Corrado Calabrò, "L’altro" (Ed. Thule) - di Francesco Casuscelli

La poesia come linguaggio dell'io nell’identificazione con l’altro

 

Je est un Autre! Io è un Altro! È questa la riflessione di Rimbaud, che si pone e ci pone a giro di volta Corrado Calabrò in questa nuova pubblicazione. Una plaquette che costituisce una sorta di confessione: ecco, io è l’altro e l’altro sono sempre io, un poeta. Questa nuova pubblicazione uscita nel pieno della pandemia contiene un gruppo di poesie inedite scritte tra il 2019 e 2020 e qualcun’altra già parte del repertorio dell’autore, ma riproposta con una nuova chiave olistica. L’urgenza espressiva di Calabrò risiede nella volontà di mettere a nudo la figura del poeta ma forse ancor di più quella dell’uomo, spogliandola d’ogni retorica e di qualsiasi sovrastruttura romantica, per riconoscerlo come autentico «strumento di poesia». Poiché la creatività che si serve della parola è qualcosa di pericoloso, scrivere poesia è una facoltà che induce l’uomo su altri percorsi scostandolo dalla parte pratica e materiale di sé stesso. Diceva Freud che “ogni individualità è, in realtà, abitata da un'alterità, da un altro che la perturba e la frammenta da un abisso insondabile che assedia e tormenta”. Ne consegue che ognuno di noi - e il poeta in modo particolare, - è una molteplicità e nella letteratura ci sono innumerevoli esempi sul doppio e sullo sdoppiamento dell’io. D’altronde, il pensiero non è più un’identità cosciente in quanto il soggetto non è con sé stesso ma si ritrova al di fuori di sé nell’Altro che lo rispecchia. Prendiamo ad esempio il bambino, nel momento in cui si vede per la prima volta riflesso nello specchio; soltanto all’età di 12-18 mesi riconosce quell’immagine come propria e capisce in un certo senso che “Je est un Autre” tracciando la strada della simmetria. Nello stesso momento in cui si forma, l’io è sdoppiato e scisso da sé stesso, la soggettività si crea da una divisione, da una non-coincidenza con sé stessa. L’origine del soggetto non è quindi interiorità ma esteriorità, gli incontri con gli altri, con l’esterno, si stratificano in successione contribuendo a formare l’identità stessa del soggetto. Lacan afferma “l’io è un soggetto fatto come una cipolla lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che lo hanno costituito. L’io non è un nucleo compatto che dice “io sono” ma è un continuo eccedere, un essere fuori di sé, un cercarsi in qualcosa di esterno.” L’io è un’apertura, un varco che si crea e si origina a partire dall’incontro con l’Altro. Incontro fatale, impatto traumatico: l’io diventa Altro, l’io è appunto l’altro. Ecco perché cerchiamo nell’altro, inteso anche come altra persona, il compimento di noi stessi; soprattutto in amore tendiamo verso l’altra o l’altro distaccandoci dall’io per congiungerci nella nuova entità del noi alla ricerca di un completamento. Ma è anche l’Altro colui che abita in noi e ci ascolta e ci parla. Gibran in una sua celebre poesia affronta il tema dell’altro: “Se tenderai l’orecchio nella notte, / è lui che sentirai parlare, / e le sue parole saranno battiti / del tuo stesso cuore”. È questa l’alterità dell’uomo, quella voce che risiede in noi, che ascolta le voci del mondo e parla continuamente; ma è soltanto quando ci fermiamo’ creando la condizione di silenzio, che si percepisce la propria voce.

Sì, dentro di noi, nell’incontro con noi stessi, noi sentiamo che agisce un “daimon” che si esprime nella scrittura. Quello che emerge nel segno linguistico è la parola che si fa portatrice di senso, il segno che appare e vuole dare espressione al nostro essere. La nostra visione poliedrica si materializza nel nostro corpo che costituisce la casa del tempo. Una casa mutevole nel presente episodico teso a precipitare in avanti. I riti invece stabilizzano la vita, l'incontro mattutino con noi stessi nell’immagine riflessa paradossalmente ci tranquillizza offrendoci un punto di partenza sia nel compiacimento che nello smarrimento. Non ci troviamo di fronte al senso di appartenenza ad una comunità, e viviamo una ricerca della nostra relazione con gli altri, con gli oggetti che ci circondano, con l’ambiente che ci accoglie “Ti guardavo, bloccato nello specchio, / e non cercavo neanche di capire, / Un uomo è incapsulato nel suo ruolo...” (Dentro lo specchio). In questo periodo di quarantena siamo confinati nei nostri ambienti domestici in cui è rinchiusa la nostra vita nuda. Siamo sempre più legati alla dimensione virtuale e ci metamorfizziamo nella percezione seriale di abitare un mondo sempre più veloce, effimero e incostante, mentre le nostre esistenze richiedono durata, un approdo, un desiderio di vivere fisica- mente il mondo con sguardi e abbracci. Ad esempio, gli oggetti che ci circondano in questa fase hanno assunto una maggiore funzione, quella di stabilizzare la vita umana. La loro oggettività permette agli uomini di trovare il loro io nell’abitudine di usare la stessa sedia, la scrivania, lo specchio. In questo senso, il rito dell’incontro con la propria immagine riflessa da forma alla propria medesimezza. Come nel racconto L’altro di Borges, in cui lo scrittore anziano incontra sé stesso da giovane, due personalità apparentemente simili ma allo stesso tempo distinte, due caricature dello stesso soggetto si concretizzano nel sogno in una sorta di frattura spaziotemporale a metà tra il sogno e la realtà, e dunque a metà tra un sogno e un altro sogno. Borges dice al suo doppio: “Il mio sogno dura ormai da settant'anni. In fin dei conti, al risveglio, non c’è nessuno che non incontri sé stesso. È quello che ci sta accadendo ora, solo che siamo in due”. Il racconto ci porta ad altre riflessioni sull’io in relazione al tempo e alla memoria introducendo il tema della nostalgia. La memoria per funzionare bene ha bisogno di allenamento, di una narrazione frequente; i ricordi se non vengono raccontati di continuo sono destinati all’oblio. In aiuto alla reiterazione dei ricordi possono agire la letteratura e la scrittura che li oggettivano e ne fanno condivisione. Quando si vive un processo di spostamento dai luoghi della giovinezza verso i luoghi di lavoro, si attua uno sdoppiamento dell’io. Si crea quindi un nucleo nell’identità del presente, un io ancorato al passato che diviene straniero dentro di noi. Jabès dice "lo straniero è innanzitutto l'altro che ciascuno può riconoscere in se”. Agisce in noi un’identità che induce alla metamorfosi per essere protagonista del presente nell’operazione di un appaesamento mentale. La nostalgia invece, è la narrazione del tempo che passa attraverso i ricordi e la rievocazione rituale dell’appartenenza ai luoghi e ad una comunità. Cioran, citato da Vito Teti nel suo ultimo libro Nostalgia, afferma che “siamo tutti inseguiti dalle nostre origini", noi saremo sempre quello che un tempo siamo stati. Antonio Prete a proposito della nostalgia e dello sradicamento suggerisce che il linguaggio è la sola zattera nel mare dell’estraneità e della solitudine che permette di riconoscere l’io e l’altro dentro di noi.

Calabrò fino all’età di sedici anni nei mesi estivi si ritirava in un casolare in riva al mare dello stretto di Messina, un locus amoenus dove viveva la pienezza della vacatio temporis senza impegni se non quello di nuotare, pescare e ammirare l’immensità del mare, durante il giorno, e l’immensità del cielo stellato durante la sera. Un’immedesimazione totale nella natura accompagnato dalla lettura della poesia. Dopo la sua partenza da quel luogo, verso altri luoghi per gli studi e per lavoro, ha tracciato un solco tra il suo passato e il suo presente laddove solo la poesia e il linguaggio coltivato nella scrittura hanno permesso di conservare i ricordi e di trasferirli in una nuova entità coesistenziale. Così il tempo, che passa e consuma noi e gli oggetti che ci accompagnano, attua una mutazione nella figura di un luogo ideale che resta. Il poeta usa il suo linguaggio come voce di un luogo interiore legato al passato che crea l’altrove come fuga mentale da una memoria sotterranea segnata dal dualismo e dai contrasti che dirigono la nostalgia verso il futuro, nella parola che si fa strumento dell'altro.

La preziosa plaquette è edita dai tipi della Fondazione Thule di Palermo a cura del prof. Tommaso Romano. Il dipinto in copertina è del pittore Enzo Tardia dal titolo Equilibrio. L’opera è una interpretazione di un mandala che esprime le emozioni dell’uomo, scavando nell’inconscio, per il superamento degli opposti, verso l’equilibrio dell’anima e del cosmo. Una copertina accattivante che costituisce la metafora di un altrove oltre il limite verso il quale ci conduce l’effetto tridimensionale delle geometrie e dei colori, per giungere ad un nucleo, un centro attraverso il quale fare il salto quantico in una nuova dimensione personale verso l’Altro appunto. Tra le poesie incluse nella pubblicazione è inserita la poesia eponima che dà il titolo alla plaquette: M’incontro appena sveglio nello specchio / ed allibisco / dinanzi a un altro volto che mi guarda. / Alieno, intruso, eppure lui mi guarda / in faccia con un’aria di sospetto. / Oh Dio! / e se foss’io un altro da me stesso?! (L’altro). Nella domanda della chiusa si racchiude lo stupore di un uomo "Je est un Autre!", uno stupore che si rinnova quotidianamente e si alimenta nella molteplicità dell’essere. Nella vita, interpretiamo molti ruoli dettati dalle scelte, spontanee o forzate, che ci obbligano a diritti e doveri ai quali non possiamo sottrarci. Ma il nostro inconscio lavora silente, ascolta e registra ogni impulso sensoriale, che si stratifica nella mente e si manifesta nella pluralità di percezioni che alimenta la scrittura. Nell’incontro giornaliero con la nostra immagine riscontriamo quali sono i nostri strumenti di navigazione nella vita, e ci convinciamo di essere quello che vediamo, ma sappiamo anche di essere altro, qualcosa o qualcuno di sommerso che scopriamo giorno per giorno nelle relazioni con l’esterno.

Possiamo trovare in questa poesia echi linguistici dalle letture e conversazioni con l’amico Pietro Cimatti che tanto ha investigato il tema dell’io e la sua poliedricità, scrivendo anche molto sulla poesia di Calabrò, esaltandone più di altri il suo respiro poetico e cogliendo per primo la consonanza con l’alterità che attraversa il suo linguaggio. Riporto le parole di Cimatti: “Calabrò ha il coraggio, che è dei poeti, di esporsi nudo e sanguinante, perfino scomposto, sulla scena bianca delle sue pagine, recitando lo straziato monologo della sua confessione infinita, sempre ripresa e mai conchiudibile, solo con se stesso e con l’angelo notturno della verità che gli impone, in quanto poeta, di darsi fino all’abisso e fino alla vertigine, in parole nette, taglienti, crudeli”. Ecco che il poetare di Calabrò risulta quasi una risposta a questa lettura penetrante che gli offre l’amico, uno specchio in cui riconoscersi e affermarsi come poeta fino all’ascesi della parola nella verità. Quello che Cimatti esprime a sua volta nelle sue poesie è un infinito smarrirsi dell’Io, un perenne inseguirsi nelle immagini svanite nel tempo e negli elementi della natura. Per prima cosa c’è il bisogno di onestà intellettuale per chi ha sentito smarrire il proprio io tra i risvolti prismatici della vita, quindi l’incapacità di riconoscimento dell’uomo di fronte alla propria immagine. Pure Cimatti scrive una poesia come una conversazione con lo specchio: «Sono il tuo volto: guarda: sono nuovo. / Non ti conosco, sosia del pensiero / non ti conosci. Vedi che mi muovo / come straniero. E tu sei lo straniero». Lo straniero è l’alieno, l’intruso che guarda con aria di sospetto l’altro. È il pensiero ad avere la colpa di allontanarci da una percezione di noi stessi, che solo la relazione con l’ambiente circostante può restituirci. Infatti, nella sua poesia Calabrò espone il turbamento e la sorpresa di vedere l'Altro e associarlo alle isotopie che affrontiamo nell’atto di guardaci allo specchio e nell’ambiente in cui siamo immersi. Chi siamo nella nostra molteplicità? Noi ci immedesimiamo nelle forme della vita, ci rispecchiamo negli elementi della natura e per mezzo di queste isotopie cerchiamo di comprendere il nostro essere, quello che siamo e quello che siamo stati.

L’isotopia dello specchio ha anche implicazione con la nostalgia del tempo che scorre ed è un dialogo con gli archetipi nella visione del nostro inconscio. Lo specchio come metafora dell’acqua e il mare, che tanto sono presenti nell’immaginario poetico di Calabrò tanto da dare forma a una duplicità, in una natura acquatica che rappresenta l’incontro con la sua parte complementare. Infatti, con l’immedesimazione nell’elemento equoreo, l’uomo trae forza per andare oltre i confini della vita e abbandonarsi alle onde lasciandosi cullare fino ad addormentarsi ed incontrare nel sogno l’altro sé. Le poesie di Calabrò hanno la forza di aprire forme di pensiero che valicano la dimensione onirica in un flusso atemporale che trasmette il rinnovarsi dello stupore. La poesia Antigravità recita “Entrare in mare prima che sia giorno / per ritrovare le albe che ho perduto / e per sottrarmi a questo peso amorfo / che fa sbarrare nell’insonnia gli occhi. / / Voglio salpare, solo, in piena notte / sentendo lo sciacquio della risacca / e galleggiare in mare con la luna. // Non voglio stare con me stesso a terra. / No, non ancora... altrimenti mi sveglio...” Qui è l’anima che parla, l’io più intimo che si scinde dal peso del corpo. In una ricerca di leggerezza nell’elemento equoreo in cui il poeta si immedesima continuamente vivendo l’ascolto della dimensione altra, non solo onirica, per certi versi anche reale e al tempo stesso metafisica, una sorta di rèverie, in cui la quotidianità perde importanza. Dove tutto si armonizza, sospesi per trasumanare tra le braccia dell’amore, tra luce e ombre, tra l’ombra dell’io e la luce dello spirito. Ecco che la poesia rappresenta anche la metafora di un viaggio dentro noi stessi, una scoperta della propria esistenza atta alla condivisione dell'humus fertile della vita. La narrazione psichedelica di un sogno, la metafora delle onde del dormiveglia e del mare. La poesia come grande contenitore emozionale che contamina, ci fa interpretare e percepire diversamente l’ambiente che ci avvolge. Il risveglio dai sogni spesso lascia delle scie da cui si fa fatica a ritornare nella realtà. Come nella poesia “Le onde che giungono a riva / dal mare che si perde in lontananza / palpeggiano e tastano quelle / che stanno per prendere il largo / come le formiche che ritornano / trasmettono a quelle in attesa / segrete informazioni con le antenne. / Voleva dirmi qualcosa mia madre / ma non le uscì la voce dalla gola. / Con la faccia appoggiata sul suo petto / lessi sulle sue labbra le parole; / ma appena sveglio le ho dimenticate” (Onde REM).

Una poesia che mette insieme le onde del mare, quelle elettromagnetiche dei sogni e quelle sensoriali come vettori di messaggi in codice. Tutto si conduce ad onde sensoriali che ci attraversano e ci aiutano per mezzo delle percezioni inconsce a recuperare le assenze. Infatti, qui il poeta ci comunica l’aura evanescente dell’incontro con la madre; egli continua a nutrirsi dei suoi messaggi apparentemente dimenticati ma codificati nell’inconscio.

I sogni sono la nostra identità emozionale più profonda che elabora tutto quello che stratifichiamo nel vissuto e nella fase REM si hanno delle percezioni perfettamente reali, come se vivessimo quell’istante che poi svanisce lasciandoci nella sospensione di un ricordo vissuto. Nel doppio haiku “Mare agitato / m’inquieta appena entrato / e poi mi placa / come un bambino in culla” c’è un farsi materia e farsi avvolgere dal moto perpetuo delle acque per vivere il mito d’un sogno, come un eterno fanciullo che immette nelle poesie la volontà indomita di cercare di abbracciare le onde del mare, che acquistano la simbologia della madre, non per trattenere la loro energia, ma per mutuare il loro desiderio eterno di giungere all’incontro con il limite della Terra. Il poeta, homo acquaticus, nell’incontro con l’elemento equoreo vive un altrove percettivo aptico, la cui verità scorre lungo il processo della vita nel quale siamo immersi mentre allo stesso tempo contribuiamo a creare / percepire l’altro, che a sua volta sente noi. Le percezioni sensoriali ci portano in uno stato di empatia cognitiva che ci guida sollecitandoci in tutto il corpo in una relazione fisica di prossimità. In un distico sottile il poeta esprime il senso ultimo che la vita rivela in questo periodo di estrema precarietà: “Si sdoppia, a una svolta, la vita: / dalla sopravvivenza è sorpassata” (Doppiato). L’uomo è costretto a sottostare ad esigenze pratiche nel rapporto con gli altri. Ma chi percepisce l’ulteriore dimensione umana attraverso l’arte, il pensiero filosofico e quindi la ricerca della verità e della bellezza, si sdoppia nell’altro da sé. Inizia quindi un percorso parallelo in cui la distinzione tra soggetto ideale e quello materiale perde significato per entrare nell’esperienza mistica e metafìsica. La poesia è il mezzo per raggiungere questo, un’eco linguistico atto a interpretare e tramandare parte della realtà che viviamo.

Calabrò ha uno stile che spazia tra versi brevi e poesie più elaborate fino ai poemi di oltre seicento versi senza perdere la tensione poetica e mantenendo il ritmo espressivo con salti temporali di elevata resa comunicativa. Non possiamo non menzionare i versi estratti dal poemetto Roaming che costituisce il manifesto del pensiero poetico di Calabrò, nel quale è articolato con grande fascinazione linguistica un metodo di indagine attento ai rimandi fra i diversi campi delle conoscenze. Un poemetto presente in altre raccolte, e anche in apertura dell’antologia personale “Quinta dimensione”, su cui tanto è stato scritto e di cui tanto si è parlato in diversi saggi. Qui ne viene riproposto un frammento che mantiene tutta lo smarrimento onirico e il legame con l’astrofisica, che costituisce il più grande interesse dell’autore. In questa poesia Calabrò ci parla della dualità giorno e notte nel paradosso degli umani che solo al buio riescono a scorgere l’estensione dell’universo. “È questo il paradosso degli umani: / solo al buio c’è concesso di vedere / quel mondo cui il giorno ci fa ciechi. / Ma la notte è incognita a se stessa, / dinanzi a lei anche Zeus indietreggia. / Stanno tra le sue braccia Moira ed Hypnos / e sono - Sogno e Destino - gemelli” (Roaming). Il giorno ci rende ciechi al firmamento ma nella notte esso si rivela e sogno e destino sono parte integrante della nostra complessa ed effimera vicenda esistenziale. L’interpretazione metafisica attraverso la scrittura ci suggerisce che è necessario indagare in ogni dimensione per riscoprirne la parte nascosta nell’oblio e nell’impercezione che altrimenti resterebbe incognita a noi stessi. Con lo stato d’animo aperto all’ascolto, alla percezione e allo studio scopriamo il nostro illimite nello smarrimento del risaputo di fronte al mistero, dove non c’è distinzione tra sogno e destino, tra provenienza e destinazione. “Sotto stupite stelle / si smarrisce per noi la distinzione / tra provenienza e destinazione” (Roaming).

Il libro è anche quella parte del tronco di un albero che accresce da un lato il tessuto legnoso e dall’altro la corteccia, così le pagine del libro sono anelli che da un lato accrescono la dimensione poetica dell’autore e dall’altro ne esprimono il pensiero filosofico. Questo libro in un certo senso vuole suggellare il pensiero filosofico di un uomo che, foss’anche inconsapevolmente, ha trasfuso nelle sue opere la ricerca del senso della sua vita. Dice Borges in L’altro “penso che le parole più essenziali / che mi esprimono stiano nelle pagine / che non sanno chi sono, non in quelle / che ho scritto”. Il libro è oggetto prezioso capace di far viaggiare nel tempo la parola come un messaggio in bottiglia affidato al mare della vita di cui non si conosce la destinazione ma che si spera possa giungere nelle mani di un lettore che sappia interpretarne il fine e aiutare quindi, il poeta a perpetuarne la voce. Questo libro amplifica la parola di Calabrò svestendosi della materialità al fine di riconquistare la libertà del dire, esprimendo il suo essere oltre lo spaziotempo, nell’armonia dell'infinito: “cosa resterebbe della vita / senza ricordi? / Ricordi a lungo devitalizzati / che fanno sobbalzare la memoria...” (Dietro la memoria). Ricolmarsi di vita ricordata o forse solo immaginata; Altro non resta.

 

 

Bibliografia: F. Baldi, L 'Altrove nella poesia di Corrado Calabrò, Roma, Aracne Editrice, 2019; J.L. Borges, L’altro, lo stesso, a cura di T. Scarano, Milano, Adelphi, 2002; C. Calabrò Quinta Dimensione Milano, Mondadori, 2018; P. Cimatti, Sagittario in amore, poesie postume, Pescara, Di Felice Edizioni, 2015; K. Gibran Gesù figlio dell’uomo, Milano, Feltrinelli, 2013; J. Lacan, Lo stadio dello specchio come formatore delle funzioni dell’io, in Scritti, Torino, Einaudi, 2002; N. Pendio, Estetica ecologica, Milano, Mimesis, Edizioni, 2020; A. Prete, Nostalgia, Storia di un sentimento, Milano, Raffaello Cortina, 1991; A. Rimbaud, Opere, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1975, ristampa 2006; V. Teti, Nostalgia, Bologna, Marietti 1820, 2020. 

 

in: Letteratura e pensiero, n. 8, aprile-giugno 2021

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