi lo pratica e lo subisce, ma tutti coloro che cercano di fare convivere una umanità divisa e diversa, costruendo faticosamente le ragioni di una comune convivenza basata sulla fiducia e l’accettazione dell’altro. Non è dunque solo una questione di “femminismo” (nelle cui file la Maraini ha a lungo militato) questa sua insistenza sulle donne, tutte individualmente e puntualmente qui citate, e con i loro specifici ”casi”. E’ un problema oggi “globale”, planetario, di democrazia reale, di sviluppo equo, di effettiva “crescita di civiltà”. E se a denuncia e risarcimento dei silenzi e delle colpe del passato contro il mondo femminile viene fuori dalle sue pagine anche la positiva scoperta che in Cina nel millennio scorso le donne si erano inventata e avevano utilizzato una scrittura segreta, il Nushu (in cui i caratteri tradizionali cinesi non erano usati come segni fonetici), per raccontare nei loro diari e lettere i dolori e le mortificazioni della loro condizione: matrimoni forzati, segregazioni, violenze, umiliazioni, lo sguardo della scrittrice non dimentica altre grosse questioni a valenza internazionale. I sempre attuali pericoli, ad esempio, dell’atomica dopo gli incidenti nel 1999 nelle centrali nucleari del Giappone (e oggi possiamo aggiungervi le centrali a grosso rischio in Ucraina per l’invasione militare dei russi): dalle perdite inquinanti  -rileva-  che possono già verificarsi in un semplice trasporto di plutonio fino a quelle vere bombe ad orologeria che sono le scorie atomiche collocate in contenitori sepolti in fondo al mare o nelle viscere delle miniere, per non parlare degli arsenali militari in mano a dittatori (le continue minacce di Putin) e dittatorelli come Kim Jong-un piccolo tronfio bambino malato di onnipotenza. L’ingiusta inoltre sopravvivenza in molti Stati della pena di morte, sin dal ‘700 definita e marchiata da Cesare Beccaria come una forma di “assassinio pubblico” (Parmi assurdo che le leggi… che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime…), e la persecuzione delle varie minoranze etniche (in Birmania, Iran, Cina…) o la loro scomparsa, sull’onda del ricordo degli Ainu, l’etnia dalla “pelle bianca” studiata in Giappone da suo padre Fosco negli anni Quaranta a Sapporo, ora ridotta a poche centinaia di vecchi, realtà etnica questa che le ha fatto ricordare il degrado morale dei Pigmei osservato in un suo lontano viaggio in Africa con Moravia e Pasolini. Pigmei ridottisi a buffoni per i turisti o a mendicanti, loro che erano creature della foresta e bravi cacciatori, ma le foreste regrediscono ovunque, erose con i loro animali da nuove piantagioni, nuove strade, nuove coltivazioni intensive.        

In contrasto, e per contrastare tutto il negativo finora elencato, risaltano in molte pagine la simpatia e l’entusiasmo della Maraini per ogni Convegno o Festival (a Tokio, Calcutta, Jakarta, Kuala Lumpur, Istanbul…) di scrittori di nazionalità diverse (anch’essi puntualmente citati), nei quali viene riaffermata la necessità/forza della “scrittura” come resistenza contro tutte le armi e fondamentale testimonianza della verità. Il testimone -incalza la scrittrice- racconta i fatti nei particolari che la Storia spesso trascura e quei particolari sono il sale della letteratura. Non tralascia pertanto occasione per sottolineare e lodare le iniziative dei vari Istituti di Cultura italiana presenti in Asia, o delle Ambasciate italiane (Pechino, Tokio, Seul, New Delhi, Istanbul, Hanoi…), che movimentano studenti, professori, autori e pubblico, tenendo vivi la conoscenza e l’interesse per il nostro paese, la nostra cultura (moda, cinema, musica d’opera, cucina…), letteratura, lingua, verso cui molti orientali sono attratti. L’interesse ad esempio dei cinesi per i nostri Pirandello, Elsa Morante, Calvino, Sgorlon… Una lingua melodiosa è l’italiano, ha detto una volta alla scrittrice in viaggio nel Sud-est asiatico, e in un italiano compito e gentile, una ragazza dagli occhi a mandorla e dai capelli nerissimi, e la Maraini, precisando che in alcuni paesi sono in aumento le scuole e gli studenti di italiano e che all’estero l’Italia è avvertita come una grande potenza culturale (non economica, si badi, non militare, non industriale, ma culturale) si chiede se non siamo solo noi a disprezzarla [la nostra lingua] e maltrattarla, infarcendola di parole inglesi, trascurandone la bellezza e la capacità di adattarsi con intelligenza e originalità alle novità tecnologiche. Ma l’ottica del vero scrittore, pur nel rispetto della propria tradizione nazionale, oggi resta, e non può non esserlo, planetaria, come emerge dal messaggio implicito nell’orgoglio di sentirsi istanbuliani della scrittrice turca Buket Uzuner e dello scrittore ebreo Mario Levi, cioè intellettuali portatori in sé, e capaci di mescolarle, di radici culturali diversissime e ataviche: romane bizantine ottomane greche… come se Istanbul, -conclude la Maraini- questa città così bella, che si affaccia sulle acque placide percorse in lungo e in largo da imbarcazioni che lasciano scie rosate su un’acqua dalle scaglie d’oro, fosse il centro del mondo. Ma ogni angolo del pianeta è “il centro del mondo”, perché non soltanto la cultura/conoscenza unisce, ma anche l’Umanità è “una sola”.

 

 

 

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