II Parte - “Quando una lingua non basta: Beppe Fenoglio e Cesare Pavese” di Dario Pasero
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- Creato: 08 Maggio 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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III
CESARE PAVESE: I Racconti
Come il suo più giovane conterraneo Beppe Fenoglio, anche Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 1908-Torino, 1950) usò talvolta, nei suoi testi, la lingua inglese, da lui ottimamente conosciuta e dalla quale aveva tradotto alcuni romanzi di autori nord-americani[1]. Anche Pavese poi, come Fenoglio, era piemontofono e quindi la lingua “ancestrale” fa capolino – anche se in misura meno ampia rispetto allo scrittore albese[2] – in alcune opere della sua prima fase produttiva, e specialmente nei Racconti, scritti tra il 1931 ed il 1941, ma pubblicati postumi da Einaudi nel 1953[3]. A tali racconti giovanili, lasciati inediti (e taluni anche incompiuti) dall’autore, possiamo poi aggiungere quelli di Feria d’agosto (edito nel 1945), contenente racconti scritti tra il giugno del 1941 e l’agosto del 1944, ed il romanzo breve d’esordio Paesi tuoi, scritto nell’estate del 1939 e pubblicato nel maggio 1941, e quindi coevo agli ultimi racconti inediti.
La nostra ricerca seguirà due filoni, analizzando sia quanto scritto direttamente in piemontese, aspetto presente tuttavia solamente nei testi che compongono la sezione dei racconti intitolata Ciau Masino, collocabili tra il 1931 e l’anno successivo, sia le forme che, pur italiane, richiamano tuttavia il sostrato dialettale dello scrittore.
Iniziamo dunque con le parti scritte direttamente in piemontese, per le quali procederemo in questo modo: trascrizione, in grafia corretta[4], dei testi, con traduzione e commento solamente di quelli (in tutto o in parte) in cui si trovino termini particolarmente significativi[5]. Anticipiamo che due sequenze narrative (La Langa e Arcadia) sono particolarmente significative per gli aspetti linguistici, specie quelli geo-linguistici e socio-linguistici; infatti, nella prima delle due abbiamo, e lo scrittore lo sottolinea esplicitamente varie volte, la volontà di contrapporre il parlare urbano (il torinese o parlé ’d sità) a quello rustico o parlé ’d pais (“parlare paesano o contadino”), in questo caso il langarolo, sottolineando sia le differenze tra i diversi locutori, cittadini e campagnoli, ma anche come i secondi vogliano in qualche modo “innalzarsi” dalla loro condizione di percepita (anche se non sempre reale) subalternità parlando anch’essi in torinese; nella seconda sequenza, invece, abbiamo un caso evidentissimo di diastratia, in quanto anche qui i personaggi si dividono – seppur sommariamente e con frequenti rapporti osmotici – tra quanti parlano il “gergo”, una sorta di argot popolar-operaio-malviventesco, in cui elementi linguistici della quotidianità lavorativa si mescolano appunto con termini della “mala” (o lingera), e quanti invece, generalmente studenti di famiglia borghese, si limitano a parlare il torinese comune, oltre che l’italiano[6].
Ciau Masino… (1932)
Il Blues delle Cicche (ottobre 1931)
Come ch’a l’é la stagion st’ann-sì? (p. 12): Com’è la stagione quest’anno?
La stagion?... Ah, canto pa mi (ibidem): La stagione?... Ah, io non canto
A l’é dispòst chiel a travajé ’n sòcio a fé ’d canson? Second. Ch’a senta: mi i lo rangio con ’n maestro… ’N tripolin […] A cerca un divers dal sòlit, sà ben, na përson-a pì istruìa. Chiel am ësmija lòn. A l’é ’n maestro nominà. […] A l’ha fàit la mùsica… sai pì nen ’d còsa […] E chiel a-i guadagna motobin ansima? […] S’i l’avèissa da vive mach ’d cola rèndita-lì, i starìa fresch (ibidem): Lei è disposto a lavorare in coppia per fare delle canzoni? Secondo. Senta: io la faccio accordare con un maestro… Un meridionale […] Cerca uno differente dal solito, sa, una persona più istruita. Lei mi sembra quello che ci vuole. È un maestro famoso. […] ha scritto la musica… non so più di cosa […] E lei ci guadagna tanto? […] Se dovessi vivere solo di quella rendita, starei fresco.
tripolin: evidente metonimia, nata dopo la guerra di Libia (1911-12), per cui gli abitanti della città di Tripoli erano presi come “tipo” simbolico (con chiaro atteggiamento dispregiativo) di persone di origine diversa, e comunque in genere mediterraneo-meridionale.
Congedato (novembre 1931)
Garibaldi, na rola […] l’ha mach fane ’l regal ’d coj teron (p. 22): Garibaldi, un vagabondo […] ci ha solo fatto il regalo di quei terroni
Còsa ch’a l’é ’n mito? (p. 23): Che cos’è un mito?
Fòrsa, Delmastro! (ibidem): Forza, Delmastro!
It n’ancòrze nen, ch’at pija ’d mes? (p. 24): Non te ne accorgi, che ti prende in giro?
E già, còsa veul-la ch’a sia? (p. 25) E già cosa vuole che sia?
Gavte cola nata, fabiòch (ibidem): Toglitelo dalla testa, tonto
Tant ’n di o l’àutr, a-j dasìa ’l gir (p. 26): Tanto un giorno o l’altro, gli dava il benservito
rola: i lessici registrano rol (quercia) e ròla (mallo); esiste tuttavia il termine gergale ròla (Gribaudo, s. v. rolé) per indicare un mezzo di trasporto che poteva essere o la vettura pubblica a cavalli o, più tardi, la bicicletta: partendo da questi significati si può ipotizzare uno sviluppo metaforico in “vagabondo, persona senza arte né parte”;
gavesse la nata: modo di dire popolare (“togliersi il tappo”) per indicare o “farsi furbo” (Gribaudo s. v. nata) o “togliersi un’ubbia, lasciar perdere ambizioni troppo elevate”.
L’acqua del Po (ottobre 1931)
L’italian i lo sai (p. 31): L’italiano lo so
I l’hai ancora temp a fumé na pipa? (p. 32): Ho ancora tempo per fumare una pipa?
Certo ch’a piaso (p. 33): Sicuro che piacciono
E bin, mi preuvo: professor a l’é nassuje gnun (ibidem): Bene, io provo: professore non è nato nessuno
Pa mal (p. 35): Mica male
’d col ch’as ës-ciàira (p. 36): di quello che si vede (attraverso)
L’é pa ’l Noara, a l’é ’l Vërsèj (p. 37): Non è il Novara, è il Vercelli
com a-j pias (p. 38): come gli piace
Sent com a l’é bel! (ibidem): Senti com’è bello!
La Langa (dicembre 1931)[7]
Turin ten càud. Andoma ’n mes ai paco. (p. 39): A Torino fa caldo (lett.: tiene caldo. Andiamo in mezzo ai cafoni
’Dëss, pòrta quë r’acumurator[8] (ibidem): Ora, porta qui l’accumulatore
për nen ch’o andèissa për lë (ibidem): perché non andasse in giro
Amprende, fanciòt. Lò ch’i vore savèj ’d canà a Turën, ch’i j’èj tute ar quart pian? (p. 40): Impara, ragazzo. Cosa volete saperne di grondaie a Torino, che le avete tutte al quarto piano?
Stamatin i vado a Canèj […] O peu ’ndé a Mëssa a ra Capela dër Grassie. A resta… (ibidem): Questa mattina vado a Canelli […] Può andare a Messa alla Cappella delle Grazie. Si trova…
Ven-lo a Mëssa con noi, ancheu? […] L’ùltima Mëssa ch’i l’hai sentì mi, a l’é stàita quande (sic; rectius: quand) pare e mare a son mariasse […] Nò, venta pa nò schersé. ’Dess quë i son lìbër ’d fé tucc come ch’i veuro, ma tucc j’oma ra nòstra cros […] E chiel o n’ha dëbzògn dra fede: ha-ro nen dij crussi dërcò chiel? (ibidem): Viene a Messa con noi, oggi? […] L’ultima Messa che ho ascoltato io, è stata quando papà e mamma si sono sposati […] No, non bisogna scherzare. Adesso che sono libero di fare tutto come voglio, ma tutti abbiamo la nostra croce […] E lei ne ha bisogno della fede: non ha anche lei delle preoccupazioni?
Venta pa nò giudiché da ra personna ra còsa. Soma tucc pecador… Adess ancheu ch’o vaga pura pr’ij pra, ma chiel om ësmija ’n brav fanciòt, o r’é ’n dermage vastesse (p. 41): Non bisogna giudicare la cosa dalla persona. Siamo tutti peccatori… Adesso oggi vada pure per i prati, ma lei mi sembra un bravo ragazzo, è un peccato rovinarsi
E chiel përchè a l’é nen fasse prèive? […] Ra vocassion, fanciòt, Nosgnor o r’ha nen dame ra vocassion (ibidem): E lei perché non si è fatto prete? […] La vocazione, ragazzo, Dio non mi ha dato la vocazione
Pijeve vardia, fanciòt […] Pijeve vardia dar vën e dar dòne […] Schërdive nen, përchè i sèi giovo,’d porté ’l capel come ch’i veure… (ibidem): Fate attenzione, ragazzi […] Fate attenzione al vino e alle donne […] Non credetevi, perché siete giovani, di fare quello che vi pare… (lett.: di portare il cappello come volete)
A Cossën sonoma tucci përparèj. Tin, vatë ’n festa a Caròss? In (p. 42): A Cossano suoniamo tutti così. Tu, vai alla festa a Calosso? No
’Dess ’ndò ch’i andeve a soné? […] é-lo nen mej s’i travajèisse ’n campagna? (ibidem): Adesso dove andate a suonare? […] Non è meglio che lavoriate in campagna?
Fà pa nò dëbzògn. J’èissa ’n clarën ’nsëm, fas ij sòd a caplà. Na vòta i-j nassiva ’n fanciòt, ’m ciamavo a soné. ’Dess j’han tucci ra crise. […] D’andoa a l’é chiel? […] Son sì dë ste colin-e, ma i son stàit ’n pess a Turin (ibidem): Non c’è bisogno. Avessi assieme un clarino, faccio i soldi a palate. Una volta nasceva un bambino, mi chiamavano a suonare. Adesso hanno tutti la crisi. […] Di dove è lei? […] Sono qui di queste colline, ma sono stato un pezzo a Torino
Mi son staje a Nàpoli sot naja. Che ’d teron! […] I-j piasìa la chitara? […] Na vòlta i savìa bin gratela […] Ch’a fasa prové (p. 43): Io sono stato a Napoli sotto naja. Quanti terroni! […] Le piaceva la chitarra? […] Una volta sapevo persino suonarla […] Faccia provare
Pensa ch’i l’hai ’ntension ’d vende fin-a la chitara e dé man a la sapa (ibidem): Pensa che ho intenzione di vendere persino la chitarra e di dar mano alla zappa
’Nt ër feste […] a ra sposa, a sfojé d’istà, ’nt le piòle. Ma a j’é pì gnun ch’a scaja –, e qui rise sottolineando il bel vocabolo vasco (il corsivo è mio) (ibidem): Nelle feste […] ai matrimoni, a sfogliare [granoturco] d’estate, nelle osterie. Ma non c’è più nessuno che sborsa; si noti come ancora una volta si voglia evidenziare lo stacco tra parlata paesana e cittadina: il locutore sta parlando in langarolo, ma, concludendo il discorso con una parola del gergo cittadino, la definisca esplicitamente una parola “furba, da iniziati” (cfr. infra La Langa)
Dis, Talino, ti’t ses pròpi ’mnume a roa […] mi l’hai idea ’d deje ’l gir al bàudro… Butomse ’nsema (ibidem): Di’, Talino, mi sei proprio venuto a ruota [al momento giusto] […] ho intenzione di dare il benservito al padrone… Mettiamoci insieme
Mè idea […] sarìa ’d vende la froja. Am va pì nen sa vita. ’Dess j’è ’d travaj ’n campagna, fin-a a la vëndëmmia. Foma l’afé? (ibidem): La mia intenzione […] sarebbe di vendere la chitarra. Non mi va più questa vita. Adesso c’è lavoro in campagna, fino alla vendemmia. Facciamo l’affare?
E lassa perde, ven ’n gir […] Ah! n’hai basta. ’T veule prové ’mpòch tin adess? (ibidem): E lascia perdere, vieni in giro […] Ah! ne ho abbastanza. Vuoi provare un po’ tu adesso?
Si, ma i l’hai pa ’d gran […] Còsa ’d (sic; rectius:’t) veure deme? Dis ti, la froja a l’é bon-a. Sent lire e na bota ’d dossèt […] J’hai pa sent lire […] Còsa ’t l’has? […] ’N sacòcia, ôndes lire. J’àutri a j’ha monsù Ross, pa tanti. Ah, ’t ses con monsù Ross? Conosse? ’N tuta la valada i ro conosso. Còsa ’t veure sté con col piantabale? Compra la froja e bat la colin-a. Dame la chitara […] Sa, foma ’n pressa. ’T dago sessanta lire, s’i j’hai. Pòch, pòch […] Na veuj armeno otanta. […] E ’ndoma a bèive na vòlta peui (p. 44): Sì, ma non ho soldi […] Cosa vuoi darmi? Dillo tu, la chitarra è buona. Cento lire e una bottiglia di dolcetto […] Non le ho cento lire […] Quanto hai? […] In tasca, undici lire. Gli altri li ha il signor Rosso, non tanti. Ah, stai col signor Rosso? Conosci? In tutta la valle lo conoscono. Cosa vuoi stare con quel contaballe? Compra la chitarra e batti la collina. Dammi la chitarra […] Su, facciamo in fretta. Ti do sessanta lire, se le ho. Poco, poco […] Ne voglio almeno ottanta […] E andiamo a bere insieme poi
’N colin-a a l’é pì fatiga (ibidem): in collina è più faticoso
Sent […] dago ’n càuss a sta bòita e ven-o anche mi (ibidem): Senti […] do un calcio a questa officina e vengo anch’io
Ma ’t sai. A fé na festa privà, seu nen… mej ch’a vaga sol: foma parèj, foma mecia dël profit… Va-lo ben? L’é pa për lòn […] Pensa mach. Ma i l’hai sto spagneul-sì ch’am ten càud. A dev ancora deme ’d sòld. Ben […] o veu dì ch’as beutoma d’acòrde stassèira. Trovomse ar Pont dra Stassion a neuv ore? (p. 45): Ma sai. A fare una festa privata, non so… meglio che ci vada da solo: facciamo così, facciamo a mezzo del profitto… Va bene? Non è per questo […] Pensa solo. Ma ho questo pidocchio (lett.: spagnolo) che mi sta addosso. Deve ancora darmi dei soldi. Bene […] vuol dire che ci mettiamo d’accordo stasera. Troviamoci al Ponte della Stazione alle nove?
Bin, deme ’l me sòld, foma pì nen ’d paròle, ma i seve na carògna (ibidem): Bene, datemi i miei soldi, non facciamo più altre parole, ma siete una carogna
Fanciòt […] Piantla, cotin, l’é a sente mëssa ch’it ses drissate. (ibidem): Ragazzo […] Piantala, sottana, è a sentir messa che ti sei fatto furbo.
Ma nò, a l’é ’n fieul drit (p. 46): Ma no, è un ragazzo dritto
paco: t. pop. per indicare il campagnolo rozzo, grossolano e non istruito (il cafone, appunto), il quale – spesso – denuncia ancor più le sue origini vestendosi in modo chiassoso e comportandosi rozzamente (di etimo incerto: manca a REP e Gribaudo propone il franco-provenzale pacot, fanghiglia);
fanciòt: forma langarola e monferrina per il torinese fieul (ragazzo); etimo il lat. fanticulum, diminutivo di fantem (cfr. it. fanciullo; REP, s. v.);
dòne: forma langarola per il torinese fomne;
graté: termine semi-gergale (lett. grattare) qui per indicare il suonare la chitarra, le cui corde si pizzicano, gesto che ricorda appunto il grattare; altro valore “furbesco” è quello di “rubare” (cfr. Gribaudo s. v.);
scajé: t. gergale per “sborsare denaro” (cfr. Gribaudo s. v. scaja);
bàudro: t. arcaico e contadino per “padrone” (forse dal germ. bald, ardito, fiero);
froja: t. semi-gergale per “chitarra” (lett. “spada”, di etimo incerto, forse dal lat. ferruculum, diminutivo di ferrum, o ancora dal lat. furicare, “rovistare, frugare”, non dimenticando che froja è derivato da froj (chiavistello);
gran: t. gergale per “denaro” (cfr. Gribaudo s. v.);
bòita: t. popolare torinese per “piccola officina” e, come t. gergale, “prigione” (< fr. boite, scatola);
fé mecia: fare a mezzo; mecia (spartizione) da mediam partem (cfr. occit. miech);
spagneul: t. gergale per indicare “pidocchio”; probabile metonimia ricavata dal fatto che gli eserciti spagnoli, spesso presenti in Piemonte (e come nemici e quindi ecco il valore dispregiativo) nei secoli xvii e xviii, erano infestati – come d’altronde un po’ tutte le armate del tempo – dai pidocchi;
cotin: lett. il cotin è la gonna femminile (diminutivo di còta, veste), usato qui con valore metonimico-dispregiativo per “prete”.
La zoppa (dicembre 1931)
L’é ancora lontan Alba? (p. 50): è ancora lontana Alba?
A son pais dle bale (ibidem): Sono paesi delle balle
Arvëdse (p. 51): Arrivederci
Vorìa cheuje ’d feuje ’d persi da fumé […] òh é geugh […] ciapé sa stra e core, plandron (ibidem): Volevo raccogliere delle foglie di pesco per fumarle […] Oh conviene […] prendete questa strada e correte, pelandrone
J’é-lo Bernard? (p. 54): C’è Bernardo?
A son ’d còse (ibidem): Sono cose
Mai pì […] s’a l’é come mi, i-j dà ’n sle bale sti piceur (p. 55): Mai più […] se è come me, gli stanno sulle balle questi bellimbusti
Pa mai vistje (ibidem): Mai visti
Viliach […] a scapa ’l prim (p. 57): Vigliacco […] è il primo a scappare
piceur: t. pop. per indicare il “bellimbusto", la famiglia lessicale è quella di picio (membro virile, metaf. stupido, babbeo, forse dal lat. med. pisinnum, bambino); al femminile (picia) vale prostituta.
Arcadia (novembre 1931)[9]
Mach lòn? (p. 60): Solo quello?
Tant ’n di o l’àutr ’ndoma a la sosta ’nsema (ibidem): Tanto un giorno o l’altro andiamo al riparo (in prigione) insieme
A j’é Moschin? […] A j’é sì ’n sòcio ch’a rason-a come mi […] Na sonom-a ’n tòch stassèira? […] A-i veul Rossòt […] Rossòt a ven […] Daje mi ’n colp ’d fil […] Canta anche chila, tòta? […] A-j pias ’l cine antlora? […] Mache. L’é Milo ch’am ësgonfia. Greta ’m pias pròpe gnente. L’é në student come Milo chiel? […] Cola piciòrla ’d San Pe, l’ha trovà da modista. Bel […] spetom-ne ’n tòch a bèivne ’n bichio? […] Parèj, a-j pias nen Greta? […] Ma l’é pròpe sò seugn? […] Mi ’m pias ’d pì Maria Jacobini (p. 61): C’è Moschino? […] C’è qui un compagno che la pensa come me […] Ne suoniamo un pezzo stasera? […] Ci vuole Rossòt […] Rossòt viene […] Gli ho dato io un colpo di filo (telefono) […] Canta anche lei, signorina? […] Le piace il cinema allora? […] Macché. è Milo che mi secca. Greta non mi piace proprio per niente. È uno studente come Milo lei? […] Quella ragazzina di San Pietro, ha trovato a fare la modista. Bello […] aspettiamo un po’ per berne un bicchiere? […] Così, non le piace Greta? […] Ma è proprio il suo sogno? […] Io preferisco Maria Jacobini
Sent sòn, Milon […] Cantomne ’n tòch, Moschin […] Na bèiv-lo dë stornej? […] Sà cost? […] Mi i l’hai na vos da can […] Bogioma le bije? Suvom-ne ancora ’n bichio e peui ’ndoma për ij pra. I-j foma sente queicòs sì a me amis […] Chiel a l’é Masino […] a-j pias sente soné. […] Peule parleje a la viliaca ti, l’é pa ’n teron me amis. (p. 62): Senti questo, Milone […] Cantiamone un pezzo, Moschino […] Ne beve di stornelli? […] Conosce questo? […] Io ho una voce da cani […] Ci muoviamo? (lett.: muoviamo le gambe?) Asciughiamone ancora un bicchiere e poi andiamo nei prati. Gli facciamo sentire qualcosa qui al mio amico […] Lui è Masino […] gli piace sentir suonare. […] Tu gli puoi parlare in gergo, non è un terrone il mio amico.
Fanta mi ’m fà pioré […] Na san gnun-e ’n piemontèis? Costa […] Nen fanta, Masin? […] Ch’a torna a deje për piasì (p. 63): Fanta(stica) mi fa piangere […] Non ne sanno in piemontese? Questa […] Non è fanta(stica), Masino? […] Dia di nuovo per piacere
Ch’a staga ferm na vòlta (p. 64): Stia fermo una buona volta
A j’é ’n pachèt sì për ti […] da buteje tuti tò sold […] (ibidem): C’è un pacco qui per te […] da metterci tutti i tuoi soldi
Grassie, Masin, franch bel […] ’M pias, toa borsëtta, Masin, ma ’t veule pa deme ’l gir con lòn? (p. 65): Grazie, Masino, bellissimo […] Mi piace, la tua borsetta, ma vuoi forse darmi il benservito con questo?
’T vas ant n’ospidal andoa a j’é pì’ d miserie, andoa ’l Padre Eterno a-j fà pì gròsse e ’t sente ch’a l’é lì ch’as prega ’d pì col porsel ch’a l’han ’nventà ij prèive […] ’T fan bignòla lì ’ndrinta. Ma col ch’a l’ha nen ’l sòld, stà mal istess. […] Dis, Masin, spieghje ti che ’t l’has studià […] ti che ’t l’has studià, spieghje ti a Greta come l’é fàit ’l mond, còsa soma ’nt ësta vita, spieghje ti mia bibia […] I lo seve che la tèra l’é n’àtomo ’nt ël cel, che tute le stèile son pien-e ’d gent, ch’a j’é magara ’d linge come noi, quèich part, che a travondo e a parlo come noi, stassèira? […] Ti i-j sas anche ti ste còse, […] e përchè ti i-j dise nen, përchè të spieghe nen a tuti che ij prèive a son ’d carògne (ibidem): Tu vai in un ospedale dove ci sono più miserie, dove il Padre Eterno le fa più grosse e senti che è lì che si prega di più quel porcello che hanno inventato i preti […] Ti schiacciano (lett.: ti fanno diventare una frittella) lì dentro. Ma chi non ha i soldi, sta male ugualmente. […] Parla, Masino, spiegale tu che hai studiato […] tu che hai studiato, spiegaglielo tu a Greta come è fatto il mondo, cosa siamo in questa vita, spiegale tu la mia bibbia […] Lo sapete che la terra è un atomo nel cielo, che tutte le stelle sono piene di gente, che ci sono forse dei vagabondi che vivono d’espedienti (linge per lingere) come noi, da qualche parte, che mangiano e parlano come noi, stasera? […] Le sai anche tu queste cose, […] e perché non gliele dici, perché non lo spieghi a tutti che i preti sono delle carogne
na vòlta partì, ’s torna pì nen […] L’é bel, bel, avèj studià. […] Ma còsa ’t na sas ti dl’ànima? I-j son ’d fòrse che ’t l’has mai imaginà ’ntorn a ’d noi, tut ël mond l’é ’n camp ’d fòrse ch’as pico […] Certo, l’é ’n bel tirimbalin (p. 66): una volta partiti, non si torna più […] è bellissimo, avere studiato. […] Ma cosa ne sai tu dell’anima? Ci sono delle forze che non hai mai immaginato intorno a noi, tutto il mondo è un campo di forze che si colpiscono […] Certo, è un bel ginepraio
Milo… Stà atent… […] a j’é la vòla ch’at gropa […] Mi l’ha telefoname Rossòt, prima ch’a lo pijèisso… Come l’é stàit? […] òh ’d bale. Jer sèira l’han angiacà ’n mòro, ’n mìlite ch’a fasìa l’erlo. Son dasse dël comunista. L’han portaje ’n fritura ch’a sbaratavo… Lì l’é peui sautaje fòra na carògna ch’a l’ha sofià ’d Moschin… cola cotlà dl’àutr ann, beivume? (ibidem): Milo… Sta attento… […] c’è la polizia che ti arresta (lett.: lega) […] A me ha telefonato Rossòt, prima che lo prendessero… Com’è stato? […] Oh delle balle. Ieri sera hanno menato un nero (fascista), un milite che faceva il furbo. Si sono accorti del comunista. Li hanno portati in questura che erano in confusione (?). Lì è poi saltata fuori una carogna che ha fatto la soffiata di Moschino… quella coltellata dell’anno scorso, mi hai capito (lett.: bevuto)?
E bin adess i-j piantran’ n process. Ah, j’é anche Greta ch’a-i va ’d mes… Sent; trovomse të’m conte. […] l’ha ciavame ’nt ëcà për nen ch’i cora a ficheme ’ndrinta… për nen ch’i disonora la famija… Si a j’é anche Greta. A n’avrà për quèich ann. (p. 67): Ebbene adesso gli faranno un processo. Ah, c’è anche Greta che ci va di mezzo… Senti; troviamoci mi racconti. […] mi ha chiuso a chiave in casa perché non corra a mettermi in mezzo… perché non disonori la famiglia… Sì c’è anche Greta. Ne avrà per qualche anno.
a la sosta: sosta è lett. il “riparo” (sté/esse a la sosta; “stare al riparo”); come termine gergale è sviluppato per metonimia “essere chiuso” e quindi “in prigione”;
piciòrla: t. pop. che, come piceur (cfr. supra La zoppa), appartiene alla famiglia lessicale di picio/picia; vale dunque “ragazzotta”, con un certo qual valore spregiativo (“ragazzina leggera”);
bije: lett. “biglie”, ma come t. gergale vale “gambe”;
linge: diminutivo di lingera, “vagabondo” e, per sineddoche, “tutte le persone appartenenti ai gruppi della malavita o, quantomeno, di chi vive di espedienti o appena ai margini della legge”; usato anche in milanese (la lingera, la malavita); l’etimo è chiaramente l’aggettivo linger (leggero), con evidente allusione al tipo di vita condotto da chi non ha regole fisse né abitudini di tipo “borghese”; negli anni Trenta del secolo, incrociandosi col nome del gangster John Dillinger (1903-1934), darà vita al metonimico dillìnger/lìnger col valore di “poco di buono, lestofante”;
tirimbalin: o tarin barin (REP), lett. “gioco della dama” e poi, per traslato, “labirinto, ginepraio, confusione, complicazione, impiccio”, probabile etimo il lat. tardo *traginare (trascinare) unito al germ. *bretling (tavoletta);
vòla: t. gergale per indicare la polizia, con chiaro riferimento all’idea della “volante” (camp volant, pattuglia volante);
angiaché: t. gergale per indicare il “picchiare”, derivante dalla forma popolare fejne na giaca a un (picchiare qualcuno); la forma riflessiva angiachesse vale invece “caricarsi di debiti”; c’è da aggiungere che, come termine popolare, giaca vale anche “deretano” (pijesslo ant la giaca) per cui angiaché potrebbe equivalere all’it. popolare “fare il c. a qualcuno”;
erlo: t. pop. per “furbo”, con valore in genere dispregiativo, fé l’erlo (fare lo smargiasso, il bulletto, cioè presumere troppo di sé); lett. erlo è un tipo di uccello e precisamente lo smergo maggiore; l’etimo è herulum, dim. di herum, “padrone, signore”, per l’aspetto baldanzoso dell’animale, donde il traslato di uso comune;
fritura: termine presente nei lessici solo col suo significato primario di “frittura” o, come termine arcaico, di “fegato”; manca invece il valore traslato-gergale che, dal contesto, sembra valere “prigione” oppure anche, meglio, “questura”, con omoteleuto parodico (quest-ura/frit-ura);
sbaraté: termine ignoto ai lessici; si potrebbe ipotizzare una forma imitativa di sbarbajesse[10], col valore di “essere in confusione, scombussolato” o di sbaruvesse, “spaventarsi” oppure ancora deformazione di sberté, voce gergale col senso di “agonizzare” e quindi “star male, essere in difficoltà”.
Ospedale (dicembre 1931)
Andé ’n Calcuta […] i veuj mai pì vëdde ’d paco. Turin l’é granda. Queicòs farai. (p. 78): Andate al diavolo (lett.: a Calcutta) […] non voglio mai più vedere dei cafoni. Torino è grande. Qualcosa farò.
I lo savìa che ’t sarìe tornà a deurme […] I l’hai portajne ’n fiasch, ’ncheuj a toa mare […] L’ha sempre la siàtica, mare? […] L’é l’umidità… son ste pieuve… pa fumé… pa bèive… venta che ’t travaje Masin… fé ’l cìvich, bin pagà… distorb dj’intestin… giro le bale… plandron… (p. 79): Lo sapevo che saresti tornato per dormire […] Gliene ho portato un fiasco, oggi a tua madre […] Ha sempre la sciatica, mamma? […] è l’umidità… non sono queste piogge… non il fumare… non il bere… bisogna che tu lavori Masino… fare il vigile, ben pagato… disturbi dell’intestino… girano le balle… pelandrone…
Ciàu Masin, travaje? […] ’Ncora nen. ’N di o l’àutr farai anche lòn […] ’Dess ch’i seurta, farai… ’dess ch’i seurta ’t dijo… […] I l’hai ’l sangh cativ (p. 80): Ciao Masino, lavori? […] Non ancora. Un giorno o l’altro farò anche quello […] Adesso che esco, farò… adesso che esco ti dico… […] Ho il sangue cattivo
Son bale sti mesté […] Lassje fé ai napoletan (p. 81): Sono accidenti di lavori […] Lasciali fare ai meridionali
stago già tut ’l di ’mpicà a l’ospidal (p. 82): sto già tutto il giorno impiccato all’ospedale
Com a va, madama? […] Eh, soma sì. […] Marìa a l’ha dime ch’a va mej […] òh, Marìa, a treuva sempre ch’a va mej. Ij dotor mai, tuti ij di ’m fan la pontura. Da-sì ’m lasso pì nen seurte. […] Ch’a staga ’n gamba, madama, ij dotor son pijà ’nt la testa […] Marìa a la cudiss, nò? […] A l’é sì Marìa, l’é ’ndàita giù a pijeme ’d portugaj për bagneme la gola. La frev… […] A l’é na brava fija Marìa. Lòn ch’a travaja, pòrta tut ’nt ëcà, meno ’l fumé. Chiel ch’a van d’acòrde, ch’a preuva a dije ch’a fuma nen tan’. Mi già, i-j lo dirai pì nen. (p. 83): Come va, signora? […] Eh, siamo qui. […] Maria mi ha detto che va meglio […] Oh, Maria, trova sempre che va meglio. I dottori mai, tutti i giorni mi fanno l’iniezione. Di qui non mi lasciano più uscire. […] Stia in gamba, signora, i dottori sono bacati in testa […] Maria la accudisce, no? […] è qui Maria, è andata giù a prendermi delle arance per bagnarmi la gola. La febbre… […] è una brava ragazza/figlia Maria. Tutto quello che guadagna lavorando, porta tutto in casa, meno il fumare. Lei che andate d’accordo, provi a dirle che non fumi così tanto. Io ormai, non glielo dirò più.
L’é sò travaj col-lì. L’avèissa mach la testa a pòst. Marìa. Cola vòlta… […] Còsa a l’é staje? […] n’avocat dle bale […] Lajan d’ën lajan, mach ’d paròle, mach ’d bòria… […] … mach pien ’d supa. Marìa l’ha dime: «Mama, s’i l’hai fàit lòn l’é ch’a chërdìa ch’a fussa rich, rich… Còsa ’t veule? J’òmni son mach ’d carògne» ’Dess i dijo nen a chiel… […] «Meno male ch’a l’é san-a» […] L’ é na fomna lì ’n facia ch’a l’ha gnun, ciama da bèive… […] Ch’a-j daga ’n bicer d’aqua. […] Va bin, parèj? (p. 84): è il suo lavoro quello. Avesse almeno la testa a posto. Maria. Quella volta… […] Cosa è successo? […] un avvocato delle balle […] Poltrone di un poltrone, solo delle parole, solo della boria… […] … solo pieno di boria (lett.: di zuppa). Maria mi disse: «Mamma, se l’ho fatto è perché credevo che fosse ricchissimo… Cosa vuoi? Gli uomini sono solamente delle carogne» Adesso non dico di lei… […] «Meno male che è sana» […] è una donna lì di fronte che non ha nessuno, chiede da bere… […] Le dia un bicchiere d’acqua. […] Va bene, così?
La malatìa ’d cheur […] Tut ’l di parèj. Mai gnun a cudila (p. 85): La malattia di cuore […] Tutto il giorno così. Mai nessuno ad accudirla
Fà piasì seurte da sì. […] òh për ti! ’t ses mai ëmnuje na vòlta! […] Anvece l’é stàit tan’ grassios e ’t vedèisse che deuit a cudì le malavie! […] E cola veja ’d col di, ch’i l’hai daje da bèive: che fin l’ha fàit? Quala? Cola ch’a ciamava «dotore»… Ah… l’é spirà la neuit. Gnanca na suòra a guardeje! Chiel a l’é stàit l’ùltim ch’a l’ha parlaje. (p. 85): Fa piacere uscire di qui. […] Oh quanto a te! non sei mai venuto nemmeno una volta! […] Invece è stato tanto gentile e vedessi che garbo ad accudire le malate! […] E quella vecchia di quel giorno, che le ho dato da bere: che fine ha fatto? Quale? Quella che chiamava «dotore»… Ah… è spirata nella notte. Neanche una suora a guardarle! Lei è stato l’ultimo che le ha parlato.
andé ’n Calcuta: nesso non altrimenti testimoniato, ma col valore – dato il contesto – di “andare al diavolo”; resta da capire perché proprio Calcutta, forse solamente per il suo valore di luogo lontanissimo (seppur noto anche da fonti letterarie: Salgari in primis) e dove è ipotizzabile che si viva male e con grandi difficoltà;
grassios: evidente esempio di false friends con l’italiano “grazioso”; infatti, mentre il termine italiano si usa normalmente per indicare persona o cosa poco meno che bella, in piemontese grassios, strettamente legato al suo etimo (lat. gratia, garbo, bel modo di fare), indica persona (e mai cosa) che si distingue per buona educazione e savoir faire, con la quale insomma fa piacere stare, coprendo (anche se solo in parte) il campo semantico dell’italiano “garbato”.
I cantastorie (gennaio1932)
Lass-lo mai bèive përchè a l’é ’d rassa. […] Ant mia famija a l’é mai staje ’d balarin-e. (p. 88): Non lasciarlo mai bere perché è di famiglia. […] Nella mia famiglia non ci sono mai state ballerine.
’T l’avìe mach da pijetne un-a a tò gust. […] Còsa ’t fas tut ’l di sola? […] Speto ’l marito (p. 89): Avevi solo da prendertene una di tuo gusto. […] Cosa fai tutto il giorno da sola? […] Aspetto il marito
Pare ’t ten ’mpòch companìa (p. 90): Papà ti fa un po’ di compagnia
L’hai fàit lòn ch’am ësmija […] e continuerai a felo, se ’t ven-e balengo parèj… E tut ’m chërdìa, meno che lòn…’T ses pròpi come tò pare… […] Soma óit tuti doi (p. 91): Ho fatto quello che mi pare […] e continuerò a farlo, se tu diventi scemo così… E tutto mi credevo, tranne quello… Sei proprio come tuo padre… […] Siamo stufi (lett.: unti) tutt’e due
L’hai dite ’d nen bèive […] Chi l’ha datje ij sòld? […] E bin? L’ha damje Marìa, ch’i vada a bèive na vòlta. A fà nen mal a bèive […] L’ha datne àutre vòlte? […] A l’ha pì ’d cheur che ti, Marìa… ’Ndoa l’é dess Marìa? (p. 92): Ti ho detto di non bere […] Chi te li ha dati i soldi? […] Ebbene? Me li ha dati Maria, che possa andare a bere un bicchiere. Non fa male bere […] Te ne ha dati altre volte? […] Ha più cuore di te, Maria… Dov’è adesso Maria?
E bin còs at pija? […] E adess se ’t veule, va da toa mare (p. 93): Ebbene cosa ti prende? […] E adesso se vuoi, va’ da tua madre
Ch’i l’abia d’avèj sempre ’d vej ’nt le roe? (ibidem): Che io debba avere sempre dei vecchi trai i piedi? (lett.: nelle ruote)
Ma përchè a va nen dai sò? (ibidem): Ma perché non va dai suoi?
Son stofe ’d rusché e ’d ven-e ’n gnente […] S’i l’avèisso ’n pcit, Masin, sarìa divers […] Lasso perde ij motor, peui vëdrai […] ’T lasse ’n mësté sicur për na lòfia. Còsa ’t veule fé ’ntlora? […] Përchè ’ndoma nen via? […] Përchè ’t vas nen a pijé la patente ’nt n’àutr pòst? […] òhmmi, n’a j’é un bianch […] Ma s’a l’é nèir! (p. 94): Sono stufo di ammazzarmi di lavoro e di arrivare a niente […] Se avessimo un bambino, Masino, sarebbe diverso […] Lascio stare i motori, poi vedrò […] Lasci un mestiere sicuro per una cosa da niente. Cosa vuoi fare allora? […] Perché non andiamo via? […] Perché non vai a prendere la patente in un altro posto? […] Ohi, ce n’è uno bianco […] Ma se è nero!
rusché: t. pop. per indicare il lavorare, in genere duramente e con poca soddisfazione, donde anche il deverbale ruscon (stakanovista); etimo: dal lat. mediev. ruscare (a sua volta da *rusca, corteccia, di origine forse celtica) col valore di “togliere la corteccia” e poi, per estensione, “faticare, lavorare con fatica”; il termine è presente in tutta l’area gallo-italica, assumendo anche valori specifici (per es. in ligure vale “fare la vita, lavorare sul marciapiede”);
lòfia: femminile di lòfi, t. pop. col valore di “debole, malandato” e poi “di scarso valore”; come t. gergale lòfi è il “borioso” e lòfia la questura; etimo incerto, ma – data la diffusione del termine in tutta l’area settentrionale – si può ipotizzare il germ. *lufjis (moscio, fiacco).
Masin dla froja (gennaio 1932)
A l’é bon ’s dossèt? […] Faro mè […] Bèive, na vòta? […] Bon dabon […] J’hen za ditro Natal, ’d pì nen bèive ar mor e ’d nen deje da bèive a tucc coj ch’i passa (p. 115): è buono questo dolcetto? […] L’ho fatto io […] Bevete, un bicchiere? […] Buono davvero […] Te l’ho già detto Natale, di non bere a canna e di non dar da bere a tutti quelli che passano
Ch’am dago ’n tòch da mangé (ibidem): Mi diano un pezzo da mangiare
’Ndé a travajé, plandron […] ’T voghe lò ch’o-j càpita a deje da bèive a tucc ij piolòt? […] ’Ndé via se ’d nò a braj […] Bogg-te, ti […] Daje da bèive. Sa, veur-lo bèive, fanciòt?... Gnente d’àutut […] A r’arma, a r’arma, a o làder (p. 116): Andate a lavorare, pelandrone […] Lo vedi cosa succede a dar da bere a tutti gli avvinazzati? (lett.: i frequentatori di osterie) […] Andate via altrimenti grido […] Muoviti, tu […] Gli ho dato da bere. Su, vuole bere, giovanotto?... Per niente […] Allarmi, allarmi, al ladro
Fà presto che a rivoma a Sant Stevo […] L’é l’àuto ch’a-i veul për rivé a Sant Stevo. Ma ’dess che sio là, còsa foma ’n mes ai paco? Dis, Martin, mi son óit dë sta vita. A-i veul l’àuto da filoté via. Përchè ’t l’has përdulo l’àuto, Masin? (p. 118): Fa’ presto che arriviamo a Santo Stefano […] è l’auto che ci vuole per arrivare a Santo Stefano. Ma adesso che siamo là, cosa facciamo in mezzo ai cafoni? Dimmi, Martino, io sono stufo di questa vita. Ci vuole l’auto per scappare (filoté) via. Perché hai perso l’auto, Masino?
Sent, va feura da le bale […] Mi l’hai sempre marcià drit e i l’hai nen veuja ’d feme pisté ij pe da gnun. Àngola, bonòm. […] A-i veul l’àuto, Masin, l’àuto o la froja da torness-ne a Turin. Përchè ’t son-e pì nen la froja, Masin? L’hai vendula […] E l’àuto […] ’t l’has vendulo anche l’àuto, Masin? Sent […] Gnun l’é mnute a cerché né ti, né l’àuto. Se it l’has la froja, gratëtla, mi son për rivé a Sant Stevo e i l’hai seugn. Mi i l’hai perdù la froja e stop. E stassèira queicòs l’hai travondù e travonderai doman e sempre… Masin, ’t l’has perdulo tò àuto, Masin… (p. 119): Senti, va’ fuori dalle balle […] Io ho sempre camminato diritto e non ho voglia di farmi pestare i piedi da nessuno. Fila via, brav’uomo (ma anche: fessacchiotto). […] Ci vuole l’auto, Masino, l’auto o la chitarra per tornarsene a Torino. Perché non suoni più la chitarra, Masino? L’ho venduta […] E l’auto […] hai venduto anche l’auto, Masino? Senti […] Nessuno è venuto a cercarti né te, né l’auto. Se tu hai la chitarra, suonatela, io sono per arrivare a Santo Stefano ed ho sonno. Io ho perso la chitarra e stop. E stasera qualcosa ho mangiato (lett.: deglutito/inghiottito) e mangerò domani e sempre… Masino, tu l’hai perso il tuo auto[11], Masino…
piolòt: il termine nei lessici è registrato come diminutivo di apia (accetta), e quindi col valore di piccola ascia, roncola, mentre nel contesto[12] appare più logico legarlo a piòla (bettola, osteria) e quindi renderlo con “frequentatore di bettole” e poi “ubriacone”; per l’etimo di piòla, attraverso il gergale francese piaule/piolle (bettola), dal latino picam (gazza, ma come traslato anche bevanda e quindi vino);
filoté: il termine è registrato nei lessici come denominale di fil col valore di filare; appare evidente lo scambio semantico tra l’atto del “filare” nella filatura e quello del “filare” (traslato) per “andar via, scappare”;
angolé: termine ignoto ai lessici, anche perché formato a partire dalla piemontesizzazione diciamo così “forzata” dell’italiano “angolo” (in piem. canton o la voce arcaica quara); evidente il valore gergale di “svoltare l’angolo” e quindi di “andarsene via, togliersi dalle scatole”.
Carogne (febbraio 1932)
Come sëddes ani ’d malatìa […] A l’é possìbil? (p. 123): Come sedici anni di malattia […] è possibile?
’T ancamin-e già adess, salòp? […] Daje ’n pe ’ndrinta a col monsù (p. 126): Incominci già subito, sporcaccione? […] Dagli in calcio a quel signore
Piantla, teron (p. 127): Smettila, terrone
salòp: t, pop, per “sporcaccione” sia in senso materiale che morale; l’etimo è il fr. salope, persona sporca e disonesta, in cui dunque sono già presenti entrambi i valori che da esso erediterà il vocabolo piemontese.
Vediamo ora come in alcuni di questi racconti[13] postumi si possano trovare, nella filigrana dello scorrere della prosa italiana, svariate espressioni che denunciano come l’autore le traducesse direttamente dal piemontese. Si tratta dunque di piemontesismi in italiano, che elencheremo sempre inserendoli nei vari racconti, ma definendoli tuttavia come a) termini tout-court piemontesi semplicemente traslitterati in forma italiana; b) termini piemontesi italianizzati, ma usati secondo il loro valore piemontese, diverso da quello dell’italiano; c) forme sintattiche e/o idiomatiche tipicamente piemontesi.
Ciau Masino…
Il blues delle cicche
(a) servente (serventa; p. 10) serva, domestica;
(b) chiamare (ciamé; p. 12): chiedere; c’è poi il signore che mi avete chiamato;
(a) veduto (vëdù; p. 15): visto; non ci siamo mai più veduti;
(b) contare (conté; p. 15): raccontare; contami su;
(c) parlare insieme: parlare con (p. 18): parliamo insieme.
Congedato
(a) toni (tòni; p. 21); tuta da lavoro; l’etimo è il nome proprio Antonio, nel suo diminutivo Tòni, che, partendo da un’accezione negativa riferita ad un personaggio di bassa condizione, in genere contadinesca (Fé ’l Tòni vale “fare l’ingenuo, il finto tonto”; cfr. la “satira del villano” nella cultura italiana), la mantiene anche per indicare un abito, come una tuta da lavoro, di bassa qualità e tipico di persone di umile condizione;
(a) teppe (tëppa; p. 22; poi teppa a p. 94 in I Cantastorie): poco di buono;
(a) paperasse (paprasse < papé; p. 22) fogliacci;
(a) bevuto (beivù; p. 26; cfr. poi anche a p. 98 in Hoffman): alticcio; era bevuto.
L’acqua del Po
(a) stravaccato (stravacà; p. 32): disteso scompostamente; etimo è il latino pop. *extravacuare, “svuotare completamente”, da cui si origina il significato di “ribaltare per svuotare”; il termine è diffuso in tutta l’area padana;
(a) pivie (pivi/piva; p. 33): rondone;
(b) filo (della corrente; fil dla corenta; p. 33): movimento della corrente d’acqua;
(b) aggiustare (rangé; p. 34): sistemare; questo aggiusterebbe;
verso la fine della p. 35 abbiamo poi un breve excursus “eziologico” in cui i due amici (Masino ed Hoffman) istruiscono il terzo ragazzo della brigata (Merlo), appena entrato a far parte del loro entourage, del perché una zona della riva del Po da poco costeggiata sia stata da loro definita “Atollo”, ma lasciamo la parola allo scrittore:
«Ma la Spiaggia dell’Atollo, chi l’ha trovata la Spiaggia dell’Atollo? – Be’,– concesse Hoffman, – quella è l’unica cosa intelligente che hai pensata in tre mesi –, Merlo venne istruito che la Spiaggia dell’Atollo era così detta perché ci si vedeva sempre una tale con nessun seno. – Alfa privativo, – gli spiegarono. Tutti e tre in qualche giorno dell’infanzia lontana avevano studiato il greco».
La battuta si comprende solamente sapendo che nel gergo torinese (utilizzato anche dagli studenti) il termine tòle (plurale italianizzato in tolle) indicava il seno femminile (it. “tette”); pertanto: alfa privativo + tolle = a-tolle, e di qui il passo ad “Atollo” è quanto mai breve;
(c) bere una volta (bève na vòlta; p. 36 e poi p. 44): bere un bicchiere in compagnia; sedersi a bere una volta (bèive na vòlta) all’osteria: espressione idiomatica intraducibile se non in forma perifrastica, poiché essa ha un raggio di significato più ampio del semplice italiano “bere”; tale formula infatti viene sempre e solo usata nell’occasione del bere del vino e in compagnia sia in casa che all’osteria; dovremmo pertanto renderla, in italiano, con la perifrasi “sederci a bere del vino in compagnia tra di noi”.
La Langa
(a) sucche (p. 39): due ipotesi non dirimibili in base al contesto: 1) pronuncia piemontesizzante dell’italiano zucche[14] (meno probabile); 2) dal piemontese such/suca (ceppo), da una base celtica *tzucca (testa);
(c) grande (p. 40): nel senso dell’italiano “molto, tanto”; gran parole;
(b) beni (beni; p. 40): possedimenti terrieri;
(a) ciabòt (p. 40): piccola costruzione di campagna; di etimo incerto: forse l’occ. chabot o il delfinese chaboto, a loro volta dal latino capanna;
(a) pischerla (pischërla; t. familiare; p. 41): ragazzina, ragazzotta; di etimo incerto, da assimilare comunque a forme italiane quali bischero e pischello;
(c) crepare (chërpé; p. 41): rovinare, fare a pezzi; certe ragazze […] gli crepavano gli occhi (metaf. lo attiravano);
(c) a gioco (forse a gioch; p. 43): probabilmente dal termine gioch (pollaio), nella locuzione idiomatica che vale “essere a casa” e quindi, metaforicamente, “a posto”: dimenò le dita e le sentì a gioco;
(a) vasco (vasco; p. 43): forma gergale torinese col valore di “magnifico, in gamba” (equivalente all’attuale “figo”), ma anche “bullo, spaccone”; l’etimo è da vasco (pl. vascones), antico popolo iberico (i moderni baschi), da cui anche la forma italiana “guascone”, sia con valore geografico (abitante della Guascogna) che metonimico (spaccone, spavaldo, tracotante);
(a) lea (leja; p. 43): viale: lea di platani; rectius alea, dal fr. allée, a sua volta dal lat. class. ambulatam (passeggiata);
(c) civica (sott. guardia; cìvich, p. 46): vigile urbano.
La zoppa
(b) governare (goerné; p. 53): accudire; un salotto da governarsi colle cure di un domestico;
(c) tenere l’anima coi denti (p. 54): faticare a vivere (sia in senso fisico che economico); teneva l’anima coi denti;
(a) crinaccia (crinassa < crin; p. 56): porcellona; notiamo che tale termine si può usare solamente per gli esseri umani e non per gli animali, esistendo in tal caso il termine treuva (troia); oltretutto crin (masch.) è maiale (dalla base gallica *crinos, maiale), ma crin-a (femm.) è il contrabbasso, perché la sua forma ricorda quello di un cosciotto di maiale;
(a) landa (landa; p. 57): discussione animata, litigio, lamento eccessivo; di etimo incerto, forse dal germ. landel (donnaccia); certe lande in casa;
(b) pigliare (p. 57): prendere; calco di pijé; non bisogna pigliarsela.
Arcadia
(c) mezza barriera (p. 59): come la barriera (cfr. infra Il capitano) è il quartiere periferico tra la città e la campagna, così la “mezza barriera” è il quartiere tra il centro e la barriera[15];
(c) far flanella (fè ’d flanela; p. 59): oziare, passare il tempo senza far nulla, in genere andando a spasso; l’espressione è ricalcata sul francese flâner (bighellonare);
(b) ragionare qualcuno (rasoné; p. 60): far ragionare; e poi ragionarli;
(a) tampa (tampa; p. 61): la tampa è, normalmente, una buca di ampie dimensioni, con o senza acqua, anche per contenere il letame o per sotterrare carogne di animali, ma, come forma semi-gergale torinese, vale “osteria di infimo ordine in cui però si può suonare e cantare”; etimo incerto: forse il pre-indoeuropeo *tsampa (piccola palude);
(a) sgalfo (sgalf; p. 62): di poco valore, di aspetto malaticcio o comunque non bello; manca al rep, mentre Gribaudo lo collega al prov. escalfar (< lat. tardo excalefacere, “scaldare”);
(a) purilla (porila; p. 62): ragazzina, in genere impertinente o saputella, piccola che vuol dimostrare di essere più grande della sua età; il termine porilo (masch.), di incerta origine, valeva inizialmente “bottoncino, capocchia”, poi passato per metonimia ad indicare il copricapo di tipo “basco”, che presentava in effetti una sorta di breve appendice alla sua sommità; il passaggio successivo, da basco a ragazzino/a, non è tuttavia chiaro;
(a) froja (froja; p. 63): forma semi-gergale torinese per “chitarra” (cfr. supra La Langa);
(a) stracca (strach/straca; p. 64 e poi p. 70): stanca; stracca morta; etimo incerto: o il lat. pop. *extragicare (trascinare, strascicare) o il germ. strak (stanco) o ancora il latino volgare *extraquare (prosciugare, e quindi esaurire, indebolire);
(c) carico (carià, sottinteso “di vino”; p. 66): col valore demi-gergale di “ubriaco”.
Masino padre
(c) Come va che (p. 71); com’è che…;
(c) fare il nuovo (fé ’l neuv o anche fé ’l Giòrs neuv; p. 72): fare lo gnorri, l’indiano: aveva fatto la nuova.
Ospedale
(a) fare il farinello (fé ’l farinel; p. 81): fare il furbastro; per l’etimo di farinello, il vocabolo di partenza è certamente farina con l’aggiunta del suffissoide -ellum, indicante diminutivo o vezzeggiativo, ma il valore traslato del termine (falsario, furbacchione, lestofante) va forse ricercato o, metonimicamente, nel senso di “parassita della farina” o ancora, storicamente, nel fatto che gli attori anziani, nelle opere teatrali del secolo xviii, quando dovevano ricoprire il ruolo del giovane innamorato, si dovevano truccare cospargendosi il volto con molta farina;
(a) malcontenta (malcontent; p. 81): non contenta.
Hoffman
(a) saltetto (sautèt; a sautèt: a balzelloni; p. 97): saltello;
(c) civico (p. 98); come supra (La Langa), vale “vigile urbano” (cìvich).
Carogne
(b) mollare (molé; p. 124): smettere; aveva […] gridato […] che […] la mollasse.
Racconti
Jettatura (novembre 1936)
(c) bere una volta: cfr. supra L’acqua del Po, p. 152;
(c) in letto (ant ël let; p. 152): a letto; vado in letto.
Viaggio di nozze (novembre/dicembre 1936)
(b) aggiustare (rangé; p. 156): sistemare; avrebbe saputo aggiustarmi una casetta;
(c) per mio conto (për me cont; p. 156): “per conto mio, tutto solo” oppure “per quanto sta in me, per come la vedo io”; avevo temuto, per mio conto;
(c) guai al mondo (guaj al mond; p. 158): espressione idiomatica rafforzativa di “guai” intraducibile letteralmente; diversamente guai al mondo;
(c) somigliare (smjé; p. 159): assomigliare o sembrare o ancora immaginare; Amalia da bambina le era somigliata (a l’era smijaje per “aveva immaginato”); notiamo inoltre anche la costruzione sintattica anacolutica, tipica del piemontese parlato (“Amalia… le era”), invece del corretto “Ad Amalia… era”;
(c) trovare da… (trové da; p. 164): trovare dove…; trovare da sederci.
Misoginia (dicembre 1936)
(c) su da (su da; p. 167): lungo, su per; s’incamminò senza voglia su dalla scala;
(a) malgraziosa (malgrassios; p. 169): scostante, maleducata; possiamo riprendere quanto detto supra (Ospedale) riguardo all’aggettivo grassios, falso-amico dell’italiano “grazioso”;
(a) sognacchiare (sugnachié < seugn, sonno; p. 170): dormicchiare; passò così più di un’ora, sognacchiando.
L’intruso (dicembre 1936/gennaio 1937)
(c) il più di… (ël pì ëd…; p. 178): la maggior parte di…; Lorenzo trascorreva il più delle ore;
(c) mangiarsi l’anima (mangesse l’ànima; p. 180): rodersi il fegato o equivalente all’italiano “dannarsi l’anima” per indicare il darsi eccessivamente da fare in un impegno o nel lavoro; se trovo un cristiano mangiarsi l’anima.
Le tre ragazze (gennaio/febbraio1937)
(b) disgusto (dësgust; p. 186): dispiacere; e m’informava della sua vita, dei suoi disgusti; falso amico rispetto all’italiano “disgusto” (raccapriccio, schifo);
(b) riscontrare (rëscontré; p. 189): paragonare; tutt’al più mi riscontro alle pietre dei muri;
(b) contare (conté; p. 192): raccontare; eppure avrei cose da contarle;
(c) osare di… (ancalesse ’d; p. 192): osare a…; e non oso nemmeno di muovere un dito;
(b) fija (p. 193, ma anche il masch. fieul) nel doppio possibile significato di “figlia” e di “ragazza: “mi diceva la povera figlia!”;
(a) ritano (o rittano; ritan/ritan-a; p. 193): valloncello o fogna di campagna; poi discendeva nel ritano; dal lat. medievale *ritanum (rio) dalla forma classica rivum;
(a) riva (riva; p. 193): costa di collina, dirupo; c’erano piantine di castagno in quella riva.
Notte di festa (marzo 1937)
(b) gridare (crijé/brajé; p. 202): sgridare, rimproverare; Il Padre ti griderà domani;
(a) cavagna (cavagn, cavagna, cavagnin; p. 202): cesta; Porteremo tanti di quei cavagni; dal lat. volg. *cap(p)aneum/*cavaneum (< cavum, vuoto, buco), col valore di “canestro”;
(a) palchetto (palchèt; p. 203): lett. pavimento di legno, poi, per metonimia ballo a palchetto; Come vuoi che lascino entrare al palchetto; è il ballo mobile col pavimento di legno (palchèt), presente nelle feste di paese; l’etimo è chiaramente il francese parquet;
(c) “Che scusi” (Ch’a scusa; p. 211): scusi.
Amici (maggio 1937)
(a) bevuto (beivù; p. 222): alticcio; se tornassi a casa bevuto; cfr. supra in Congedato;
(b) napoli (nàpoli; p. 225): meridionale in genere (per metonimia); sarà pieno di napoli; il termine si diffuse durante il Risorgimento quando a Torino risiedevano molti esuli meridionali che, provenendo dal Regno di Napoli, furono definiti tutti – per metonimia ed indipendentemente dalla loro regione di origine – col nome dello stato di provenienza;
(a) grignare (grigné; p. 225): ridere; tu grigni; dal fr. grigner (fare smorfie) a sua volta dal germ. ant. *grin-an (storcere la bocca);
(c) c’è caso (a-i é ’l cas che; p. 225): può darsi che; a star qui c’è caso ci facciano pagare;
(a) tampa (tampa; p. 236): per il significato cfr. supra (Arcadia): sull’angolo dev’esserci una tampa;
(a) gorba (gòrba; p. 227): ragazzino (t. fam.); guarda quel gorba; il vocabolo vale letteralmente “cesta” (< lat. corbem, cesto, cfr. fr. corbeille), ma passa a significare appunto “ragazzo, garzone”, talora anche “impertinente”; è di uso recente ed è forse da riscontrare nell’immagine del garzone (di negozio o di artigiano, specie muratore) adibito al trasporto delle ceste;
(b) Cosa fai? il napoli? (c) Bevi una volta (p. 228); cfr. supra passim;
(c) conoscere da… (conosse da…; p. 231): distinguere, riconoscere tra…; non si conosce più da cielo a terra.
Temporale d’estate (maggio/giugno 1937)
(a) fracco (frach; p. 235): gran quantità, mucchio; non gliene danno un fracco subito; termine semi-gergale torinese, deverbale da fraché (picchiare di santa ragione), a cui va accostata la locuzione dejne/fejne ’n frach a un, donde si estrae il deverbale frach col valore appunto di “gran quantità (di botte)”; è diffuso in tutta l’area settentrionale, con etimo dal lat. volg. *fragicare (spaccare), intensivo dal lat. class. frangere.
L’idolo (agosto 1937)
(a) onta (nella formula “aver onta”; avèj onta; p. 291): avere vergogna; avevo onta di mostrarle.
Villa in collina (giugno/luglio 1938)
(c) prendere male (pijé mal; p. 325): sentirsi male; è preso male a Ginia.
Il campo di grano (luglio/agosto 1938)
(a) cappellina (caplin-a < capel; p. 336): cappello estivo di paglia.
Fedeltà (ottobre 1938)
(b) guardarsi (vardesse; p. 347): riguardarsi; sì, ma devi guardarti;
(c) secondo che… (scond che…; p. 351): a seconda di come…; secondo che la trovo.
Il capitano (febbraio 1941)
(c) da (di): era un giovane da fidarsi (di cui fidarsi; p. 362);
(c) barriera (bariera; p. 367): la barriera a Torino è, ancora oggi, la denominazione di alcuni quartieri di periferia (B. di Nizza, B. di Francia, B. di Milano…)[16]; l’incolto della barriera.
La zingara (novembre 1941)
(c) delle volte (dle vòlte; p. 427): talvolta, a volte; ne trovo delle volte.
Feria d’agosto (1945)
La giacchetta di cuoio (settembre 1941)
c) trovare l’uscio di legno (trové l’uss ëd bòsch; p. 40): non trovare nessuno in casa; L’indomani trovò l’uscio di legno;
b) rispondere (rësponde; p. 40): rispondere male, dar sulla voce con impertinenza; era sempre pronta a rispondere.
Primo amore (dicembre [1937?])
a) bialera (bialera; p. 46): roggia, canale di scarico, in genere di mulino; dal celtico *bedo (fosso, canale), attraverso il lat. tardo bedalem, abbiamo bial (prov. beal), da cui una famiglia lessicale comprendente anche bialera;
b) onta (onta; p. 48): vergogna; provai onta di uscire; cfr. supra L’idolo;
c) altro da (p. 51): altro di cui; non avete altro da parlare;
b) sfiancare (p. 52): rovinare, distruggere, cambiare i connotati (falso amico dell’italiano “sfiancare”, indebolire); gli sfianco la faccia;
c) in Acqui (an àich; p. 53): ad Acqui;
a) gerbido (gerbi, gèrbid; p. 60): zona di terreno incolto; forma diffusa in tutta l’area settentrionale (specie nella toponomastica: Gerbido, Gerbola, Gerbole, e nell’onomastica: Gerbaudo): l’etimo è incerto, ma si ipotizza un relitto mediterraneo quale *garbo- (terreno incolto);
b) cantone (canton; p. 60): angolo; Nino girò leggero il cantone;
a) stracco (strach; p. 61): stanco; cfr. supra Arcadia.
Il mare (settembre-ottobre 1942)
a) biroccini (birocin < biròcc; p. 63): calesse; come l’it. “biroccio” dal lat. tardo *birotium (< birotum), cioè “carro a due ruote”;
b) parare (paré; p. 65): riparare o ostacolare; ci disse di non parargli la luce;
a) magnano (magnan; p. 65): qui Pavese confonde magnan (garzone di muratore) con magnin (calderaio), come voluto dal senso del passo (“e viaggiavano lui e un padrone cercando lavoro nei cortili e portandosi dietro i fornelli e il carbone”);
b) pile (rectius pilie; p. 66): pilastri (< lat. pilam, colonna);
c) marcio di sudore (p. 66): fracido, zuppo di sudore;
c) fortuna che (boneur che; p. 66): per fortuna; Fortuna che il vento portava;
a) falavesche (falavësche; p. 66): scintille; termine presente in svariate forme (anche faravòsca, falòspa, faraòspa, falavòspa, fluspa, falispa ecc.) il cui etimo è individuato nel germ. falawiska (scintilla), anche se alcuni pensano al lat. favillam;
c) con tanto che (con tant che; p. 69): per quanto;
b) gridare (brajé; p. 69): litigare; ascoltiamo se si sente a gridare;
b) padrino (parin; p. 72): formula di cortesia e di rispetto verso gli anziani, come zi’ nelle parlate centro-meridionali;
c) consumare il nome (frusté ’l nòm; p. 77): formula usata per indicare che una cosa è stata ripetutamente detta, a tal punto da consumarla, come se le parole fossero materialmente tangibili; Ieri il nome te l’abbiamo consumato;
a) (uva) luglienga (lujenga/lignenga; p. 78): uva di luglio; il termine appartiene ad una categoria di aggettivi che, derivati dai nomi dei mesi, non hanno corrispondente in italiano (es.: avrilengh, “di aprile”, lett. “aprilesco”).
Vocazione (giugno-luglio 1940)
c) bell’e adesso (bele adess; p. 108): proprio, anche adesso; notiamo che Pavese adotta la grafia (corretta in italiano) “bell’e”, ma che in realtà è calco del piemontese bele, che non significa “bello”, ma “anche”.
La città (aprile 1942)
b) veglia (vijà; p. 114): si tratta delle veglie che si tenevano nelle stalle durante l’inverno e sulle aie in estate; in veglie, in discussioni coi braccianti.
Le case (luglio 1943)
b) sperso (spers; p. 122); desideroso, che sente la mancanza; esse/sentisse spers equivale al verbo latino desiderare; ne era sperso;
Le feste (ottobre 1943)
b) parlare/parlarsi (parlé/parlesse; p. 129): essere fidanzati, amoreggiare; lui e Carmina si parlavano;
b) socio (sòcio; p. 133): amico, compagno, anche in senso erotico o canagliesco; lui aveva dei soci.
Storia segreta (novembre 1943-agosto 1944)
b) pezze (pesse; p. 171): monete; correvano pezze d’oro;
c) sul patto (an sël pat; p. 172): inoltre, per di più; e, sul patto, era incinta;
b) brusco (brusch; p. 176): gusto acerbo, acidulo, aspro; falso amico dell’italiano “brusco”, cioè “di carattere scostante”; hanno un sapore brusco.
PAESI TUOI (1939-1941)
(b) sedere (seté; p. 8): transitivo per “far sedere”; l’avevo… seduto; non l’unico esempio di uso transitivo piemontese di verbo intransitivo italiano: rasoné (far ragionare), spassëgé (far fare una passeggiata, portare a passeggio);
(c) niente del tutto (nen d’autut; p. 8): assolutamente nulla;
(a) macchina da battere (màchina da bate; p. 9): trebbiatrice, lett. macchina per battere (il grano);
(c) con degli altri (con dj’àutri; p. 11): uso molto comune del partitivo, presente in molti altri casi, passim;
(b) figurarsi (figuresse; p. 11): immaginarsi; mi figuravo;
(c) guardalo qua (‘ardlo sì; p. 11): forma idiomatica per “eccolo”;
(b) buonuomo (bonòm; p. 11): sempliciotto; ch’è un buonuomo;
(c) prendere in mezzo (pijé ’n mes o pijé ’d mes; p. 14): farsi gioco di, burlarsi di, imbrogliare, nel senso specifico di “far fare ad un altro ciò che questi non vorrebbe”; presi in mezzo e (p. 43) pigliava in mezzo la gente e ancora (p. 55) mi aveva preso in mezzo un’altra volta;
(b) guardare (vardé; p. 14): custodire; se vi guardo le macchine e p. 17 i suoi ferri e il ragazzotto che glieli guardava;
(c) sul mercato (an sël mërcà; p. 16): al mercato;
(b) comandare (comandé; p. 17): ordinare qualcosa; comanda del vino;
(b) intero (antregh; p. 19 e p. 25): bonaccione, sempliciotto, ingenuo, tonto; e poi ancora a p. 72: non è mica intero come Talino;
(a) a randa (aranda; p. 20): accanto, di fianco a; corriamo a randa di un fianco boscoso;
(c) parlare insieme (parlé ansema; p. 22); parlare con;
(b) governare (goerné; p. 24): accudire (specie gli animali nella stalla); governano le bestie;
(c) andrà come una sposa (andé parèj ’d na sposa; p. 24): forma idiomatica per “andare alla perfezione, senza problemi”;
(c) nei piedi (ant ij pe; p. 24): tra i piedi;
(a) abbrancarsi (branchesse; p. 25): attaccarsi, avvilupparsi, e poi abbracciarsi; si abbrancano e ridono; etimo probabile dal tardo lat. brancam, dal celtico *branca (braccio, e poi zampa), forse da una base ie. *wrenk-/*wronk- (mano, zampa, artiglio);
(b) tirare (tiré; p. 26): attirare; tira le mosche;
(c) un bel momento (un bel moment; p. 26): all’improvviso, tutt’a un tratto;
(b) veste (vesta; p. 28): specificamente l’abito femminile (per quello maschile: vestimenta);
(c) a mano riversa (a man arversa; p. 29): con la mano voltata, girata;
(c) bruciare il paglione (brusé ’l pajon; p. 28): battersela, filarsela; brucio il paglione;
(b) gridare (crijé; p. 28): rimproverare; grida a sua figlia;
(a) tranvai (tranvaj; p. 32) tram (< inglese tramway);
(a) bricchi (brich; p. 33) colline; da una base prelatina, di sostrato settentrionale, *brikk- (sasso, dirupo);
(a) gorbetti (gorbèt; p. 35): ragazzotti, dim. di gòrba, cfr. supra Amici;
(a) pastura (pastura; p. 37): pascolo (andé an p., “portare al pascolo”); andava in pastura; nel gergo “furbesco” torinese del secolo scorso (vivo ancora dopo il 1960) il verbo pasturé (italianizzato in “pasturare”) valeva “palpare una ragazza” o ancora “compiere atti di libidine senza giungere al coito”;
(b) parlare/-rsi (parleje a…/parlesse; p. 37): essere fidanzato; c’è chi gli parla, alle tue sorelle? e poi (p. 53) con Ernesto ci parlavamo;
(a) albera (albra/arbra; p. 38): pioppo (bianco); dietro a quelle albere; dal lat. med. albarum (pioppo bianco), termine presente anche nella toponomastica dell’Italia settentrionale (Albera, Albaro, Albaretto, Alberoni…);
(b) figliolo (fieul; p. 43): ragazzo, giovane; lui scherza come fosse figliolo;
(c) i lenzuoli (ij linseuj; p. 50): maschile per il femminile dell’italiano;
(b) conoscere (conòsse; p. 51): capire; è dalle ginocchia che si conosce; oppure anche “riconoscere” (p.84): non conosce più nessuno;
(a) empire (empì; p. 51): riempire; mentre mi empivo la gola;
(c) il sonno (ël seugn; p. 52): riposo pomeridiano, pisolino, pennichella, talora anche il dim. sognèt (mentre il femminile, la seugn, è il sonno inteso come condizione fisica: “aver sonno”); fanno il sonno;
(b) vedere (vëdde; p. 53): col valore specifico di “succedere, capitare”; che cosa hai visto? (cosa ti è successo?);
(c) tirare il rocco (tiré ’l ròch; p. 54): prendere in giro, satireggiare; che le tira ancora il rocco;
(b) parole (fé ’d/essie ’d paròle; p. 56): nella forma idiomatica “esserci, fare parole” vale “discutere, litigare”; se c’erano state parole tra lui e Vinverra;
(b) lavorante (lavorant; p. 56): è specificamente il salariato, il manovale agricolo (il verbo lavoré significa “lavorare la terra, arare”, di contro a travajé, “lavorare” in senso generale);
(b) cimentare (cimenté; p. 58): stuzzicare, aizzare (di bestie), falso amico dell’italiano “cimentarsi” (impegnarsi); non finivano più di cimentarmi;
(c) parlare fino (p. 58): parlare raffinato (lett.), bene; notazione socio-linguistica per indicare semplicemente chi parla italiano o torinese; a quelli di Torino che parlano fino, non gli davano credito;
(b) novità (neuve; p. 58): stranezze; non dite novità;
(c) fare gli occhi (fé j’euj; p. 59): guardar male, storto o ammiccare; Talino […] ci fa gli occhi;
(b) goffo (gòf; p. 60): stupido; siediti, goffo; e poi “gofferia” (gofarìa; p. 61): stupidaggine, sciocchezza;
(b) folle[17] (fòl; p. 60): non l’italiano “folle, pazzo”, ma scemo; sei folle;
(c) in punta (an cò; p. 62): in cima; un’osteria là in punta;
(b) tempestare (tempesté; p. 63): grandinare, falso amico dell’italiano “tempestare” (colpire ripetutamente e con violenza, anche in senso metaforico);
(c) avere da fare con (avèj da fé; p. 66): per “avere che fare”; capiva con chi aveva da fare;
(b) beni (beni; p. 68): proprietà, specificamente terriere;
(b) riscontro (rëscontr; p. 72): oltre a “riscontro, incontro”, ha, come qui, il valore di “corrente d’aria”; per quanto ci fosse il riscontro della finestra e della porta aperta;
(b) bestie (bes-ce; p. 73): in senso assoluto “mucche”, così come animal è, metonimicamente, il maiale; muoversi i conigli e le bestie;
(a) golata (golà; p. 75): sorsata;
(a) ramulivo (rectius ramuliva; p. 75): ramo d’olivo preso in chiesa nel giorno della domenica delle Palme, detta appunto (Dumìnica d)la Ramuliva; un lettone di legno con la madonna e il ramulivo;
(b) fisso (fiss; p. 76): convinto; era fisso che darne troppo alla macchina;
(b) vegliare (vijé; p. 78): fare la veglia (cfr. supra: vijà in La città), cioè stare a chiacchierare la sera sull’aia o nella stalla; vale dunque metonimicamente “oziare”; là si lavora e qui si veglia;
(c) a testa prima (a testa prima; p. 79): a capofitto, con la testa in avanti; a testa prima nel fango;
(c) la mia parte (mia part; p. 83): quanto basta per me; io sono vigliacco la mia parte;
(b) serena (seren-a; p. 88): umidità notturna; il terreno era ancor umido dalla serena;
(c) tagliatelli (p. 91): traduce il maschile ij tajarin, di contro al femminile italiano “tagliatelle”;
(b) battuto (batù; p. 91); impiantito di cemento grezzo, in genere nelle stalle, nei magazzini e nei rustici, probabile adattamento dal fr. bâtir (fabbricare); in mezzo al battuto;
(c) volare addosso (voleje acòl a…; p. 92): gettarsi addosso, anche solo a parole, con violenza e cattive intenzioni; non gli sono volato addosso a buttarlo per terra.
[1] Si ricorda principalmente la prima traduzione italiana del Moby Dick di Melville per l’editore Frassinelli (1932 e poi, riveduta, nel 1941), ma non dimentichiamo la sua prima traduzione, Il nostro Signor Wren (1931) di Sinclair Lewis, per Bemporad, e poi Riso nero di Sherwood Anderson.
[2] Tuttavia, peculiarità di Pavese rispetto a Fenoglio è – come vedremo tra breve – quella di aver usato, ed in modo abbastanza massiccio, direttamente il piemontese nei suoi racconti, cosa che invece lo scrittore albese evita, limitandosi a lasciar cogliere il piemontese in filigrana nella sua prosa italiana.
[3] Nella collana “Nuovi Coralli” nr. 61 (tomo 1 e tomo 2; 1973). Le citazioni presenti in questo contributo sono riportate secondo le pagine di tale edizione, che raccoglie, nel primo volume, la silloge intitolata Ciau Masino… (5 poesie e 15 racconti, o meglio sorta di “capitoli” di un romanzo in nuce, scritti tra l’ottobre ’31 ed il febbraio ’32) ed i primi 10 testi dei Racconti; nel secondo volume troviamo i rimanenti 23 testi dei Racconti ed il romanzo incompiuto Fuoco grande (11 capitoli). Secondo l’edizione einaudiana dei “Nuovi Coralli” sono citate anche le pagine di Paesi tuoi (1974) e di Feria d’agosto (1974).
[4] Pavese, come molti dei suoi contemporanei, scriveva il piemontese secondo la cosiddetta grafia “virigliana” (o “del Birichin”, dal nome della più diffusa rivista piemontese della prima metà del secolo), che – oltre ad essere storicamente inadeguata – anche dal punto di vista grafico in vari casi rende di difficile interpretazione, se non quasi irriconoscibili, alcune parole piemontesi (per es. sôora; in Ospedale i, p. 85: it. “suora”). Pertanto, abbiamo trascritto tutte le citazioni seguendo la grafia “Pacotto-Viglongo”, oramai universalmente accettata in tutte le edizioni più attendibili (quelle, in pratica, curate dal Centro Studi Piemontesi di Torino) dei principali scrittori regionali.
[5] In particolare, anticipiamo che molto interessanti sono i termini che Pavese usa traendoli dal gergo furbesco torinese dell’epoca, gergo che, nato nell’ambiente della malavita, si era poi diffuso – almeno in parte – anche tra operai e studenti. Per quanto riguarda le definizioni e le analisi dei singoli vocaboli i riferimenti sono: Ël Neuv Gribàud-Dissionari piemontèis; Torino (Daniela Piazza ed.) 19962 e Aa. Vv., Repertorio Etimologico Piemontese (rep), coord. a cura di A. Cornagliotti; Torino (Centro Studi Piemontesi) 2015.
[6] Tali distinzioni, sia di carattere geografico che di tipo sociale, non si trovano in Fenoglio. Ciò accade sia perché egli non mette mai esplicitamente in contrapposizione il parlare cittadino-borghese con quello rustico-popolare (semmai la sua distinzione socio-culturale è tra la sana “barbarie” dell’Alta Langa e la esangue “civiltà” della Bassa Langa e della città di Alba) sia perché le sue posizioni ideologico-politiche di tipo liberaleggiante erano molto differenti rispetto al marxismo semi-ortodosso di Pavese, che tendeva a cogliere le differenze organiche di classe anche nel modo differente di parlare pur all’interno della stessa città di Torino.
[7] All’interno dei dialoghi contenuti in questa sequenza è evidentissima la voluta differenziazione tra la parlata rustica locale e quella cittadina (torinese): all’inizio del dialogo (p. 42) tra Masino ed il giovane suonatore di chitarra locale leggiamo, per di più, «ma sentì (scil. Masino) che il torinese stonava. L’altro fu svelto e gli parlò in torinese (il corsivo è dell’A.)»
[8] La differenza più evidente tra parlata langarola e torinese consiste nel “rotacismo”, cioè la trasformazione in “r” di molte “l”, sia interne che finali di parola.
[9] In questa sezione troviamo la citazione esplicita del termine “gergo” (p. 60: «Mi piacerebbe conoscere quelli che parlano il gergo, – aveva detto per caso Masino al vecchio amico studente») per intendere appunto la parlata torinese popolare con l’inserzione di termini del linguaggio di “barriera”, cioè a metà strada tra l’operaio ed il malavitoso; tale forma linguistica poco dopo (p. 62) verrà definita “a la viliaca”.
[10] Notiamo che in piemontese i verbi che iniziano con s- (< ex latina) non hanno, come invece in italiano, valore privativo o di allontanamento (espresso invece con il prefisso dës- < lat. de ex), ma intensivo.
[11] Come anche in italiano (cfr. per es. F. T. Marinetti, Manifesto del Futurismo) fino ad un certo momento il termine “automobile” era di genere maschile (sottintendendo “veicolo”); diverrà poi femminile sottintendendo “macchina”.
[12] Non dimentichiamo che il racconto è ambientato nelle Langhe e chi lo usa è locutore di campagna: quindi il termine non è di ambito torinese, parlata in cui troviamo invece la forma piolista.
[13] Nei romanzi successivi, in cui l’elemento piemontese è meno perspicuo, troviamo tuttavia un caso abbastanza evidente in Il compagno (1947, edito nel ’50), in cui, proprio alla prima riga, leggiamo la frase “Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra”, dove compare la forma tipicamente piemontese “mi dicevano” (am disìo), usata quando si vuole riportare appunto un soprannome o qualcosa di simile (es.: Gioann, ch’a-j diso Ross: “Giovanni, soprannominato Rosso”).
[14] Ricordiamo che in piemontese il suono della z sorda italiana (tz) non esiste, sostituito da quello della s sorda (es.: zoppo/sòp), mentre troviamo, seppur raramente, quella sonora (dz): zanziva (gengiva), zonzoné (ronzare).
[15] Un esempio concreto (valido per chi conosce Torino): il quartiere di Cenisia è “mezza barriera” tra il Centro e la barriera di Francia o quello delle Molinette tra San Salvario (che è centro) e la barriera di Nizza.
[16] Tale definizione è dovuta al fatto che un tempo dove la città finiva, e cominciavano i campi, sorgevano i “casotti” (le barriere) delle guardie daziarie (i bërlandin).
[17] Una notazione storica: la parola fòl (< lat. follem, “sacco vuoto”), insieme a fel (it. “fello, fellone”; < fr. ant. félon < lat. tardo fel(l)onem, forse dal lat. fel, “fiele”), sono due tra le testimonianze scritte più antiche di parole piemontesi, leggendosi nel mosaico detto “dei duellanti”, un tempo presente nella chiesa di S. Maria Maggiore di Vercelli (fine sec. xi/inizio sec. xii).