“Coniugare la Fede fra numeri e parole” di Maria Nivea Zagarella

La singolare biografia di Gianfranco Ravasi, creato cardinale nel 2010 da papa Benedetto XVI, spiega la peculiarità e originalità di contenuti e struttura dei due libri che qui si vogliono analizzare: Tre-Divina aritmetica (2023) e L’alfabeto di Dio (2023).  Prefetto prima della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano, poi presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, esperto biblista ed ebraista, nei suoi scritti alla cultura propriamente religiosa Ravasi accompagna una così vasta conoscenza di altre discipline e ambiti del sapere, che la lettura di ogni sua pagina diventa una avvincente esplorazione e un esercizio di costruttiva curiosità. 

Nel volumetto Tre-Divina aritmetica con spigliato taglio divulgativo, oltre che sapientemente riassuntivo, il cardinale guida il lettore in un affascinante viaggio attorno al numero “tre”, percorrendo territori che vanno dalla scienza all’antropologia alla storia alla letteratura alle religioni all’arte figurativa alla cinematografia alla musica ai toponimi. Premesso che in tutte le culture il numero non è solo quantitativo-computazionale, ma anche qualitativo-metaforico [con] cifre sacre, mistiche, allegoriche, magiche, e precisato che per lo psicanalista C. G. Jung gli “archetipi” del pensiero e dell’immaginazione umana sono la struttura ternaria e quella quaternaria entrambe strumento simbolico capitale per assegnare un senso armonico all’essere e all’esistere, Ravasi si chiede laicamente con antropologi e storici delle religioni il perché del rapporto privilegiato dell’uomo con il numero 3. E elenca le varie risposte date dagli studiosi: per la tridimensionalità -dice- degli oggetti (altezza larghezza lunghezza), per la realtà cosmica declinabile in cielo terra mare (o inferi), o in terra acqua fuoco…, per le fasi della luna (crescente piena calante), ma soprattutto punto di partenza più generale e comune pare sia stata la struttura trinitaria della famiglia (padre madre figlio) cellula base della società, un “tre” originario trasferito poi ad altre realtà quale elemento ordinatore di conoscenze, simbologie religiose, norme morali e sociali. Come le trilogie gnomiche della letteratura sapienziale biblica che sfociano talora nella formula 3+1 aggiungendo il 4 pienezza alla perfezione del 3 per la sottesa allusione allo spazio organizzato nei 4 punti cardinali. Un esempio la seguente trilogia morale positiva del Siracide, un maestro biblico vissuto nel II sec. a. C: Di tre cose si compiace l’anima mia/ ed esse sono gradite al Signore e agli uomini:/ concordia di fratelli, amicizia tra vicini,/ moglie e marito che vivono in piena armonia. Altrove invece il Siracide usa il predetto modulo 3+1: Di tre cose il mio cuore ha paura,/ e per la quarta sono spaventato:/ una calunnia diffusa in città, un tumulto di popolo/ e una falsa accusa,/ sono cose peggiori della morte. Nella esplorazione/decifrazione del mistero universale e del reale il picco più alto del numero 3, nella cultura occidentale, è rappresentato dalla Trinità cristiana, vetta divina a cui Ravasi conduce con ascesa graduale attraverso i successivi pianori di una ideale montagna, ai piedi della quale colloca la geometria e la matematica ternarie del triangolo e delle regole del tre semplice e del tre composto e i “sistemi ternari” usati dalla scienza moderna per “mappare” la natura fisica (le tre leggi della meccanica classica, e quelle della chimica classica e della termodinamica), e scherza seriamente sulle “tre leggi della robotica” create da Isaac Asimov, autore di romanzi di fantascienza, mettendo eticamente in guardia circa l’attuale eccessivo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Sul secondo pianoro il numero 3 scandisce alcuni momenti storici dell’evoluzione della “visione” dell’uomo: dalla “tricotomia psicologica” di Platone, nella Repubblica e nel Fedro, che distingueva nell’anima tre aspetti: l’anima concupiscibile (il desiderio-brama), quella irascibile (l’ira e l’animosità), quella razionale (il logos), alle distinzioni di Aristotele circa l’anima vegetativa (comune a tutti i viventi, anche vegetali e animali), l’anima sensitiva (tipica degli umani e degli animali), l’anima intellettiva (il nous) caratteristica esclusiva degli umani, alla triade di Marco Aurelio (corpo anima nous), in cui il nous era già avvertito come un principio divino, trascendente, fino all’antropologia teologica di San Paolo che al soma (corpo) avvicina il termine sarx (carne) e il concetto di peccato, e dello pneuma (spirito) accentua la trascendenza associandolo alla grazia che salva. Nel terzo pianoro lo scandaglio triadico del senso del vivere e dell’essere dovrebbe attraversare il campo sterminato di tutte le Arti, ma Ravasi si limita a una veloce campionatura soltanto letteraria e in solo sette autori, riassumendo ora i trittici narrativi di G. Flaubert (Tre racconti), Gertrude Stein (Tre esistenze, al femminile), Gil Vicente (Trilogia delle barche, dramma sacro cinquecentesco), ora le triadi familiari presenti in un’opera di A. Cechov (Le tre sorelle) e in una di Federigo Tozzi (i tre fratelli di Tre croci), ora le triadi di amici in azione ne I tre moschettieri di A. Dumas e in Tre uomini in barca di Jerome Klapka Jerome, avvertendo l’autore che pure gli evangelisti hanno raggruppato a tre a tre le parabole di Gesù, per esempio in Matteo la trilogia della zizzania, senape, lievito, quella del tesoro, della perla e della rete da pesca, quella ancora del maggiordomo, delle dieci ragazze e dei talenti. Nel quarto pianoro il dire con il numero 3 la Divinità e i cicli vitali registra, spaziando in culture diverse: la Trimurti dell’induismo (Brahma, il dio creatore, Vishnu, il dio provvidente, Shiva, il distruttore); il Canone buddhista intitolato Tripitaka, cioè i tre canestri, con il triplice corpo simbolico del Buddha, Trikaya, che nell’accezione dottrinale mahayana -scrive Ravasi- simboleggia la Legge, il Godimento, la Creazione; e ancora, le due antiche triadi cosmiche e astrali assiro-babilonesi: la prima formata da Anu, divinità del cielo, Enlil, della terra, Ea, dell’oceano e degli inferi; la seconda rappresentata da Shamash, dio solare, Sin, divinità lunare, Ishtart dea della fertilità della terra e della fecondità umana. E infine quella egizia (Osiride, dio solare, Iside, dea lunare sua sposa, Horus, il figlio dal volto di falco, divinità celeste e solare) e quella greco-romana (Zeus/Giove, Poseidone/Nettuno, Ade/Plutone, con la variante “familiare”: Giove-Giunone-Minerva). E non vanno dimenticate della mitologia classica anche le tre Parche (sintesi del corso della vita dalla nascita alla morte), le tre Ore, che regolavano lo scorrere del tempo e delle stagioni, dai nomi significativi: Eunomia (Disciplina/Ordine), Dike (Giustizia), Irene (Pace), o le tre Grazie (Aglaia, Eufrosine,Talia), i cui doni erano bellezza, serenità, armonia vitale… Nel quinto pianoro, ampiamente citate da Ravasi in progressivo avvicinamento alla Trinità cristiana, sfilano invece le numerose triadi del Vecchio e del Nuovo Testamento, fra cui citiamo solo i Magi con i tre doni simbolici e le loro tre simboliche etnie; il “terzo” giorno della Resurrezione, non computato in modo rigorosamente cronologico, ma anch’esso simbolico soprattutto sulla base di un passo del profeta Osea (Il Sigore ci ha straziato… il terzo giorno ci farà rialzare e noi vivremo), giorno che ha aperto all’umanità nuovi orizzonti e l’eternità; i tre personaggi infine misteriosi apparsi ad Abramo, che il patriarca servirà a mensa in piedi, già da S. Ambrogio letti come manifestazione della Trinità. E infine la vetta: l’inno a Dio uno e trino e al mistero dell’Incarnazione, affidato alla sublime poesia, rigorosamente teologica, delle terzine del Paradiso di Dante, figurativamente ispirate forse -ipotizza Ravasi- da un’immagine del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, e che qui si vogliono parzialmente ricordare: Ne la profonda e chiara sussistenza/ dell’alto lume parvemi tre giri/ di tre colori e d’una contenenza;/ e l’un da l’altro come iri da iri/ parea reflesso, e ’l terzo parea foco/ che quinci e quindi igualmente spiri… Segue nel volumetto un breve excursus del complesso dibattito teologico trinitario, e non mancano a chiusura le descrizioni delle varie rappresentazioni artistiche della Trinità, dai codici miniati ai dipinti di Masaccio e El Greco alla musica ispirata di Bach e O. Messiaen (1908/1992) in un dialogo intenso tra Fede e divina armonia del Tutto.

Veloci riferimenti a scrittori, filosofi, pittori (Piero della Francesca, il Beato Angelico, Caravaggio), musicisti, catacombe, chiese, film, a commento e illustrazione di taluni importanti snodi concettuali, tornano anche nel libro L’alfabeto di Dio, dove è tuttavia di gran lunga prevalente la riflessione teologico-religiosa. Nell’attuale prolungata fase di lotte cruente e insanabili odi etnici (Ucraina/Russia, Hamas/Israele…), di difficili tessiture diplomatiche e minacciose corse al riarmo, e tutto a poca distanza da casa nostra, la puntuale riflessione biblica, spirituale e morale del cardinale Ravasi richiama altri scenari e evoca altre ”parole” e prospettive. Seguendo l’ordine alfabetico dell’antica lingua ebraica e di quella greca, l’autore in brevi ma densi capitoletti seleziona e discute nella prima parte del volume poco più di una cinquantina di termini ebraici dell’Antico Testamento che definisce, quanto ai temi di riferimento, spina dorsale del messaggio veterotestamentario, termini ben noti -precisa- allo stesso Gesù di Nazaret. Nella seconda analizza altrettanti termini greci della koinê linguistica ellenistica in cui fu redatto il Nuovo Testamento, sentiti come manuale sintetico della teologia neotestamentaria. Dopo avere premesso che nella Palestina del Nazareno, allora provincia dell’Impero romano, si parlavano 4 lingue: il greco (equivalente all’inglese di oggi), l’ebraico (lingua colta delle dispute esegetico-teologiche), l’aramaico (di uso comune), il latino (usato dagli occupanti romani), chiarisce Ravasi che Gesù conosceva l’ebraico, come emerge dal passo del vangelo di Luca in cui nella sinagoga di Nazaret legge e commenta un brano di Isaia applicandolo a se stesso, forse anche un po’ di greco, come fanno ipotizzare due episodi del vangelo di Giovanni, ma predicava alle masse di contadini, pescatori, artigiani in un aramaico che secondo lo studioso tedesco Joachim Jeremias era una versione galilaica dell’aramaico ufficiale. Il cardinale si immerge con appassionata competenza nelle lingue originali dei libri sacri invitando il lettore a seguirlo con analoga cura alla latina, cioè con opportuna “tensione, impegno”, per estrarne quelle verità che note ai più da secoli e sempre utili, appaiono -dal mio punto di vista- ancor più utili oggi nella nostra “smemorata” società. Ad esempio il nome del nostro progenitore ‘adam (nome che nella Genesi è preceduto dall’articolo ha-‘adam e significa “l’uomo” in universale) plasmato con la polvere dell’adamah (terra), e dunque un “terroso” Adamo dal “rossiccio” colore dell’argilla, che sconfessa alla radice ogni assurdo razzismo storico, richiamando potentemente all’unica, caduca e mortale, razza umana. Diceva Isaia che ogni carne (basàr) è come l’erba e tutta la sua bellezza è come un fiore del campo. E nella visione biblica il “peccato” (da hata’, verbo che significa “sbagliare la via giusta, fallire il bersaglio”) dell’uomo, voluto libero da Dio, è subito un deviare su sentieri che devastano la triplice, nativa e strutturale, relazione dell’umanità con Dio, con la natura da coltivare e custodire accanto agli animali cui assegnare il nome, con la donna (l’aiuto/costola che sta di fronte all’uomo, e a fianco, in parità) equivalente di ciò che chiamiamo il “prossimo”. Altro termine su cui utilmente riflettere oggi è l’aggettivo tôb che in sé unisce il significato di “buono” e “bello” e nella versione greca dei Settanta della Bibbia anche quello di “utile” (agathós, kalós, chrestós), aggettivo presente nel settenario della Creazione, dove la creatura umana addirittura è detta al superlativo tôb me‘od (cosa molto buona) perché dotata di “respiro” e “coscienza”. O le parole ‘èmet, hèsed, berît che del patto/alleanza di salvezza tra Dio e l’uomo, patto in cui è sempre Dio a fare il primo passo, marcano sia la fedeltà e amore/misericordia verso gli uomini di Dio (che ha viscere anche materne, rahamîm, non solo paterne), sia la fedeltà del “giusto” a Dio, in un vincolo che non è solo di impegno morale ma anche affettivo, e di fiduciosa intimità: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia, cantava il salmista. E ancora una volta è Isaia a guardare lontano senza confini e barriere sulla terra: << Io mi sono fatto trovare -dice Dio- anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano>>, frase ripresa nella lettera ai Romani da San Paolo, al quale è particolarmente caro il tema della charis (grazia), parola greca -sottolinea Ravasi- da cui derivano i nostri vocaboli carità, caro, carezza. La “grazia” infatti -conclude- è alimentata dall’amore. Nel Nuovo Testamento particolare rilievo hanno il tema messianico (il greco Christós traduce l’ebraico Mashiah, messia, cioè l’unto, il consacrato, quali erano il re, il sacerdote, il profeta) e quello dell’amore (agápe, nei termini di: amerai il Signore Dio tuo… amerai il prossimo tuo, spinto da Cristo fino all’amore/perdono del nemico e al dono della vita per la persona che si ama). Temi che rientrano in quello più vasto e universale della salvezza in cui Dio (l’Io-sono di Mosé), dal nome impronunciabile JHWH, “incontra” la storia umana. I quattro canti di Isaia sul calvario del misterioso “Servo del Signore”, prefigurazione della passione redentrice di Cristo, i Salmi del Signore-re e i Canti regali messianici centrati sulla giustizia (Ai poveri del popolo renda giustizia, salvi i figli del misero e abbatta l’oppressore) anticipano tutti la centralità, nella predicazione e nella missione di Gesù sin dagli inizi, del tema del Regno di Dio (Basiléia), progetto  -scrive Ravasi- di un mondo armonico, di una società giusta, di un orizzonte in cui l’umanità aderisce al piano concepito e voluto dal Creatore. Lo sguardo e l’attenzione del Messia vanno, oltre che alle donne (il termine gynê, donna, torna 215 volte) le quali saranno le testimoni prime e le missionarie della sua Risurrezione, vanno- dicevo- soprattutto agli “ultimi”, al fratello (adelphós) “più piccolo”: gli affamati, gli assetati, gli stranieri, i nudi, i malati, i carcerati, e Ravasi non si esime dal ricordare la fondazione della comunità di Nomadelfia (1946) ad opera di don Zeno Saltini, fondata sulla legge (nomos) d’amore della fraternità (adelphía), e l’enciclica Fratelli tutti (2020) di papa Francesco che riflette sulla necessità della fraternità cristiana e universale. Regno  di Dio che, nell’annuncio del divino Messia (che ha anch’egli viscere materno-misericordiose, come si evince dall’uso del verbo splanchnízomai) e dei suoi Apostoli (apóstoloi, “inviati”), e nel suo lento crescere fino al momento ultimo e finale (éscatos) segnalato dalla gloria del Cristo risorto, l’ultimo Adamo, l’uomo perfetto, spirito datore di vita della prima lettera ai Corinzi, viene paragonato nel vangelo di Matteo al lievito che fa fermentare la farina (della storia) e al piccolissimo granello di senapa che diventa però un albero fra i cui rami vanno a riposare gli uccelli. E’ il noto -anche se sempre contrastato- rovesciamento dei valori del mondo (Gli ultimi saranno i primi e i primi ultimi, del vangelo di Marco) in linea con il Magnificat del vangelo di Luca, con le Beatitudini, e con il ritratto che San Paolo fa nella seconda lettera ai Corinzi del Cristo stesso, che da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché divenissimo ricchi per mezzo della sua povertà. Ma se la storia e il mondo continuano a deviare verso il male e la violenza, sostengono la fede e la costanza nella speranza (elpís) del credente sia le parole di Cristo a Nicodemo: <<Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui>>, sia la sua stessa -precisa Ravasi- risurrezione. Essa non fu, dice il cardinale, semplice rianimazione di un cadavere destinato comunque alla morte fisica, quali le risurrezioni di Lazzaro o del figlio della vedova di Nain, ma un innalzamento/ascensione al cielo, all’eternità (dai verbi anístêmi, un levarsi in piedi possente, e hypsoún, innalzare) quale anticipata e descritta da Gesù stesso nel vangelo di Giovanni:<<Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me… quando avrete innalzato (sulla croce) il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io sono>> e l’Io-sono nella Bibbia -sigla Ravasi- è il nome stesso di Dio. E’ l’intima comunione dunque con lo Spirito di Dio, anche attraverso i segni eucaristici del pane e del vino, che trasforma (metánoia, conversione) e “salva” in senso lato, e sul piano storico-sociale e nell’ordine del sovrannaturale.

Purtroppo i venti di guerra che paiono oggi soffiare sul mondo, riproponendo tragicamente la contrapposizione paolina fra sarx (i peccaminosi desideri umani) e il “soffio” dello pneuma (Spirito), minacciano di tingere ogni itinerario di fede, o semplicemente etico, di “favola perduta”.            

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