Alfio Inserra e il “Poeta Paladino” - di Maria Nivea Zagarella

    La recente scomparsa, all’età di 88 anni, del raffinato intellettuale e poeta palermitano Alfio Inserra (1935/2023) induce a ripercorrere momenti e significati del suo iter poetico e spirituale, efficacemente esemplati e riflessi in una soprattutto delle sue più coinvolgenti opere, Il poeta è un paladino (2001).   

 

L'arca e la merca di la fantasia Perché un titolo in lingua italiana, Il poeta è un paladino, per una raccolta di versi in dialetto siciliano? E ancora… perché un titolo apparentemente così strano, anche nella formulazione sintattica (un enunciato indipendente, quasi assoluto nel significato), e che ha come perno ideale un mito vecchio di secoli, il paladino, e specificamente Orlando, il pupo siciliano con quella sua rutilante, altera, aquila sull'elmo? La risposta va cercata, credo, nel mito personale e culturale, intendo dire antropologico-ideologico, che l'intellettuale Inserra ha desunto e costruito sulla sua "avventurata" (fortunata) biografia di Siciliano e di palermitano. E' una questione di "poetica" e di conseguenza, come in ogni autore di nobile profilo spirituale, di consapevole scelta esistenziale. Nel monologo che chiude il volumetto Circannu Asturfu (1986), in polemica con il senno, chiamato spregiativamente trunzu di ragiuni e cammisa di forza, Inserra afferma di volere salire sul treno per andare ramingo per il mondo a spruvari l'arca e la merca di la fantasia. Vuole dunque, svincolato dalla ragione, spaziare fino agli estremi confini della fantasia per gustare in libertà (ma il termine siciliano è più espressivo e sensuoso, tastari) albe e tramonti, o assicutari sireni nt 'all'unni e ubriacarsi di speranza, favole, stelle (nel testo significativamente riscontriamo il presente: mi 'mbriacu di spiranza, favuli, stiddi, che è un presente durativo). Per il “senno” la poesia è un fumo evanescente e inutile (unn'havi pisu né valìa); per Inserra invece nni cueta d'ogni firnicìa (ci libera da ogni sofferenza); essa è fumo e filo di seta insieme, capace di intrecciare gocce di sole e rondini, restituendoli al cuore quando resta arrusicatu comu na rappugghia (spiluccato come un racimolo); è un filo che sui buchi della vita e della storia ricama angeli e fiori; è un fumo che s'u ciusci a vucca tunna di sdilliniu, fa aneddi pi l'amuri (disegna anelli per l'amore). Ecco come combatte la sua battaglia per la vita e per un mondo più umano il paladino- Inserra, sia che si mimetizzi da Astolfo, che va ad abbandonare sulla luna il fiasco della negativa, perché utilitaristica e brutale, razionalità novecentesca, sia che si mimetizzi da Orlando, il pupo che anche nel suo poemetto in lingua Museo (1987) sta con i suoi dolci occhi strabici a guardia dello studio del poeta, sbarrando il passo al tortuoso labirinto dei penosi quotidie degli altri, a tutte quelle cose bellissime e pratiche della gente sazia e distratta, cose che appena toccate marciscono, come tutte le emozioni scontate, definite ironicamente belle, forti, vere, in realtà, precisa il poeta, facilmente convertibili presso ogni banca del senso comune. Ma torniamo al monologo in dialetto, Circannu Asturfu , dal quale emerge che vivere secondo la razionalità moderna è assuefarsi alle bombe e ai missili, è consumare i giorni fra paura e rabbia (scantu e raggia) per la propria vita e per la propria famiglia, è addiccarisi ad allattari (a succhiare) alloppiu di pulitica e crianza, abituarsi, vuole dire Inserra, al sonnifero di una certa politica e di una certa ubbidienza civile, con il pericolo di non potersi più svegliare, di addormentare la coscienza.  

 

<<L'elogio della pazzia>> e la parola poetica  

 

Un filo ideale dunque corre dal disagio del presente espresso in Museo (E mentre stiamo seduti a fumare e bere un wisky, in salotto, e parlate di politica, di arte, di stipendi, amicizie comuni, ecologia, ed altre cose importanti, io mi trovo molto lontano da voi, sono su un altro pianeta diverso. Tutto mio…) al passo dell'ELOGIO DELLA PAZZIA di Erasmo, che introduce il monologo Circannu Asturfu. Erasmo distingueva due diversi tipi di pazzia: " l'insaniae genus ", che è da identificare con la violenza, la guerra, la brama di potere e di ricchezza dei potenti della Terra e dei veri “stolti”, uomini - come dice Inserra con terminologia più moderna in Omnia Somnia Omnis Insomnia (1984) - i cui calendari e orologi segnano sempre abitudini esatte e perciò riescono a dormire sonni tranquilli; e “l'error”, quello "iucundus quidam mentis error," piacevole errare della mente, che coincide con l'irrazionale fantastico e sentimentale, misteriosa salvifica spinta vitale, garanzia di perpetua giovinezza del soggetto, che è la forza a cui il poeta Inserra, l'io-soggetto Inserra, vuole abbandonarsi per garantirsi una personale salvezza. La vera “libertà” è nella fantasia, nella poesia; anche per Erasmo i poeti sono una razza libera, e Inserra si sente un uomo libero, Paladino vittorioso della sua riconquistata libertà spirituale grazie alla “poesia-gioco”. Prevalente e dichiarata è l'intenzione ludica dei testi di Alfio Inserra, direi di tutti i suoi testi, ma non bisogna fraintendere. Quello di Inserra è un gioco letterario di alto livello (si considerino i titoli delle due sezioni del volumetto, il catulliano "Nugae" e "Teatrinu", entrambi ammiccanti e allusivi come gli occhielli che li accompagnano a firma Dino Campana e Pirandello, il Pirandello di Mal giocondo), un gioco letterario, ripeto, di alto livello, non solo perché siamo di fronte a un uso colto del dialetto (il lessico infatti non è soltanto quello parlato, immediato, materno; rinvia a tutta la nostra migliore letteratura in dialetto siciliano, lessico ricco e articolato, con echi sapienti di Meli, Guglielmino, Martoglio, Calì…), ma soprattutto per la matrice umanistica che genera tale gioco, per quella idea in altre parole che il " fare poetico" e la "cultura" sono ad un tempo diletto e esercizio dello Spirito. 

 

L'orizzonte lirico e letterario  

Alto al di sopra delle strettoie del quotidiano, come il gabbiano di bronzo in perpetuo volo sulla sua scrivania, vola il canto poetico di Inserra. Il quotidiano è fatto di cemento, di grattacieli, clientele politiche, mafia sanguinaria, missili grifagni, emigrazione, prostituzione, un mondo inverminato senza paci, giustizia, beni, le cui contraddizioni risaltano più forti e più violente in Sicilia, la Trinacria-Triscele, di cui ficiru na cruci, un cimitero! Il mondo storico è dunque il polo dialettico delle fughe liriche del poeta, anche se esso affiora rado nel volume, evocato per lo più in flash brevi e veloci. Il volo-canto di Inserra preferisce configurare un universo a sé, e chiudersi in un orizzonte prevalentemente interiore, un orizzonte- sogno, un orizzonte-rifugio, lirico e letterario insieme, imprendibile dagli altri, come il poeta stesso in Summer-End (1992) definisce il luogo in cui ha vissuto un amore ormai svanito, ma che ha conservato, al riparo da tutto e da tutti… intatti e vivi sensazioni, immagini, pensieri, imbalsamati - scrive - dal profumo dei gelsomini, in realtà dalla capacità evocatrice, creatrice, immortalatrice della parola poetica. In Il poeta è un paladino parole-chiave sono, in alternanza con le loro varianti lessicali, i termini miciàciu, pisu, raggia, chiummu, correlati in densi nessi antitetici a ali, suli, luci, celu, e il verbo  'nfruntari (scontrarsi); tali termini evidenziano la ribellione-fuga nel proprio io e la lotta per ritagliarsi nella riffa della società sentimenti e valori più autentici: Mentri staiu ccà/ chi nfruntu cu lu tempu,/ comu un puparu 'mpastu odiu e amuri/ e tiru durlindani pi sbrugghiari/ stu cori agghiumariatu ntra li fila…" (mentre sto qua/ e mi batto col tempo,/ come un puparo che impasta odio e amore/ e tiro sciabolate a liberare il cuore in mezzo ai fili ingarbugliato…). Perciò nella poesia Transfert, il poeta, liberatosi dal peso della sua gaggia di carni (il corpo), lui che è arbulu fattu di carni chi cerca la luci, sogna e si rammarica di non essere cardiddu per salire le scale del sole, o cirnecu per saltare fra ginestre e lavini di focu o sguazzare nell'Alcantara stuzzicando anguille, libellule e falene, o di non essere pesce per scendere fino alla caverna di Cola Pesce a solleticargli la barba verde di alghe, o ancora, arcobaleno, o olivo alluciatu di suli, o orcio di luna in testa di la nuttata chi camina (analogia ardita quest'ultima e bellissima per dire la sete di infinito dell'uomo e di Inserra stesso). 

 

La componente romantico-leopardiana e quella dannunziana  

Non solo il tipico paesaggio siciliano inondato di luce e smagliante di colori e di azzurro ha una funzione smemorante e vivificante; anche la notte, le stelle, il chiaro di luna diventano  il suo spazio ideale, quello in cui il suo cuore civu (seme) di granatu, purpa di ceusa, bracera di luci (braciere di carbone acceso) riesce a fruire e placare l'ansia di vita e di felicità, se di metamorfosi in metamorfosi nella poesia Metamorfosi o in Tannu m'ammatti, fattosi anch'egli murga russa del suo giardino (fanchiglia rossa) che partorisce fiori, fronde, animali, e terra chi scarfa la terra, e vita chi fa criscenti cu la vita, fattosi , in altre parole, tutt'uno, nel ciclo vita-morte, con tutte le creature terrestri e astrali, infine si sdillassa e acchianannu nt'all'ariu si sparpagghia tuttu/ a linghia a linghia / pi 'nsina dunni arriva stu sirenu, nell'immensità dell'universo. C'è una forte componente romantica e leopardiana nelle contemplazioni cosmiche e notturne di Inserra (e non credo perciò sia casuale il titolo " Canti " della prima sezione) oltre che una esuberante componente dannunziana nella ricerca-recupero di un rapporto carnale, viscerale con la Natura, la Terra-Madre, la Terra-Sicilia, la Terra-scorza (di ccà spuntavu, di ccà trasu arreri) che in Isula-Canzuna è così celebrata: tu visceri, tu tempu, tu confini, cantu novu ed anticu… Leopardiani e romantici, oltre che novecenteschi sono i temi del mistero cosmico, che torna in Lu ventu e ju, in cui il poeta e il vento si rimandano senza risposta le stesse domande (Dunni veni, ventu? Unni vai?..) e in Sulu na stidda (dunni accumincia, dunni finisci/ la nostra vita?), e quello della umana caducità come in Godot: Passa e curri la rota di lu tempu/…passanu…li pinseri/, li cumeti, li fatti, li paroli/ e furmiculi e dei, città, nazioni,/ si perdinu, scumparinu/ pi sempri/ e lu nomu e la razza e la memoria". In Inserra tuttavia sembra restare radicale il pessimismo circa la natura umana; non gli sorride il mito della Ginestra leopardiana, l'illusione della umana solidarietà. Gli uomini sono marpiuna e ladri, specie la genia di quelli chi stannu ncacaticchiu e fussi d'aggangarili a li gargi/ e straminalli pirciali pirciali/ quannu projinu la manu/ di liccari, e impossibile gli sembra che, nfruntannu cu l'avutri, si possa crisciri… ristannu uguali (fedeli) a se stessi. C'è più rabbia (sembra) che pietà verso i propri simili, più ironia corrosiva che speranza di improbabili riscatti collettivi, sociali e civili. Del D'annunzio invece il poeta rinnova il vitalismo esuberante e sensuale, più evidente nei suggestivi miti panici e metamorfici di Summer-End che, come l' “Alcyone” dannunziano, è il poema dell'estate che declina verso l'autunno: la donna amata e perduta è Driade, Nereide, Sirena liquescente, Ninfa Aretusa che fugge fra i delfini, e il poeta è nuovo Ulisse che si strappa la cera dalle orecchie, nuovo Orfeo, nuovo Aci, nuovo dio marino allacciato all'amata nel plancton di un mare primordiale, o infine Centauro di fiamma, re e sole, mezzo bestia e mezzo uomo, quando nel sogno inebriato d'amore gli amanti si tramutano in una nuova costellazione. Richiamano il vitalismo dannunziano in Il poeta è un paladino la quasi costante solarità, in parte anche teocritea, del paesaggio siciliano, dove l'unni nventanu canzuni,/ ogni canariu zufulìa a lu suli/ ed ogni nnamuratu gargarìa/ n pettu a lu jornu/ e nfacci a stiddi e luna, e i ricorrenti riferimenti al vulcano Etna e alla sciara, che gli ribolle nelle vene e spinge avanti l'ania di la vita, alias la voglia di vivere di Inserra, che così si auto-rappresenta: Ju chi m'arraggiu,/ affucu,/ mi 'mbriacu,/ chi arrivvugghiu di brami,/ sugnu sdilliniu/…affunciatu alla virina (alle poppe) " di questa Terra dove m'ammanticu,/ sbracannumi li senzii 'nvernu e stati. Con la differenza rispetto a D'Annunzio che qui in Sicilia i miti greci, la classicità, il sensualismo, le esotiche magie moresche come il canto d'Arabia che ti appinnica in S. Giovanni degli Eremiti, non sono divagazioni immaginifiche e preziose, ma radici storiche, passato isolano carico di memorie letterarie, identità culturale della Sicilia.  

 

L'amore della tradizione  

E in questa ottica va letto il verso della IV bucolica di Virgilio premesso proprio alla sezione "Canti ", in cui il poeta latino invoca le Sicelides Musae. Il piacere intellettuale che si prova a leggere i testi in lingua di Inserra (ad esempio "Antenati" (1983) e " Omnia somnia …" ) e i versi in dialetto del “Paladino” nasce dalla presenza e alternanza in essi di una componente soggettiva, lirico-fantastico-naturalistica, e di una componente antropologico-letteraria più universale e collettiva, che rimanda a quelli che Inserra chiama le angosce e i miti dell'umanità trasmessi ereditariamente ai cromosomi della tribù, che- possiamo aggiungere- sono anche i cromosomi del Siciliano. Perciò il suo canto di merru sarvaggiu (di merlo selvatico) si autogiustifica nella sua irrefrenabilità non solo per l'urgenza lirico- autobiografica, ma anche perché nel metastorico ciclo vita-morte è l'equivalente del canto dell'uomo primitivo, che 'mmiscava scantu, repitu e prijeri (paura, lamento e preghiere) per fare anch'egli sgocciolare, come il poeta moderno Inserra, un liquoroso dolce giulebbe sulle piaghe antiche del vivere (sapiente il gioco fonico nta li chiaji…/ chiaji,/ chi hai? Chi hai?/ Ahi..ahi..ahi…) e, quanto alla storia della Sicilia, esso è l'equivalente del canto del cantastorie che mmisca nzoccu sapi…spicchiannu (dividendo in spicchi) la storia di questa nostra isola. L'intellettuale siciliano Inserra insomma sa di essere greco, latino, arabo, svevo e non rifiuta di abbracciare tutta intera la sua terra con la sua storia, vuole ascoltarne "tutta" l'anima, che è fatta di tante anime, di tanti e complessi motivi, dai quali sgorga il canto "nuovo e antico" di cui si diceva prima. Ne Il poeta è un paladino si intersecano di conseguenza le coordinate storico-temporali e letterarie più diverse. A quella romantico- leopardiana e novecentesco-esistenziale già esaminate e evidenti anche nei versi: Staiu nta st'esiliu di scogghi… l'arma e la menti sempri cchiù cunfusi ", o nella vana attesa di Godot (Passa? Nun passa? Arriva?), si affiancano l'eredità cristiana e quella arabo-normanna, presenti la prima con i temi della passione del Cristo linziatu (fatto a brandelli) e redentore, della morte come passaggio-sonno fra le braccia di Dio che ci aspetta in un altro cielo, della preghiera, però senza baragghiu (bavaglio) di parole, perché nata spontanea dalla frescura delle vecchie pietre della moschea- chiostro di S. Giovanni degli eremiti; la seconda con i temi dell'arcoa ca chiovi friscu e girsuminu arabia, e della donna-odalisca dalla vucca di ceusa purpurina, oltre che nella programmatica rivisitazione della mitologia dei paladini. Il Cristo e la Fede rendono più sopportabili in E chistu è tuttu la solitudine, la fine della giovinezza, la fuga del tempo e l'angoscia della morte (lu jelu chi t'agghica nta li vini) e sembrano attenuare il pessimismo esistenziale di matrice decadente, che altrove invece genera l'immagine del pispisuni, l'uccellaccio che si "abbuffa" di vermi, non può volare e circannu l'arma/, la facci di Diu/ s'appizza lu beccu sina 'n cori.  

 

I classici e il filone popolare  

A questi motivi sono da aggiungere quelli georgico-paesistici di derivazione virgiliana e teocritea, come la voglia di appartarsi in un recesso ombroso presso un'acqua di surgiva nella poesia Giugnetto (Luglio) o le immagini ricorrenti del vento fra le canne e della cuncula muntana (conca montana) o il topos dello zufolo e dell'ombra lasciati in testamento ai pastori dal poeta o ancora, la spiga che si gonfia, e l'accoppiamento della giumenta con lo stallone, tutti elementi che con altri suggeriti dall'amorosa osservazione- contemplazione degli aspetti reali del paesaggio siciliano creano quella Sicilia ncantisimu di biddizzi e di storia che spinna di vulari comu palumma aggiuccata a lu suli"!. Nelle ultime due sezioni di Il poeta è un paladino assistiamo invece al recupero dell'immaginario popolare siciliano in testi che oscillano fra ascendenze colte e folklore, fra soggettive nostalgie di infanzia e sberleffi e volgarità paesane di suggestione martogliana e popolaresca. L'abbandono temporaneo della dimensione lirico-esistenziale per il compiaciuto ritorno alla più caratteristica e caratterizzante tradizione letteraria siciliana è segnalato dal passaggio dai versi liberi alle forme metriche chiuse (il sonetto, le quartine a rima alternata, l'ottava, lo schema del contrasto), oltre che dalla attenta scelta dei contenuti: la leggenda del favoloso uccello Chiù e del picurareddu che si costruisce ignaro lo zufolo con l'osso del giovane ucciso a tradimento dal fratello; la leggenda di origine cinquecentesca di Agatina, la fanciulla promessa sposa ma rapita e fatta schiava dai pirati saraceni; la leggenda dell'uomo-lupo delle notti di plenilunio; le variazioni topiche sull'amore, dal gioco malizioso e equivoco dell'uccellino che deve stuzzicare sotto le lenzuola la bella che dorme, alla serenata dell'innamorato, al contrasto a lieto fine fra gli amanti, secondo un percorso che da Cielo d'Alcamo, passando attraverso i sapidi umori di A. Veneziano e D. Tempio arriva a N. Martoglio e oltre, senza trascurare il filone dei poeti che Serafino Amabile Guastella definiva vulgari (incolti, spontanei). Da qui anche i temi popolari della smorfia e del gioco del lotto, il diverbio velenoso da cortile fra due donne gelose, quello volgare al telefono fra il cliente importuno e l'idraulico, la vendetta feroce e vampiresca della donna tradita, il duello rusticano con un rivale morto e l'altro sfregiato. Infine il personaggio di Giufà, che come nel cuntu infantile "si tira" la porta, suggestiva rielaborazione perché al popolano Giufà Inserra sembra sovrapporre in parte se stesso, il suo mito personale della casa-rifugio, della casa-museo, reliquiario di oggetti, di affetti, di valori ideali! Lu ciriveddu di Giufà" chiude la rimodulazione delle vastasate settecentesche il cui tono farsesco rivive attraverso le figure di Virticchiu, Nofriu, Firrazzanu in versi nei quali il vecchio motivo misogino si intreccia alla spacconeria impotente del popolano e a una morale semplicistica e ingenua, anch'essa di matrice popolare, secondo cui, dato che nun esisti un sulu omu felici in tutto il mondo, non resta che fare l'amore, che è sangu caudu pi li nostri vini, tenersi tutti per mano e contentarsi del poco. Tutti questi sono testi in cui Alfio Inserra, come in Pilariu (1988), monologo di un ubriaco la cui moglie si vendica del tradimento del marito tagliandosi i capelli neri, gioca a mimetizzarsi nell'anima popolare collettiva siciliana, che a volta a volta sa essere rissosa, furbesca, triviale, ridanciana, giocosa, ma soprattutto lavora con appagata abilità sulle "parole", misurandosi con le stratificazioni storiche del dialetto e con i topoi della letteratura dialettale siciliana in gara con le sue stesse fonti e modelli. La scaltrita capacità mimetica della sua penna e la varietà dei toni e dei registri presenti nel volumetto Il poeta è un paladino (il lirico, il lirico-narrativo, il discorsivo medio-basso, il dialogato popolaresco, la polimetria) ci riportano all'assunto iniziale, alla lucidità di una poetica e alla peculiarità di una poesia che tendono a  respingere come loro primo, diretto, contenuto la Storia (attenzionata tuttavia anche nel  più tardo Tragoedia del 2014 quanto al dramma dei migranti nel Mediterraneo, al  terremoto del Belice, alle stragi sociali e di mafia da Portella delle Ginestre alle morti di  Falcone e Borsellino), “storia” che però passa con i suoi principi, prufeti, triunfi, tirrimoti,  paci, guerri, e vogliono invece offrire l'ancora di salvezza della fantasia, della letteratura e  dell'arte come strumenti utili per affrancarsi, soggettivamente, da ogni condizionamento  ideologico e conformismo comportamentale, restituendo all'individuo il gusto del dialogo con la propria anima e con il mistero dell'universo, e a un siciliano in particolare il “piacere” di rivivere la carica vitalistica di un certo paesaggio isolano, ma soprattutto l'orgoglio della frequentazione arricchente della sua più vera identità storica e culturale.  Un’eredità -come si vede- non da poco!         

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