Myriam De Luca, "L'invisibile nutrimento" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

 

La lettura de “L’Invisibile nutrimento” (Thule- Palermo 2020), potrebbe, già a primo acchito, portarci ad una prima considerazione: “Nell’immaginazione elegiaca del suo trascorso, la poetessa, attingendo alla sua interiorità, esprime una disposizione alla contemplazione plastica del contingente e quale propria esigenza morale uscire, attraverso un processo gnosologico, dalle maglie della quotidianità che per lei si fa prigione.” Certo, potrebbe essere. Ma non è così che intendiamo procedere. Ad altri lasciamo volentieri queste elucubrazioni che nello specifico non portano a nulla. Non è il nostro caso. La percezione che si ricava da ciò che Myriam De Luca ci confida con le sue liriche, è tale, nella chiarezza e nella genuinità esternate, da meritare altrettanta attenzione da parte nostra. Il compito di un recensore non ha né deve avere una finalità etica. Chi recensisce non si limita ad essere un semplice lettore, ma anche un meticoloso  psicologo, uso ad andare al fondo delle parole dove giacciono sentimenti, dubbi e  interpretazioni tra le più varie. Inoltre deve anche agire come un archeologo dell’anima scavando e indagando fino a raggiungere verità a volte sepolte da parole ovattate o schermate da abili metafore. Non è stato forse il grande diplomatico Talleyrand a dire che le parole servono per nascondere il pensiero?. Ed è proprio questo che con “passo felpato” ci accingiamo a svelare. Cominciamo dalla copertina. Sotto il titolo “L’invisibile nutrimento”, un quadro raffigura un panorama boschivo. E’ una figura omeopatica giacchè la stessa Autrice nella lirica “Amare al buio” svela:”…guardo l’erba / dalla parte delle radici/…per ascoltare l’invisibile/ che nutre). Poi, nella pagina che precede il frontespizio, leggiamo un sibillino aforisma: ”Tutti dobbiamo attraversare qualcosa. Avvicinati con calma all’argine e lascia che accada”. E qui Myriam De Luca fa cadere il primo velo. La ragione prende coscienza. Non si tratta di una resa alla lotta che ciascuno conduce contro le avversità della vita giacchè questa, come afferma il prefatore Tommaso Romano, è simile ad un sismografo il cui pennino rilascia un tracciato fatto di alti e bassi. E i bassi, come si “legge” nella citazione, si devono accettare in quanto ineludibili visto che ci cadono addosso dall’imprevedibile. Non a caso nella mitologia greca il destino degli mortali stava sulla ginocchia di Zeus. Pertanto la “lettura” di questo aforisma ci porta ad accettare senza parossistica ansia, il destino avverso e lasciare che questo si compia. Certo, i suoi momenti avranno una fine o finanche un proprio fine. “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”, così il Manzoni nei “Promessi sposi. Le “figure” di Myriam De Luca non hanno nulla che si possa paragonare alle “Ombre della Caverna” di Platone. La sua poesia non è l’ombra di qualcosa. E’ la vita vera che in lei si esprime con due emblematici obiettivi: la voglia d’amore e l’esigenza di poesia (v. Quale fede) e in queste crede senza porsi i consueti perché e senza farsi troppe illusioni. Ha conosciuto il vero amore insieme a cocenti delusioni ma, nonostante tutto, la sua fede rimane inespugnabile perché quando l’amore “si posa sul davanzale ghiacciato/ di una casa calda/…nulla potrà impedirgli di entrare”(v. Arriverà l’amore), non a caso la prima poesia della raccolta e la caduta del secondo velo. Altri ne farà cadere la poetessa lungo l’intero volume seguendo il viatico dei suoi pensieri, dei suoi ricordi. Un viaggio comunque sereno come fosse sorretto da una serenità olimpica, mai scalfita da esasperazioni o da massificazioni di concetti, anche se a tratti si concede qualche pausa. Una sorta di inevitabile peregrinazione certo, ma intesa come un “tracciato dell’immaginazione”. Ed è di questa e del sogno che si nutre l’animo dell’Autrice che sta (con calma) sempre in attesa di qualcosa che le indichi che sbocco avrà la sua vita :” Ho amato le attese/ per assaporare i ritorni/ scorpacciate di fantasia/ mi hanno resa tutto ciò/ che sarei voluta diventare”(v. I rumori dei miei pensieri). Il tutto senza mai smettere con questo di “aspettare il turno/ di essere felice” (v. Stringo l’inseparabile). Potrebbero essere questi i versi che sintetizzano il pensiero di Myriam e idealmente chiudono la raccolta. Noi questo non lo possiamo fare perché, dopo aver letto, a volte anche con curiosità, le liriche e aver pensato verso la fine che ci sarebbe stata una sorta di resa o quantomeno un ritiro esistenziale nell’eremo di un buio dell’anima, dopo tutto questo, non possiamo esimerci dal fare qualche nostra considerazione. Myriam De Luca è una donna “cresciuta troppo i fretta” (v. Adolescenza negata) e per questo non ha assaporato l’ingenua bellezza del sogno di ogni ragazza. Nella sua giovinezza “ non ci sono castelli né cavali bianchi” ed è consequenziale il suo rifugio nella poesia e nell’amore vero, quello presente, quello vivo verso il suo uomo. Quasi una fuga certo, ma cercata come approdo in un porto sicuro dove ormeggiare la sua anima. Questa carenza l’ha spinto verso lidi non fideistici ma non preclusivi e dove assume e accetta fino in fondo il suo  ruolo di donna. Una donna vera che confina ad altri gli eccessi di quel femminismo “sessantottino” che ha sfaldato dalle radici il tessuto della “universitas” familiare per cui ancora oggi la Nostra avverte “l’odore gesuitico delle città”. E’ un concetto questo già affermato nella precedente raccolta “Esortazioni solitarie”, edita due anni orsono, racchiuso nei versi: “L’ideale è smarrito in una città/ che non incontra più l’uomo/ anime rapinate di canti e speranze” e dove ancora leggiamo “ la libertà non si nutre di morte/ mi aggrappo nuda alla bellezza/ con volo folle/ compio il gioco dell’invisibile”. Una parola questa quasi presagio per il titolo di questo volume. Una donna pronta, com’Ella afferma, a escludersi “dal fracasso del mondo” e trovare pace e tranquillità nella Natura, “…sono albero, sono cielo, sono luce che parla al tempo/ sono grano…”, la sola capace di avvicinarla a Dio (v. L’infinito negli occhi). E ancora, una donna cosciente della diversità che la distingue dall’uomo ma che anche ammette “ siamo candele da accendere/ desideri che soffrono sotto il sole” (v. Donne). Myriam De Luca è una poetessa a tutto tondo, capace di esporre alla “finestra ghiacciata” l’anima di una donna che, pur essendo stata sull’orlo di un baratro esistenziale, non si aspetta di vedere apparire all’orizzonte un principe azzurro su di un cavallo bianco. Ma sta lì, ferma sull’argine del fiume della vita ad aspettare con calma che accada ciò che le riserva la caducità del tempo. Il “nutrimento invisibile” è l’unico che l’alimenta e che la guida a trovare un passaggio “tra pozzanghere di fango e spicchi di cielo” e, quasi a trovare un usbergo che la giustifichi, afferma: “è tutto dentro di me”. Non è un’affermazione retorica, di maniera, perché il “tutto” lo sintetizza in due sole parole: libertà e amore. Certo, alla parola poesia, come in principio affermato, c’è ora la parola libertà. Ma la poesia non è libertà? In nessun altro modo se non con la poesia si può dire e dare tanto liberamente. Una libertà alla quale lei, tra un canto e l’altro, delega il compito di ricordare il suo sorriso, mentre in un dubbio esistenziale si chiede se qualcuno che l’abbia amata la ricorderà (v. Quando non ci sarò più). Già, l’amore. Dopo l’esigenza della poesia è questo il secondo ceppo miliare della sua vita e quel dubbio prima richiamato e che la esilia nella solitudine è riferito all’uomo che ama. L’amore per lei “non sempre è giusto” e spesso vorrebbe volare lontano dai dubbi se questi “uccidono l’amore” e gettare a mare i bagagli del suo passato. Ma a compenso di ciò ci sono le pulsanti emozioni come nel sentire alla porta il giro di una chiave oppure riviverli nei ricordi: quando “bussa un ricordo/ impossibile non aprire”. Ma alla fine puntuale arriva la realtà: “questa è la vita/ non esistono altri luoghi/ dove sostare” (v. Coltivo la mia rosa) insieme agli inevitabili rimpianti “ho perso per strada/ tante emozioni/ ho inseguito rischi/ per colmare vuoti/…ora ascolto il linguaggio inedito/ del cielo (v. Essere). Ed eccoci  all’ultima considerazione. Myriam De Luca sintetizza e rappresenta l’autenticità di una persona che porta dentro di sé i valori di un tempo contro “l’insolenza dilagante” dell’oggi e non solo. La poesia “umana” che esprime ci consegna, nell’accezione più pura del termine, la nobile figura di una donna che, per parafrasare messer Dante, potremmo azzardando accostarla a quella di Beatrice che “tanto gentile e tanto onesta pare…”. In Lei c’è il perenne sogno di una ragazza-donna che nulla pretende e conosce l’attesa. Il suo sguardo e il suo cuore sono educati a catturare sia gli “esterni” del mondo che gli “interni” del suo spirito. Un cuore sincero e semplice. Una semplicità che ci porta a definirla “la ragazza della porta accanto” la cui voce cristallina sa dire in poesia ciò che sente senza debordare in sentenze inappellabili. Una voce cristallina che, perdonate la digressione, non può non ricondurci, come ragazza della porta accanto, al canto di quella Teresa Fattorini che il buon Giacomo ascoltava immerso nei suoi improbabili sogni. E’ questa la Myriam-Beatrice-Teresa De Luca che abbiamo “ascoltato” lungo lo scorrere le cinquantotto liriche che formano “L’Invisibile nutrimento”. Esso rimane una straordinaria raccolta che, a parer nostro, per la chiarezza e la nobiltà dei contenuti riteniamo degna di meritare nella immaginifica “Galleria dei Valori” un posto visibile, questo sì, nella Sala che più esprime il suo spirito di ricerca: quella della Bellezza”

 

 

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