“Il cattivo esempio de “Il nome della rosa” e di “Sangue del mio sangue”. Difendo la libertà della verità storica e non le ideologie” di Pierfranco Bruni

 
Il cinema può diventare anche l’espressione di una storia inattuale, ovvero che tocca l’esperienza di una complessa realtà mai diventata verità che passa però attraverso un modello di immaginario che vorrebbe focalizzarsi come verità. Spesso sono delle premesse deluse.
Spesso è la demagogia che si sovrappone e diventa sferzante. Nel caso della filmografia sulla Inquisizione Romana molte sfaccettature sono diventate icone per una spettacolarizzazione invasiva. Non sempre è stato così.
Occorre necessariamente filtrare la storia perché è proprio attraverso la storia documentata che è possibile “risarcire” quella storia tramandata attraverso forme ideologiche o modelli immaginari che sono stati devastatrici di una ricostruzione se pur drammatica e tragica fedele alla verità.
Anche nel cinema realtà e verità si sono scontrate e si scontrano. Soprattutto quando è il cinema ad entrare direttamente nella storia senza passare da una oculata ricerca storiografica.
Un dato esemplare nella questione inerente la filmografia e la Inquisizione (Romana o altra) è il percorso cinematografico che ha voluto imprimere un immaginario in una sociologia dell’apprendimento. Il cinema sembra sfuggire alle forme antropologiche e sociologiche ma con queste deve certamente confrontarsi pur se vive all’interno di un processo immaginativo – immaginario che si serve sia della fotografia, come scavo immediato, sia della scenografia.
La scenografia fa il film. Il dialogare è dentro la costruzione filmica delle scene. Le scene hanno un loro linguaggio. A volte è il linguaggio delle scene che trova una immediata rivelazione.
Nella filmografia sulla Inquisizione la scena domina e diventa immaginario scenico che permette di costruire la vera e propria scena come se fosse una teatralizzazione in un gioco a rimando tra la scena madre, il retroscena e la ribalta.
Alla fine anche nella filmografia è la ribalta che si rivolta cedendo il primo piano agli effetti scenografici che nascono come impatto fotografico. Il film su Giovanna d’Arco è una esplosione di effetti. Il rogo de Campo de Fiori con il corpo di Giordano Bruno è un effetto disarmante. È questo, purtroppo, che resta.
Quando Giacomo Casanova dichiara che “… sono nato filosofo e muoio cristiano…” diventa una affermazione evanescente perché il pubblico dimentica ciò, ma non dimentica la seduzione, il personaggio e il mito che si è creato intorno al personaggio stesso e nel gioco delle parti interessa più il personaggio in modo enfatico che le affermazioni sia dell’Inquisitore sia quelle che egli stesso pronuncia.
Così come l’interesse della Inquisizione sulla mistica Teresa D’Avila che non trova assolutamente nulla e resta frase inquisita quella che si legge nella sua autobiografia: “Dio mi ha dato la grazia di piacere a chiunque” parlando spesso di una teologia narrativa. Una mistica che era passata attraverso segni di profezia che erano stati pensati eretici in un tempo drammatico della Spagna molto attenta a questi fenomeni, ma lei potrà affermare tranquillamente: “La domenica delle Palme, appena fatta la comunione, mi trovai in così grande sospensione da non poter neppure inghiottire la Sacra Ostia. Tornata alquanto in me stessa, e avendola ancora in bocca, mi parve che la bocca mi si riempisse di sangue, e che di sangue mi sentissi bagnato il volto e tutta la persona: un sangue caldo, come se nostro Signore l’avesse versato allora, allora”.
Lo spettacolo resta tale e non va oltre pur volendo offrire dell’incredibile e del suggestivo. La critica sullo spettacolo è doverosa, soprattutto quando ci si trova di fronte ad una verità e ad una realtà che vengono volutamente tralasciate.
Gli anni in cui la Inquisizione Romana è presente sono anticipatori di ciò che condurrà all’età dell’Illuminismo sfrenato e dentro anche una temperie che, in nome dell’anticattolicesimo, porterà ai morti ghigliottinati della Rivoluzione Francese.
I morti della Vandea sono vittime dell’ateismo rivoluzionario giacobino. Una Tradizione cristiana che si scontra sulla ragione del nulla. Su questo versante non esiste una filmografia.
Quindi è opportuno ristabilire una verità storica anche attraverso il cinema e riconsiderare quella filmografia che ha fatto della Inquisizione uno spettacolo da circo.
Ci sono film che hanno un senso e film ai quali si è dato un senso. “Il nome della rosa” è uno dei peggiori film, il cui film stesso, nato dal romanzo, è una Inquisizione, come tutta la linea cinematografica educata al relativismo e al laicismo. La critica ha il compito di svelare e rivelare, attraverso distinzioni, modelli e regie, scenografie e soggetti cinematografici.
Soprattutto quando ci si trova di fronte ad una filmografia nata per spettacolarizzare episodi, temperie e personaggi.
Qui sarebbe interessante approfondire, attraverso una fotografia critica, anche il legame tra cinema e letteratura sul tema proprio della Inquisizione Romana.
Il caso di Gostanza da Labbiano è un esempio emblematico in senso di rilettura di un personaggio attraverso un testo e un film. Come sarebbe interessante rileggere cinematograficamente, appunto, i tragici fatti e le morti innocenti in nome di Cristo della Vandea.
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