IL GENERALE RICHARD CHURCH COMANDANTE LE TRUPPE STRANIERE – LA REPRESSIONE DEL MOTO LIBERALE DEL 1817 NELLA TERRA D’OTRANTO E L’INSUCCESSO MILITARE NELLA RIVOLTA DI PALERMO DEL LUGLIO 1820 – RICERCA STORICA DI GIOVANNI TERESI

Nel 1820 il turbine rivoluzionario, sorto il primo luglio a Nola ed estesosi ad Avellino e a Napoli, avrà drammatiche ripercussioni sia a Palermo sia nei comuni di Alcamo, Castellammare, Mazara, Salemi, Castelvetrano, Campobello di Mazzara, Poggioreale e Salaparuta favorevoli alla capitale isolana.  Gli agitatori, traendo  pretesto dalla scarsezza del pane, insorgono contro le imposte e la carta bollata e prendono di mira i rappresentanti del potere.  Nei comuni si formano “Giunte provvisorie  di pubblica sicurezza e tranquillità” per tutela del buon ordine e del funzionamento amministrativo.

I liberali napoletani, insofferenti alla politica assolutistica del governo, insorgono e costringono Ferdinando I a concedere la costituzione di Spagna.  I nobili siciliani che si trovano a Napoli dichiarano subito che non avrebbero mai accettato quella costituzione e chiedono il ripristino della carta costituzionale siciliana del 1812. Tale costituzione é modellata su quella inglese, come possiamo leggere in un articolo della “Gazzetta” del 25 luglio 1812: “ le istruzioni di S.R.A. il Principe Vicario Generale, e i suoi generosi sentimenti erano impressi sul cuor di ognuno dei parlamentari, e a seconda delle sue sagge insinuazioni cominciarono le discussioni e i lavori per adottare come base della nuova Costituzione di Sicilia l’incomparabile Costituzione Britannica; ma con questa differenza, stabilita con articolo fondamentale, che l’unica Religione di Sicilia, sarà sempre, come lo è stato nel passato la Cattolica Apostolica e Romana Religione ad esclusione di qualunque altra”. La Costituzione del 18 luglio 1812 era stata voluta dalla Gran Bretagna, che pensava di sollecitare lo spirito autonomistico siciliano. Questa prevedeva per il re la sanzione delle leggi e il diritto di sciogliere il parlamento, unitamente alla creazione di due Camere: un senato di nomina regia, composto dai notabili, e una camera dei deputati eletti a suffragio diretto con un ampio sistema censitario;  inoltre aboliva i privilegi feudali, limitava il potere del re e, qualora quest’ultimo si fosse trasferito a Napoli, la Sicilia avrebbe dovuto avere un re proprio ed, inoltre, sulla falsariga di quella inglese, sanciva la libertà di stampa e di pensiero. Essa propugnava l’indipendenza da Napoli e invitava i Comuni a formulare “indirizzi” di sostegno al suo operato. Ma, agli inizi dei moti del ’20, Messina, Catania, Siracusa, Trapani e altre città si oppongono a Palermo, chiedono aiuti al governo napoletano e combattono “con armi siciliane la siciliana indipendenza”. Unica nel distretto trapanese, Marsala aderisce a Palermo, sperando di diventare capovalle al posto di Trapani.

Nel luglio 1820, allo scoppio dei moti carbonari,  anche a Palermo si costituisce una Giunta di pubblica sicurezza.

Tutti gli osservatori concordano sull’acuito sentimento di rivalsa dei Siciliani nei confronti di Napoli. Non più solo i baroni né solo Palermo sono contro il governo centrale; ma ceti medi, soprattutto commerciali, e ceti popolari. Lo scrivono a chiare note Jablonowski al Metternich e A’Court a Castlereagh. Le stesse relazioni del duca Gualtieri, che di solito attenuava la verità, avvertono Napoli che la leva obbligatoria  solleva indignazione in tutti i ceti. L’epicentro dell’opposizione resta tuttavia Palermo, dove da secoli i baroni esercitano la loro egemonia. Palermo, prima dei moti del 1820, a parte gli effetti negativi delle mutate relazioni politico-commerciali europee, era stata colpita nel suo ruolo di grande capitale. Il nuovo sistema la degradava a semplice capovalle, come gli altri capoluoghi delle sei valli; le toglieva il monopolio dei tribunali dell’isola; le sopprimeva vari uffici e specie il porto franco. Per una città che si basava sui consumi della nobiltà, sulle forniture all’esercito, sull’apparato amministrativo, tutto questo significava disoccupazione, diminuzione di redditi, oltre che una netta perdita di prestigio. Palermo, tra il 1815 e il 1820, secondo la stima del Maggiore Perni, avrebbe perduto, per emigrazione, circa 12 mila persone, 10 mila partite per Napoli al seguito del governo, 2 mila per altre località perché impiegate nei nuovi uffici. Le nuove imposte poi avevano suscitato forti reazioni nella base popolare delle città e delle campagne, isolando in certa misura le autorità e rendendo più ardua la già difficile opera di risanamento. Il moto del 1820, nell’intreccio delle sue varie fasi, mostra appunto questo, che nel quinquennio, accanto ad interessi offesi che tendevano una rivincita, erano sviluppati interessi opposti, che chiedevano uno spazio più ampio in direzione di progresso. Così, nel moto rivoluzionario del 1820 in Sicilia, si possono cogliere almeno due caratteri salienti. Da un lato, l’estrema debolezza della direzione politica; dall’altro, la divisione dell’isola tra Palermo e Napoli. Un altro carattere, pure significativo, è la consistente presenza di moti nelle campagne, quasi jacqueries senza rapporto di connessione interna. Tutti caratteri che spiegano l’incapacità e insieme l’impossibilità dell’aristocrazia di far rivivere la Costituzione del ’12.

L’indolente e grossolano re di Napoli e la sua corte, ben lieti di essere liberati dal pericolo che minaccia l’ordine sociale nelle lontane provincie,  si curano ben poco di migliorare il sistema governativo. I ministri, in mezzo agli intrighi e alla corruzione, sono contenti che un generale straniero Richard  Church  ristabilisca l’ordine in Sicilia al loro posto, visto e considerato che essi  non vi sono mai riusciti.

Il generale Church, reduce da successi nella Terra d’Otranto, viene così definito dallo storico Colletta che, sebbene lo avesse poco in simpatia come straniero e come inglese, è costretto a rendere giustizia alla integrità e al vigore amministrativo della sua amministrazione: “Il rigore di lui fu grande e giusto: 163 di varie sette morirono per pena, e quindi spavento ai settari, ardimento agli onesti, animo ai magistrati resero a quella provincia la quiete pubblica”.

Ma chi è il generale Richard Church andando un po’ a ritroso nel tempo della sua formazione militare?  Richard Church, figlio secondogenito di Matthew Church, quacchero dell’Irlanda meridionale, mercante seguace della “società degli Amici”, all’età di sedici anni era fuggito di casa per arruolarsi nell’esercito britannico. Per questa violazione dei principi pacifisti del movimento religioso di cui era seguace era stato disconosciuto dai suoi corregionali, ma non dai suoi familiari: il 3 luglio 1800 infatti suo padre gli acquista un brevetto di ufficiale nel 13° reggimento di fanteria leggera (Somerset Light Infantry) del British Army. Da questo momento in poi, sir Richard Church, forte di animo e valoroso su campo, brucia le tappe della carriera militare: tenente colonnello a trentun anni, maresciallo di campo dell’esercito napoletano a trentadue, ispettore comandante delle truppe estere a trentatré, comandante in capo in Sicilia a trentasei, “archistrategos” a quarantatré. Nel 1817, a trentasei anni,  gli viene affidato l’incarico di sgominare le bande di briganti nelle provincie di Bari e di Otranto. Richard Church ha la fronte alta, i capelli morbidi, folti e neri come i baffi, gli occhi chiari, lo sguardo severo ma onesto. Di lui riferisce Mary Church in “Capitoli di una vita avventurosa”: “Non avrò pace finché non avrò distrutto Ciro Annicchiarico e tutti i suoi seguaci”; ripete il comandante Church ai suoi soldati. In Puglia società segrete indipendenti dalla carboneria pare certo che fossero quelle dei “ Patrioti Europei”, dei “Filadelfi” e dei “Decisi”.

In un rapporto del generale Church si legge che la setta dei “Patrioti Europei” era stata costituita nella provincia di Lecce verso la fine del 1814 da Mauro Manieri. Le sezioni dei “Patrioti Europei” si chiamavano “Campi” e quelle dei “Filadelfi” invece “Squadriglie” e, se dobbiamo credere al generale Church, entrambi erano organizzati militarmente e i membri erano istruiti da ufficiali. “Il numero totale dei Campi nella provincia di Lecce”, scrive sempre Church, “era 113, e di Squadriglie infinitamente di più: il Campo, inclusivo con le Squadriglie, consisteva almeno in una sezione di 200 a 300 uomini.” La setta dei “Decisi” era stata fondata nell’ottobre del 1817 dall’abate Ciro Annichiarico di Grottaglie, che, alcuni mesi dopo, preso in una festa di matrimonio, era stato fucilato per ordine del generale R. Church. Mentre il generale Amato ripuliva di briganti il Tavoliere e il Molise, il generale Richard Church ripuliva la terra di Bari e di Lecce. Ai più noti capibanda, che cercavano di innescare i loro delitti con il programma umanitario e liberaleggiante della setta dei “Decisi”, il generale Church aveva dato una caccia spietata e erano caduti tutti sotto i suoi colpi; come al paese di Occhio di Lupo, sotto i suoi colpi erano caduti il Capocelli, il Perrone  assieme all’abate Ciro.

Così, i membri delle società segrete di tutto il Regno sentono un brivido di terrore nel conoscere le severe misure con le quali sono stati scoperti e distrutti i settari delle Puglie. Quando il governo del re vacilla davanti al moto rivoluzionario, il Church è mandato come ultima speranza a comandare truppe straniere e ribelli, esasperate  sia per la sua rigorosa disciplina militare  sia per gli esigui stipendi pagati pure in arretrato. Così, con troppa ingenuità per eccessivo spirito di avventura e per una causa già dall’inizio corrotta, egli si mette a capo delle truppe in Sicilia.

Giungendo al periodo dei moti rivoluzionari del ’20, il generale Naselli, napoletano, è nominato luogotenente generale in Sicilia, posto equivalente a quello di viceré; e il generale Church ha il comando delle truppe. Il generale Church fa istanza per condurre con se le sue truppe estere, ben conosciute e fidate, sapendo che non c’è da fidarsi di quelle siciliane; ma non è accontentato perché esse occorrevano a Napoli. Giunge a Palermo il 5 luglio 1820  e trova le forze militari insufficienti per presidiare la città, e la disciplina delle truppe molto fiacca. Non era seguito alcun criterio militare, non vi era un luogo per le esercitazioni, non un qualche modo per trasmettere gli ordini; gli ufficiali erano sempre vestiti in borghese e alloggiati in posti diversi. Lo spirito d’insubordinazione regnava in diversi corpi e tutti erano in certo qual modo infetti da carbonarismo.

Il 15 luglio 1820 Palermo è affollata per la grande festa nazionale di Santa Rosalia. Proprio all’inizio, un dispaccio da Napoli porta la notizia della rivolta lì scoppiata e della nuova costituzione per il regno delle due Sicilie. La “fatidica” barca di padron Catalano con 180 passeggeri era giunta da Napoli il 14 luglio con le notizie della rivoluzione napoletana a modo di Spagna. Dal giorno 9 luglio i più attenti e certo i nobili erano informati del fatto rivoluzionario per i canali diplomatici e militari. Ma, tra il 9 e il 14 luglio, si erano prodotti due fatti politici di grande rilievo. La nobiltà palermitana, la quale certo non poteva desiderare una costituzione democratica, aveva perduto l’iniziativa: non si era mossa né forse aveva la volontà di porsi in rivolta. Messina e Catania e le altre città della costa orientale avevano tolto l’iniziativa a Palermo, isolandola e accettando la Costituzione spagnola. Ritornando al 15 luglio, i marinai del bastimento approdano con la coccarda tricolore sul berretto, ed in pochi minuti, tutto il popolo per le strade ha il tricolore invece che il nastro bianco reale e grida: “Costituzione! Libertà indipendenza!”.

Proprio in quel periodo il Giornale Costituzionale di Napoli pubblica un resoconto dell’accaduto; lamenta gli eccessi che ebbero luogo, ma getta tutto il biasimo sulla “pazza e stupida condotta del generale Church  che, straniero per nascita e per sentimento, strappò dal petto di un pacifico cittadino il nastro giallo. Il tumulto non avrebbe avuto luogo senza la sua follia e la sua imprudenza”. Il nastro giallo era stato aggiunto al tricolore come segno d’indipendenza. Il generale Church si difende, così come racconta nelle sue memorie, rispondendo: “E’ una favola, un’assoluta falsità. Mai la prudenza mi ha abbandonato al punto di rischiare la vita fra la plebe infuriata. E’ strano destino che proprio quando feci per compiere il mio dovere mi sia imputato come colpa, e l’orgoglio e l’onore di soldato siano crudelmente feriti per la prima volta nella mia vita”... “ Alle 8 pomeridiane del 14 luglio, il viceré, generale Naselli, mi inviò la notizia della rivoluzione e della nuova costituzione a Napoli. Il mio primo atto fu di rassegnare le mie dimissioni al viceré, che le rifiutò pregandomi di non abbandonarlo in una posizione così critica fino all’arrivo del suo successore, il generale Fardelli, eletto dal governo rivoluzionario.”

Il generale Church acconsente a ritirare le dimissioni, ma con la preghiera di ricevere ordini precisi. Così, la mattina seguente alle sei, mandò il maresciallo O’ Ferris, capo dello stato maggiore,  dal viceré. Costui impone di annunciare alle truppe l’accettazione della nuova costituzione e l’ordine d’indossare la coccarda tricolore come Sua Maestà e la famiglia reale. Alle truppe però è proibito di aggiungere il nastro giallo per l’indipendenza della Sicilia. Gli ordini sono impartiti, e alle ore 10 antimeridiane tutti i funzionari militari e civili si recano alla cattedrale per assistere alla gran festa di Santa Rosalia. Le strade, la piazza e la stessa cattedrale sono affollate di gente che porta il nastro quadri colore e che grida indipendenza e libertà, ma senza incidenti. Terminate le funzioni, ciascuno dei funzionari raggiunge il proprio alloggio per riunirsi di nuovo la sera al palazzo del Senato, secondo l’uso, e assistere dalle finestre ai fuochi d’artificio e alla processione. Dapprima tutto procede normalmente: il viceré, i generali, i magistrati e i loro amici chiacchierano e guardano la folla.

Ma ad un tratto vi è un parapiglia ed un tumulto,  la folla si divide; una processione rumorosa, con a capo un certo numero di ufficiali e di soldati, si avvia verso la piazza fermandosi sotto le finestre del palazzo, sventolando i berretti al grido di: ”Viva l’indipendenza di Sicilia!Viva la libertà! Viva Robespierre!”,  dopo si dirige verso il Cassero, strada principale di Palermo. Il viceré si guarda intorno imbarazzato. “Questa condotta da parte di militari è infame! Condurrà a gravi conseguenze,” dice rivolgendosi al generale Church; e quando la piazza è sgombra si congeda e va a casa con la sua guardia d’onore. Molti degli invitati si dileguano e i generali Church e Coglitore con i luogotenenti Quandel e De Nitis sono lasciati soli. Il generale Church propone di raggiungere la processione e di ordinare ai soldati di ritornare ai quartieri. Il generale Coglitore si oppone considerando la cosa inutile e pericolosa. Il generale Church riesce ad avvicinarsi ad un soldato dicendogli: “di comunicare ai suoi camerati di non fare tanto rumore e che il loro contegno dava luogo a degli inconvenienti”.  Le sue parole non hanno effetto. I soldati proseguono, la folla si stringe loro intorno, e i quattro ufficiali sono spinti e minacciati di morte se non si fossero uniti al grido popolare. Il tumulto si fa maggiore, si brandiscono le daghe al grido di: “Abbasso! Morte ai tiranni! Uccidiamoli! Finiamola!”.  Per fortuna la carrozza del Coglitore attendeva all’ingresso della piazza e i due generali, liberandosi dalla folla, riescono ad entrarvi, anche se Castiglione viene ferito da una daga e Church tramortito da una sassata. E via se ne vanno a tutta velocità, seguiti da maledizioni, da minacce e da sassi. Lasciati a distanza i nemici, si fermarono poco dopo per consultarsi. Il generale Coglitore va a casa della sorella, promettendo di mandare abiti borghesi agli amici, il luogotenente De Nitis prende in prestito gli abiti di quest’ultimo e va alla periferia di Palermo, Church e Quandel si rifugiano in un forte, situato su di una piccola altura sovrastante il mare. Così  passa la notte, e l’alba del giorno successivo. La gente comincia a passare per i fatti suoi, barche da pesca si avvicinano ai villaggi vicini, alcuni parlano di quanto è accaduto in città e delle minacce contro il generale Church; la folla inferocita, credendo che il generale si fosse riparato nell’albergo “Tegoni” in cui aveva alloggiato, assale la locanda, la saccheggia e, portati fuori i mobili e suppellettili, la incendiano. Sparse le notizie di quei fatti, il giorno dopo le turbe dei sediziosi si radunano qua e là per le vie e al suono delle bande militari si abbandonano a disordini e violenze, saccheggiano gli uffici del Registro, della Carta Bollata e della Segreteria del distretto e mozzarono la testa alla statua di Ferdinando I. Mentre i due ufficiali sono nascosti nel forte, un ufficiale in borghese riferisce  loro che una cannoniera inviata dal generale Naselli si  dirige verso la vicina spiaggia per salvarli. Subito dopo, per fortuna, una piccola barca da pesca passa presso lo scoglio su cui è costruito il forte; i due ufficiali saltano lesti sulla sponda e dentro la barca. La cannoniera, al comando del capitano La Rocca, ha l’ordine dal viceré di condurre il generale Church a Trapani. Il generale, al contrario, desidera far ritorno a Palermo e provare la sua autorità sulle truppe, ma ciò era impossibile perché le truppe si erano unite con la marmaglia. Nel frattempo i marinai levano l’ancora e prendono il largo. Così raggiungono Trapani, ma non ricevono buona accoglienza, lì gli ufficiali hanno liberato e condotto nella loro vendita alcuni carbonari della provincia di Lecce, condannati per omicidio dalla commissione militare due anni prima. Salpano, allora, per Marsala, dove sono ricevuti più cordialmente dal signor Woohhouse. Ma prima della fine del pranzo un messaggero da Palermo reca la notizia che i galeotti sono stati messi in libertà, che le truppe si scontrano col popolo e sparano su di esso nelle strade. Il generale udito questo pensa di poter avere la fortuna di richiamare i soldati, e, nonostante le opposizioni, insiste per recarsi con la cannoniera verso Palermo. Questo accade la sera del 17 luglio 1820. Ma in direzione di San Vito, nelle vicinanze di Trapani, erano già ancorate tre cannoniere ed un battello armato. I palermitani avevano armato un certo numero di bastimenti, e nessuno poteva approdare. I marinai della cannoniera al comando del capitano La Rocca afferrano i remi gridando: “tradimento!” e cominciano a vogare con quanta forza avevano fuori dalla linea di tiro. Quella mattina si alza una brezza inusitata e i marinai issano le vele, esclamando che il loro bastimento era il più veloce della Sicilia e che presto avrebbero distanziato gli altri. Così è, e dopo tre ore di caccia i nemici chiudono le vele, abbandonano l’impresa e ritornano a casa, e con grande gioia il capitano La Rocca e i suoi uomini si rifocillano con l’eccellente vino regalato dal signor Woodhouse.

Il 23 luglio 1820 giungono a Napoli, entrando nel molo coi colori del re ondeggianti sull’albero maestro. Che cosa trovano? Il governo rovesciato, il re e il principe prigionieri nel loro palazzo, la bandiera tricolore che sventola ovunque. Il bastimento del capitano La Rocca è abbordato dai funzionari del porto e la bandiera regia viene ammainata. Dopo un’ora il maggiore Staiti viene con l’ordine di rinchiudere il generale Church nel Castel dell’Uovo ove rimane quattro mesi senza che alcuna accusa gli fosse rivolta. “Ammiro lo spirito di rettitudine che vi ha condotto qui” scrive Sir A’Court “mentre deploro l’imprudenza che aveste di mettervi nelle mani del nemico. Come posso esservi utile? Non ho più potere e influenza. Il Parlamento è composto da una massa di carbonari sui quali né il principe né i suoi ministri hanno più influenza. Non saprei che cosa consigliarvi.”. A settembre una protesta firmata da diciannove nobili e borghesi inglesi, residenti a Napoli supplica sir A’ Court, come ministro accreditato d’Inghilterra, di ottenere la liberazione del loro compatriota. La verità è che il governo non ha autorità e che i carbonari regnano a Napoli. Dopo qualche mese, il parlamentare Campochiano, interpellando i deputati, chiede espressamente la liberazione del generale Church. Questi, infine, viene liberato e la storia della sua liberazione può riassumersi in una lettera di Federico duca di York e comandante supremo dell’esercito inglese, datata del 7 marzo 1822.

Così ha termine questa fase turbolenta della vita del generale Church e forse potrà esser giudicata come una fine alquanto oscura per un sì luminoso principio; ma la sua operosità non cessa con questi avventurosi episodi. La Grecia, che l’aveva attirato nei suoi anni giovanili, s’impossessa finalmente di tutto il suo cuore; ed egli combatte per i Greci nella guerra che li ha resi indipendenti, conquistando per loro le provincie al nord-ovest. Per tutto il resto della sua vita vive ad Atene ed aiuta la rinnovata nazione con i suoi consigli e con l’esempio di una lunga esistenza nobilmente spesa.

La morte giunge per il gagliardo vecchio nel marzo del 1873 a novant’anni.

Alla sua morte il re, il governo greco e gli abitanti gli rendono tutti gli onori che era in loro potere. E’ stato deposto in una tomba nel cimitero greco. Il suo monumento, nel boschetto di cipressi presso le sponde del fiume Ilisso, porta queste parole in inglese e in greco:

“Richard Church generale che dedicando se stesso e quanto possedeva alla riscossa di un popolo cristiano dall’oppressione e alla rivendicazione della nazionalità ellenica visse per la Grecia e morì fra il suo popolo riposa qui nella pace e nella fede 1873”.

 

In realtà, sul 1820 siciliano, pur in presenza di una componente sociale ed ideologica che può accostarsi all’ideale dei promotori (e degli interessi) del moto napoletano, si scaricavano gli effetti congiunti della più generale crisi economico-commerciale e quelli specifici prodotti dal nuovo sistema. Palermo esplodeva nel tentativo di recuperare il ruolo perduto. L’aristocrazia fece la sua parte. Al centro si collocò la massa artigiana, capeggiata dal potente console della corporazione dei conciapelle, Francesco Santoro, aggregando, nei momenti di esplosione, gli altri popolari o piccoli borghesi a loro modo fortemente espropriati nel quinquennio. C’era indubbiamente al fondo di questo magma incandescente anche un indistinto bisogno di novità politiche e di mutazione sociale. Concretamente il “trionfo popolare” si tradusse in una vittoria sulla forza militare il 17 aprile, accompagnata da azioni distruttive di vari beni; e nel passaggio della direzione del moto nelle mani del Cardinale Gravina (passo consigliato al Santoro dal pretore della città, capo legale delle corporazioni). Rientrava in gioco, a quel punto, il ceto baronale, maggioritario nella nuova giunta composta dal luogotenente Naselli. La direzione fu assunta, al suo ritorno a Napoli, dal principe di Villafranca, esponente prestigioso del triennio costituzionale.

Però il conflitto durissimo che si apriva fra le “due Sicilie” non era certo l’effetto di una cinica manipolazione borbonico-napoletana di antichi rancori municipali, bensì aspra e consapevole contesa sulla direzione, sulla base sociale e sugli obiettivi della “rivoluzione”: il carattere di massa dell’adesione pubblica a vendite carbonare nell’estate e nell’autunno del 1820 rivelava persuasione diffusa del “carattere antifeudale” della rivoluzione, e ricerca di nuove strutture dell’affiliazione politica e del consenso. La vicenda intensamente vissuta in quei mesi: dall’08-09 luglio 1820 al marzo 1821, coglieva la società isolana in un periodo di gravi difficoltà, di alternative critiche e radicali. Il fatto più significativo della rivoluzione restava però l’appassionata battaglia parlamentare a Napoli di  V. Natale e della deputazione siciliana. Da loro vennero proposte intese a creare nuova proprietà contadina in seguito allo scioglimento dei diritti promiscui, dalla nazionalizzazione di terre monastiche, alla rivendicazione di terre usurpate. Altra eredità fu la domanda di buon governo amministrativo, fiscale e giudiziario, quale sempre il Natale aveva chiesto per la Sicilia in un grande discorso parlamentare del 29 dicembre del 1820.

 

 GIOVANNI TERESI

 

Bibliografia

  • D’Alessandro – Giarrizzo “La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia – Utet
  • Carlo Cataldo “Prima e dopo Garibaldi – Sicilia occidentale, 1789-1870” – Ediz. Campo
  • Calogero Costanza “Incontri Meridionali –Relazioni politico-culturali tra Gran Bretagna e Sicilia (sec. XVIII –inisio XIX) Rubettino Editore
  • Richard Church “Brigataggio e società segrete nelle Puglie” – 1982 Ediz. Arnaldo Forni
  • Giovanni Teresi “Sui moti carbonari del 1820 ’21 in Italia – Eventi ed adepti poco noti del periodo” – 2007 Bastogi Editrice Italiana – Foggia
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