Mario Inglese, "Scrivere la Sicilia" (Ed. Metauro) - di Giovanni Teresi

Indagando alcuni scrittori siciliani contemporanei – Vincenzo Consolo, Gesualdo Bufalino, Andrea Camilleri, Simonetta Agnello Hornby, Nino De Vita e Giorgio Vasta – Mario Inglese esplora l’immagine che dell’isola si delinea dalle loro opere. Emerge così un coacervo di influenze culturali, modelli di comportamento e snodi tematici che, a partire dal passato più lontano, giungono sino alle dinamiche e alle emergenze dell’oggi. Forse più di quanto non avvenga per altre aree geografiche italiane, la Sicilia innerva di sé intere opere letterarie determinandone presupposti antropologici, sottocodici culturali e, assai sovente, specifici moduli espressivi e linguistici.

Tutto questo, tuttavia, ha comportato persino il rischio di una sopravvalutazione di tale ‘ambientazione’, una stereotipizzazione di modelli, di temi, una sorta di esotismo scontato e riproducibile a piacere che nel volume vengono affrontati con particolare attenzione.

Seguendo, nella disamina, l’ordine delle opere degli autori siciliani nell’opera del Nostro “Vincenzo Consolo e lo sguardo multiplo della Sicilia”; in primo luogo è utile rilevare il pensiero dello scrittore siciliano riguardo l’indignazione di fronte allo scempio del paesaggio e l’impegno nella denuncia, che sono oggi centrali nella riflessione di Salvatore Settis, e che chiama a raccolta non solo gli intellettuali ma anche ogni cittadino.

Consolo sperimenta, in occasione dei suoi ritorni in Sicilia, lo stravolgimento dell’isola che  tratteggia come un’Argo orrendamente cambiata, un’Itaca in preda ai Proci. Le cause della trasformazione non sono da ricercare solo nell’inevitabile scorrere del tempo.

Ulisse non potrà mai ritrovare la sua isola. Al tempo si è aggiunto un intervento umano massiccio, reiterato e privo di criteri, che ha sovvertito gli equilibri un tempo esistenti.

. Proprio dalla paura che il mutamento diventi totale, che la sua Sicilia scompaia per sempre, sembra scaturire la smania che Consolo manifesta nel percorrere l’intera isola. Quando in “Le pietre di Pantalica” scrive “sospetto sia questo una sorta d’addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca” allude proprio a questo.

Indagare la prospettiva di Consolo sullo spazio significa anche esplorare il delicato rapporto tra uomo e ambiente in Sicilia e nel Mediterraneo e riflettere sullo stravolgimento in corso, domandandosi che fine abbia fatto l’identità dei luoghi e perché essi abbiano smesso di rappresentare un’identità umana. La posizione di Consolo è affine a quella di Pasolini.

L’isola è perduta perché la civiltà contadina è stata spazzata via dalle promesse dell’industrializzazione facile, è perduta perché non ha saputo conservare se stessa, cedendo il proprio paesaggio, la propria identità di fronte alla fascinazione del guadagno e del profitto, di fronte alle lusinghe di uno “sviluppo senza progresso”.

Mario Inglese sottolinea in Consolo “lo sguardo acuto di un osservatore che compie un continuo nóstos alla ricerca dell’esistenza di una civiltà e delle devastazioni operate dalla cotermporaneità che ne attesta la difficoltà di un’affabulazione con un suo intreccio e dei personaggi rassicuranti … Quel che rimane è invece un’inventiva linguistica che, pur nella sua iridescenza neobarocca, registra una tendenza al saggismo, alla denuncia, al grido, che sfiora paradossalmente l’afasia di una prosa che vorrebbe farsi poesia.

Della posizione pasoliniana Consolo condivide l’idea di una “ecologia della cultura”. La scomparsa del mondo contadino preindustriale ha portato ad una irrimediabile perdita in termini linguistici e culturali. Nel mettere in luce gli effetti del miracolo economico l’attenzione dell’autore si concentra sul mutamento generato dai tre grandi poli industriali sorti in Sicilia intorno al 1960. Questi, ovvero il polo siracusano, la raffineria di Milazzo, il petrolchimico di Gela, furono presentati come la soluzione alla grave depressione in cui l’isola versava alla fine della seconda guerra mondiale.

Questa generale insistenza sullo splendore di un tempo rende ancora più terribile l’immagine del territorio deturpato dall’industrializzazione. Il fiore  “che il sole appassì e fece nero” da emblema di bellezza diventa segno lugubre che interrompe l’incanto del ricordo, allude alla crisi del mondo contadino e riporta l’attenzione sull’esplosione della raffineria del 3 giugno 1993.

Nel secondo capitolo, “Metafore della sicilitudine nella scrittura autofinzionale di Gesualdo Bufalino”, il Nostro specifica che “la dimensione metaforica della Sicilia è quella che è stata chiamata sicilitudine o, da altri, siciliania, attraverso una disamina di alcune delle opere principali dello scrittore di Comiso”.

Lo spazio chiuso della dissertazione sulla morte e della ricerca di Dio confluisce e trova l’ennesima ragion d’essere in un altro spazio chiuso della vita e dell’opera dell’autore, ossia la Sicilia.

 Proprio la posizione del narratore, relegato in luogo chiuso, intento ad inventare una vicevita e a riflettere su argomenti onerosi, quali la morte, la vita, l’amore e la storia, riproduce l’abituale spazio di Gesualdo Bufalino scrittore, avvezzo a trascorrere felicemente le sue giornate in un piccolo paese nella remota provincia del sud, che si trova all’interno di uno spazio naturalmente chiuso, quale l’isola abbracciata dal mare. Nonostante la dichiarata claustrofilia della scrittore, il suo rapporto con la Sicilia sembra essere contraddistinto da quel procedere ossimorico che ne domina tutta la produzione. In Essere e riessere infatti Bufalino scrive:

La Sicilia … Sicilia come patrimonio di memorie, vera mnemoteca e insieme materno cordone ombelicale con l’esistenza. Intanto devo parlare del mio difficile rapporto con la Sicilia. Un rapporto di rigetto innanzi tutto per il grumo levantino e facinoroso, per l’intreccio di frode e forza e sole sleale che si suole chiamare mafia e che mi sforzo ogni momento di espellere dal mio pantheon di sillabe e sentimenti. Tanto più facilmente in quanto mi è toccato vivere in un angolo finora quasi miracolosamente immune dalla peste comune (per poco ormai). Dall’altro lato avverto un legame identificatorio e carnale, non solo con questo mio triangolo grecocatalano, al di qua dell’Ippari, di cui ho nel sangue i globuli rurali e artigiani di cent’anni fa, ma con l’isola tutta, nella sua complessa eredità mischianza di razze e gerghi, eredità diverse. (G. Bufalino, Essere o riessere. Conversazione con Gesualdo Bufalino, cit., pp. 49-50).

A tale approccio contraddittorio si aggiunge uno strutturale senso d’isolamento che grava su chi vive nell’isola, e a proposito del quale Bufalino ha coniato un felice neologismo:

“Una insularità che, giocando con le parole, mi è avvenuto una volta di deformare in “isolitudine”, intendendo con questa parola inventata il destino di ogni isola, che di essere sola nell’angoscia dei suoi invalicabili confini, infelice e orgogliosa di questo destino…”

Nel terzo capitolo: “Culture mediterranee e sincretismi in Sicilia: Il caso del Il cane di terracotta di Andrea Camilleri”, lo scrittore Mario Inglese cerca di illustrare il significato interculturale e sincretico di una reinterpretazione della leggenda della gente della caverna, ovvero dei sette dormienti di Efeso, nel romanzo dell’autore di Porto Empledoche.

Il vero protagonista di tutti i romanzi di Camilleri è la Sicilia. “La storia della Sicilia potrebbe essere sintetizzata come una successione di formidabili incontri ( nel migliore dei casi) o scontri (nel peggiore) di numerose civiltà che hanno lasciato cospicue vestigia nell’architettura e tracce nelle tradizioni e in diversi aspetti della lingua. Il conseguente mosaico culturale è unico nel mondo mediterraneo e ha ispirato diversi scrittori, i quali hanno integrato questa dimensione antropologica nelle loro opere. Come scrive Sciascia, citato da Consolo: Indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani dopo la conquista araba.”

Ciò che Camilleri vuole indicare non è un aspetto antropologico che, peraltro, non ha riguardato unicamente la Sicilia, ma l’intera nazione italiana, l’Europa e gli altri continenti coinvolti, a vario titolo, nel fenomeno migratorio. Con tutta probabilità, tracciando il percorso di Tiresia, dalla Grecia alla Sicilia agli Stati Uniti, ci sta indicando il mondo, e l’universo dei valori civili e letterari che l’umanità ha costruito nei secoli della sua storia: che vanno custoditi e difesi anche scrivendo romanzi di rimarchevole forza narrativa o cercando di capirli e spiegarli, come proviamo a fare con questo nostro lavoro nato nei limiti della clausura e desideroso di contribuire a superarli.

Nel quarto capitolo “Giornalismo e letteratura: L’Impegno civile di Andrea Camilleri” viene analizzato un corpus di articoli che lo scrittore ha redatto per il quotidiano la Repubblica, edizione di Palermo. La dimensione civile viene messa in luce dalla modalità di scrittura del romanziere e dalle sue relazioni tra giornalismo e creazione artistica.

Il quinto capitolo: “La Sicilia vista da un’espatriata: La narrativa di Simonetta Agnello Hornby” si concentra sull’identificazione nei romanzi di ambiente siciliano della scrittrice di istanze profonde di presa di coscienza, in primo luogo da parte delle protagoniste femminili. Queste ultime danno voce a rivendicazioni di giustizia,”risarcimento”.

"In una Sicilia storicamente dominata da altri ciò che tiene in piedi la società, nel bene e nel male, è la famiglia". Così Simonetta Agnello Hornby presenta il suo ultimo romanzo, "Piano nobile",  secondo capitolo di una saga familiare iniziata con "Caffè amaro". Una storia che ruota attorno alla famiglia del barone Sorci, dei suoi discendenti e soprattutto attorno una Palermo raccontata prima nei ricordi o poi cogli occhi dei protagonisti. 

"E' una città che adoro e che mi manca - dice Agnello Hornby durante - in cui le pietre hanno un ruolo decisivo: danno protezione ed eternità, possono proteggerci ma anche colpirci. Non è un caso che, per quanto la Sicilia sia una terra pietrosa, non si buttano mai, nemmeno quando si spietra per coltivare". "La Sicilia - prosegue Agnello Hornby - è stato uno dei popoli più conquistati al mondo. Un popolo con un'identità che nel corso dei secoli o si è nascosta quasi vergognandosi o è stata glorificata in modo scellerato". E in cui - conclude l'autrice di 'Piano nobile' - l'individualismo resta un capofila: "È così che i vinti sopravvivono:  si considerano sempre migliori del vincitore,  ritengono di aver subito un'ingiustizia e da lì trovano la forza per reagire".

Nel sesto capitolo, “La casa a cielo aperto”: Metafore palermitane nella narrativa di Giorgio Vasta” Mario Inglese delinea dell’autore come, a partire da un milieu ben definito ed estremamente familiare, la sua Palermo, investiga la realtà dell’Italia contemporanea con affilata capacità di analisi e un linguaggio preciso, geometrico, di impressionante matericità.

“Palermo. Un’autobiografia nella luce” si configura come un’indagine esistenziale sulle potenzialità del linguaggio verbale e visivo come chiave di lettura del reale, che, per citare l’autore, immancabilmente si rifiuta. A tal proposito, la filosofa Rachel Bespaloff scrive che «la vita è essenzialmente ciò che non si lascia valutare, misurare, condannare o giustificare dal vivente». Nella scrittura di Vasta pare emergere la medesima consapevolezza di una carenza interpretativa, forse incolmabile, da parte delle parole, che «vivono nei pressi di qualcosa che si nasconde nella luce». L’afasia creata da tale sottrarsi genera, per contrasto, la necessità di una prosa lucida e straordinariamente esatta nella sua evanescenza, una prosa che, in un lungo monologo ipotattico, riflette sui limiti del vedere, dentro e fuori di sé. 

Palermo, conca aurea quae suos devorat anche secondo l’antico detto latino, nell’opera diviene metafora della condizione umana, la cui essenza non può essere altro che frammentaria e priva di una trama intelligibile.

Il settimo capitolo “Archeologia” della parola: Lingua e dialetto nella poesia di Nino De Vita” affronta i rapporti tra l’uso della lingua italiana e, in seguito, del dialetto nell’opera poetica. Cioè, il recupero del dialetto è un vero e proprio atto politico come vuole farci intendere il poeta marsalese.

La forza della poesia di Nino De Vita è nelle sue parole, messe sempre in ordine, a significare che il rischio di perdita linguistica è pari al rischio di perdita di valori e identità culturali. De Vita è poeta, ma i suoi versi sono in fondo nient’altro che il suo modo personale di raccontare, perché, ancor prima che poeta, egli è anzitutto cuntaturi. Nella sua scrittura, dunque, De Vita non recupera soltanto le parole di una volta, ma anche il mondo culturale all’interno del quale quelle parole vivevano.

 

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.