“Sulla poesia” di Salvo Ales

      E. E. Cummings, romanziere, pittore, drammaturgo e soprattutto bizzarro poeta statunitense, ebbe pressappoco a dire, nella prima delle sue “ nonconferenze ” sulla poesia tenutesi all’Università di Harvard nel 1952, che in quel poco tempo di lettura di poesia avrebbe cercato di leggere soltanto poesia, così bene come lui non sapeva come. Se qualcuno avesse obiettato «ma perché non fare anche della critica», sarebbe ricorso a Rainer Maria Rilke, precisamente al suo Lettere a un Giovane Poeta:
      «Le opere d’arte sono di un’infinita solitudine; niente di peggio che la critica per avvicinarle. Solo l’amore può afferrarle, tenerle e giudicarle rettamente».
      Cummings concludeva che quel lapidario pensiero, tanto umile quanto solenne proprio perché riferito da un (altro) grande poeta, valeva tutta la sedicente critica d’arte che era mai esistita o mai sarebbe esistita.
      «Siate di diverso avviso quanto vi pare, ma non scordatele mai; se lo farete, avrete scordato il mistero che siete stati, il mistero che sarete, e il mistero che siete».
      La poesia, dunque, per natura si fonda sul mistero, e il suo “ significato ”, diverso per ogni individuo, è legittimo proprio perché vero per ognuno. Essa pare legata a una parola che non può smorzarsi, in quanto non dice, ma è. La poesia non è questa parola, è principio, ed essa resta sulla linea di partenza, ma raggiunge sempre il traguardo e si posiziona nuovamente per un nuovo slancio. Il poeta è consapevole di questa parola, che pronuncia imponendole il silenzio: così, la poesia è tale soltanto quando diviene confidenza, intimità di chi la scrive e di chi la legge.
      «Queste poesie sono per te e per me e non sono per i più - inutile pretendere che i più e noi ci assomigliamo. I più hanno con noi in comune meno della radicequadratadimenouno. Tu e io siamo esseri umani; i più sono degli snob», scrive ancora Cummings.
      Puro silenzio, dunque:
      «… a ognuno basterebbe forse, per scambiare la parola umana, prendere o mettere nella mano altrui il silenzio di una moneta…» afferma un altro grande poeta, Mallarmé.        Silente, pertanto, perché senza pregio, appunto muta, scambio in cui non si offre e non si riceve nulla, in cui non c’è niente di reale all’infuori del gesto, che non è niente. È ciò che avviene pure al poeta nel cercare la parola poetica, il linguaggio possente del suo non essere, l’evocare - con la sua mancanza - l’assenza di tutto: il linguaggio dell’immaginario, irreale che ci recapita al sogno, arriva al silenzio e al silenzio fa ritorno.
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