Una nota di lettura su «D'amuri e di raggia» di Anna Maria Bonfiglio

di Nicola Romano

A distanza di circa vent’anni dalla pubblicazione della sua plaquette intitolata «Spinnu», Anna Maria Bonfiglio – ritornando alla “pura fonte del linguaggio materno” (come ebbe a dire nei confronti della sua poesia in siciliano il poeta castelbuonese Giuseppe Mazzola Barreca) ha dato di recente alle stampe, con una brillante prefazione della poetessa Ester Monachino (prefazione molto incisiva ed eloquente che da sola potrebbe bastare a carpire e comprendere il nucleo tematico e lessicale di questa raccolta), una seconda raccolta di poesie che porta il titolo «D’amuri e di raggia», un titolo che nella sua accezione introduce quelli che sono i contrasti e le dualità del nostro vivere e delle nostre altalenanti pulsioni, e che senz’altro viene ad essere qui congruente (in maniera voluta o inconscia) con la metafora d’una Sicilia piena di contraddizioni, una terra che ci ha abituati a convivere con la gioia e la disperazione, con l’entusiasmo e con lo scoramento, con l’amarezza e, fortunatamente, anche con la speranza. 

L’insieme dei versi che ci porge la Bonfiglio, si contraddistingue soprattutto per la presenza d’immagini fortemente interiorizzate e mai sopra le righe, e rivestite da un linguaggio dialettale incisivo ed appropriato, una sorta di valore aggiunto se si pensa che il dialetto vuole appartenere alla precisa espressione del nostro mondo “privato”, e specificatamente alla sfera della nostra matrice identitaria. Da osservare che, se nella prima raccolta “Spinnu” la nostra Autrice aveva ritenuto opportuno inserire a margine d’ogni testo la traduzione di alcuni particolari vocaboli, in questa raccolta - pur non entrando nei meriti che da sempre risultano afferenti alla questione dialettale - tende soltanto a puntualizzare, nella sua breve premessa che è da considerare “tecnica”, di avere usato un dialetto aderente alla sua parlata originaria, “avendo cura – sono parole sue -di non trascurare l’aspetto ortografico e grammaticale, pur riducendo al necessario l’uso dei segni diacritici”. Questa, oltre ad essere una sua considerazione tecnica, è una precisazione – direi - ”professionale” che fa comprendere quella che è la sua ferma attenzione verso il dialetto siciliano e verso le sue antiche o attuali problematiche, anche se tale premessa alla fine sembra risultare ininfluente per quello che è il connotato  poetico in questione che, mettendo da parte qualsiasi concetto prettamente sintattico-grammaticale, aspira a voler comunicare con il lettore in un linguaggio che, come sappiamo, è un codice, un cifrario la cui decodificazione è affidata alla sensibilità e all’avvertenza di chi legge. D’altronde Anna Maria, come detto, ha sempre partecipato ai dibattiti sul nostro dialetto che, come i dialetti in genere e in barba ai detrattori, siamo sicuri che non moriranno mai: si possono italianizzare, si possono impoverire, si possono arricchire, anche perchè - come sappiamo – i dialetti (come la lingua italiana) nella loro imprevedibile dinamica interna ricevono e danno per quello che è il mutuo travaso linguistico durante l’uso verbale, se pensiamo che – nello specifico - il dialetto siciliano ha esportato ormai vocaboli a livello nazionale: sia una parolaccia che comincia con la “m”, che con i suoi iterativi viene ormai largamente usata in TV, nei film e nella parlata comune, e sia alcuni vocaboli come “picciuli” (citati perfino da Ilda Boccassini durante un processo a Milano) nonché i famigerati “pizzini” di recente conio. E non ultimo, il dialetto rimane – piaccia o no - sempre un fatto culturale, e che indiscutibilmente starà comunque a connotare proficuamente la nostra identità e la nostra tradizione. Ritornando al libro, sento di affermare, a seguito di una coinvolgente lettura, che siamo sicuramente in presenza d’una poesia di largo respiro e che si conferma squisitamente “autentica”, e che essa è figlia d’un percorso attento ed evoluto che ha condotto la Bonfiglio verso una gemmazione di toni ancora più sicuri e di colori nuovi in un contesto, per tanti versi, già maturo e ancor di più profondamente pensoso d’immagini.

L’arghi fannu lu lippu a la carina; la luna s’addummisci a la campia; li labbra s’assuppavanu di meli; ora lu tempu è cutra ca m’accupa… sono lacerti di endecasillabi altamente lirici che sicuramente s’insinuano nel solco emotivo e nella sensibilità di ognuno di noi, versi che conducono dentro luoghi o atmosfere di rarefatto coinvolgimento.

E quella dicotomia, quel contrasto che sembra annunciarsi nel titolo non trova poi corrispondenza nella trattazione delle due opposte condizioni d’animo, dal momento che parlando sia d’amuri che di raggia, la Bonfiglio sembra adottare degli uguali toni armonici, la stessa tensione di linguaggio, nonchè la stessa dolce fluidità espressiva che conferiscono allo spazio in cui è collocata l’intera raccolta, una sua oggettiva compiutezza poetica. D’altronde – come ebbe a dire Andrea Camilleri in una sua recente nota sulla nostra Autrice – “nella poesia di Anna Maria Bonfiglio c’è una perfetta adesione, in un certo senso gioiosa, alla vita, manifestando un equilibrio che le consente di non essere mai banale e mai allo stesso tempo ricercata”.

 

Dire tout court che la tematica di questo libro è intimistica, non darebbe l’idea di quelle che sono le variegate espressioni che spaziano tra le immancabili riflessioni sulla vita che qui, attraverso un linguaggio profondo e arioso, diventano condizioni in cui ognuno di noi può senz’altro immedesimarsi. Si trovano altresì pensieri riflessi in un’aura religiosa che, fra l'altro, la porta ad eseguire quasi una nuova rappresentazione del Padre Nostro e dell’Annunciazione    

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