Sergio Corazzini, un sogno di bellezza che non muore

di Giuseppe La Russa

 

 

 

La conoscenza della propria malattia, la consapevolezza che essa lo avrebbe portato presto alla morte; una giovane vita, infatti, spezzata dalla tisi a soli ventuno anni: è qui che va ricercato il motore essenziale della poesia di Sergio Corazzini, poeta romano morto nel 1907.

Sono questi gli anni in cui Gabriele D’Annunzio proclama il mito del superuomo, la sua adesione panica alla natura (Alcyone è del 1903) raggiungibile soltanto in virtù del suo essere poeta, creatore e demiurgo, del suo essere vate.

Ma sono gli anni, allo stesso tempo, di una voce più sommessa, di un grido silenzioso alla vita, di una poesia dai toni meno eclatanti come quella ascrivibile alla tendenza crepuscolare cui anche Corazzini è riconducibile: tendenza che ritroviamo in autori ben noti come Govoni, Palazzeschi, Moretti.

Della tendenza crepuscolare – ampiamente studiata da Montale, con lasciti forti sulle sue raccolte – possiamo certamente distinguere situazioni ben definibili come, si diceva, il tono sommesso, la negazione del proprio status di poeta, l’accoglienza di oggetti spesso “dimenticati” dalla poesia maggiore e l’elenco spesso minuzioso di questi. Ora, l’adesione di Corazzini al ‘Crepuscolarismo’, date queste brevissime premesse, appare assolutamente naturale e dunque, come spiega bene il linguista e critico Pier Vincenzo Mengaldo, «il repertorio di oggetti e temi tipicamente crepuscolari che egli trapianta o istituisce (chiese abbandonate, ospedali, suore) perde in lui ogni consistenza oggettiva e per così dire ogni folclorismo, per divenire spazio e scenario di una piccola e iterata sacra rappresentazione dell’anima». In queste parole dobbiamo trovare l’iter da seguire per inquadrare Corazzini.

Le piccole cose, poi, trovano spazio nei famosi Poemetti in prosa, probabilmente tra gli apici della scrittura di Corazzini, in cui compare Il soliloquio delle cose, per l’appunto: in esso, con truce delicatezza, prendono voce proprio gli oggetti di una casa abbandonata: «Dicono le povere cose: oh soffochiamo d’ombra! Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più. Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del lungo corridoio in cui non si accoglie mai sole, come nel vano delle campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto finì. […] La casa dev’essere molto vasta. Udiamo a tratti delle voci lontanissime. […] Oh, la finestra, se si spalancasse e facesse entrare un poco di sole, un poco di vento! Oh, nulla è simile al cuore perduto come il sole che vuole entrare, e tutti i giorni domanda e tutte le sere, triste e bianco, smuore di rinunzia». Continuo è il vagheggiamento di una intromissione naturale che viene dall’esterno: cupo e silenzioso è il presente, ma alto è il desiderare e così l’afflizione nasce proprio da questo scarto da ciò che il presente rappresenta - e da quanto sia presago della morte – e la profondità di un cuore che aspira a somme altezze. Ecco allora che gli oggetti acquistano una dimensione simbolica fortissima, universale, il parallelo tra essi e il poeta è conclamato e non occorre nemmeno dimostrarlo, ecco perché il crepuscolarismo è la vera strada per dar sfogo allo spirito di Sergio Corazzini, come vedremo fra poco dalla citazione di un altro esemplare testo.

Accogliere i dettami della tendenza crepuscolare è dunque, per il poeta romano, un bisogno, un’urgenza vitale, un fuoco che brucia: ci troviamo di fronte ad un ragazzo malato che prova ad urlare il suo dolore, la sua sofferenza e la sua paura, ma quel grido esce fioco, ritirato, malato.

Si diceva di D’Annunzio e del paragone, per contrasto, che possiamo operare con Corazzini: nel poeta abruzzese è proclamato a gran voce l’essere un tutt’uno con la natura, l’essere natura, essere del mondo il sacro custode. Tutto ciò, è vero, in Corazzini non può esserci, perché la malattia, chiaramente, opera escludendo il giovane autore dalla pienezza vitale, ma lo sguardo corazziniano, aldilà di ogni nichilismo, sa essere grande, sa farsi vita, ma presuppone un’altra via.

Si prenda un testo, La finestra aperta sul mare. É una poesia tesa al passato, alla ripresa memoriale (come spesso avviene tra i crepuscolari) e viene riecheggiata proprio la finestra di una torre in mezzo al mare, ora abbandonata, ma dal passato felice: «Le antichissime sale morivano di noia: solamente l’eco delle gavotte, ballate in tempi lontani da piccole folli signore incipriate, le confortava un poco». La noia, la malattia, la solitudine e, in ultima analisi, il tempo concorrono al grigiore attuale con cui Corazzini fotografa quella torre e cui si sente inevitabilmente consanguineo. Davanti, in termini di tempo, la morte. Ma la speranzosa epifania si manifesta in chiusura di testo: «un giorno non vi fu più nulla intorno alla finestra. Allora qualche cosa tremò si spezzò nella torre e, quasi in un inginocchiarsi lento di rassegnazione davanti al grigio altare dell’aurora, la torre si donò al mare». Il donarsi al mare pone in essere dunque, seppur dopo la morte, la pienezza, la vitalità, la compartecipazione all’infinitezza naturale, la com-prensione del sacro. Si tratta di un omaggio totale (nel senso etimologico, da homo, il vocabolo presuppone un abbandono completo del proprio essere uomo) che il poeta fa al creato, il dono completo della propria essenza, la completezza panica che solo nella morte può espletarsi. Da qui si può notare come la morte stessa non può essere vista semplicemente come “nulla eterno”, come spazio vuoto, ma si trasforma nella vera strada per il completamento dell’essere: è una strada opposta, è chiaro, a quella tracciata da D’Annunzio, ma ciò che vogliamo porre in essere è la questione che Corazzini, lontano da un atteggiamento di totale negazione della realtà, sa essere profondo amante della bellezza proprio in virtù della sua malattia, sa affermare la vita: «O dolce mio amore,/confessa al viandante/che non abbiamo saputo morire/negandoci il frutto saporoso e l’acqua d’oro, come la luna.// E aggiungi che non morremo più/e che andremo per la vita/errando per sempre» (Cit. da La morte di Tantalo)

Ecco che, per seguire ancora le parole di Mengaldo, una torre abbandonata non ha nulla di bozzettistico, ma è simbolo, sacra rappresentazione, intima emergenza vitale.

Deriva da questa urgenza una delle peculiarità più forti e, forse, più belle della poesia corazziniana: la sincerità. Sempre lo stesso Mengaldo scrive come il poeta non sappia davvero guardare fuori di sé e ciò lo porta ad esibire un animo ancora ingenuo, da bambino: «vedi, la mia anima è nel mio cuore, il cuore è nella mia anima, e se dolore l’anima un poco sente, soffre un poco anche il cuore, bimbo, quietamente». Il proiettare la propria esistenza al passato, soprattutto agli anni della fanciullezza, è anch’esso bisogno estremo di una riappropriazione della totalità dell’essere, di una pienezza e autenticità che in Corazzini, evidentemente, è stata possibile solo in quegli anni. Si diceva come il recupero memoriale sia uno dei tratti peculiari della poesia crepuscolare, ma anche in questo caso, oltre ad essere operazione letteraria, è innanzitutto impellenza esistenziale dettata dalla propria condizione e diviene la questua continua e disperata di uno spiraglio, di un approdo felice.

In questo panorama che appare certamente desolante, dunque, che odora di malattia e di attesa della morte, non si può dire che la bellezza sia negata, come si anticipava. C’è bisogno, in Corazzini, di luce, serenità, pienezza, autenticità, di desiderio. I suoi sono gli occhi di chi sa di non poter pronunciare la parola ‘domani’, di chi sa che il futuro gli risulterà estraneo ed irraggiungibile, misterioso e silenzioso, ma allo stesso tempo il suo è uno spirito teso ad accogliere, a cantare una bellezza che è consustanziale all’essere e che lui guarda già, nel presente, con profonda nostalgia. Un testo davvero pregnante è Alla serenità, dalla raccolta Le aureole: «Io t’ò nel cuore e tu, o sole, mi scaldi/ e le cose non oggi allo sfacelo/ imminente rassegnansi: che cielo/, oggi! […] Tutto quel che fu mio, teneramente/, mette le foglie, mette i fiori, odora/». Se nell’immediato presente gli occhi del poeta, ormai, «si empiono di bare», il lascito è pieno di vita, risuona di desiderio, è tenera lucentezza: e se è vero che in ogni luogo il poeta ritrova «i perduti sogni di una mortale nostalgia», la sensazione è che Corazzini non faccia altro, in ogni suo testo, che gridare silenziosamente la propria vita, la propria debolezza, il proprio bisogno.

La malattia è presente ed è un dato di fatto, ma questa diventa latrice di uno sguardo profondo, rassegnato ma non nichilistico, si diceva, impaurito ma mai morto, di un sogno di bellezza che si assopisce, ma che non muore.

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