Profili da Medaglia/12 - "Augusto Del Noce" di Tommaso Romano

Di Augusto Del Noce si è scritto ab­bastanza fino ad oggi e con approfondi­menti sul pensiero anche di autentico spessore.

Tuttavia, Del Noce resta un convi­tato escluso dal dilu­vio minimalista e in­comprensibile dell’odierna filosofia. Ed è un bene.
Per non ripetere ciò che dalle enciclopedie (Treccani, ecc.) e sui media si può leggere, seppur sommariamente, riguardo alla vita e alle opere, mi permetto di rimandare ad un volume, da me ideato e curato insieme a Umberto Balistreri e Vito Mauro, Centodestre (ISSPE, Palermo, 2012) e quindi alle note che chiesi di scrivere a Guido Vignelli, che ha padronanza e dimestichezza, nonché buona capacità di sintesi, sull’opera e la figura del filosofo di Pistoia con ascendenze familiari siciliane e sabaude.
Va solo almeno ricordato che Del Noce nacque nel 1910 e morì a Roma nel 1989. Fu professore nelle Università di Trieste e Roma e pure senatore per la Democrazia Cristiana, vicino a Comunione e Liberazione. Scrisse molto per giornali e riviste e lasciò volumi e studi di alta qualità intellettuale e scientifica. Fra i suoi saggi ricorderò almeno L’epoca della secolarizzazione e Il suicidio della rivoluzione.
Del Noce è stato – come ancora a pieno titolo si può considerare – un grande pensatore cattolico, che ha avuto una parte fondante per molti studiosi, ma anche nella mia formazione e in parecchie delle convinzioni che ancora professo, riguardanti, in particolare: il processo e il “suicidio” della rivoluzione; il ruolo dei cattolici nel temporale (nodale è stata la sua relazione con comunione e liberazione, che pare sempre più dimenticare la lezione del Maestro); sulla crisi della scuola e dell’insegnamento (paradigmatico un suo straordinario intervento al Convegno internazionale della Fondazione Gioacchino Volpe, a Roma nel 1974, sede d’incontro per la nostra prima volta); sui valori tradizionali (importante un libro-dialogo con Ugo Spirito, edito da Rusconi negli anni Settanta); su Rosmini e sulla complessità del movimento modernista; sulla decadenza del primato della politica e della filosofia che si corrompeva e disintegrava; sulla crisi dell’istituto familiare; sul valore della vita e sulla dilagante pornografia; sulle interpretazioni della storia.
Da antifascista militante, qual era stato, non disdegnò tuttavia il convergente dialogo con la riva destra, anche per sereni, civili, costruttivi confronti e suggestive interpretazioni sul Fascismo.
Il suo incedere era lento, compassato; le sue riflessioni lunghe, articolate, con pause a volte bibliche, che distendevano alquanto, in misura di tempo, le sue conferenze e interventi.
Ne ricordo due in particolare: la consegna del Premio Eliade, che presiedevo a palermo, nell’Aula Magna di Giurisprudenza, nel 1987, e un intervento alla Domus Mariae per un convegno sulla pornografia, organizzato da Agostino Greggi e Raimondo Manzini, che durò ben tre ore, appena in tempo per raggiungere la vicina piazza San Pietro per la benedizione papale. Era, in quel momento, Senatore uscente della DC.
Tuttavia, è chiaro, Del Noce argomentava come pochi ed era originale in molte delle sue peculiari intuizioni che divennero, poi, sia riferimenti certi per molti studiosi sia materia di confronto con lo svolgersi della realtà politica italiana. Io stesso volli organizzare, nella sede della Provincia di cui ero Assessore alla Cultura e Vicepresidente, un Convegno di studi su Del Noce, con Rocco Buttiglione, che mi appare adesso, invece, un poco distante dal suo maestro.
Il Premio Eliade, nell’ambito dei Convegni Cristianesimo-Islam (la cui giuria, oltre a me, era composta da Gianni Allegra, Pierfranco Bruni, Dino Grammatico, Francesco Grisi, Alfio Inserra, Nino Muccioli, Giuseppe Rovella, Orazio Sbacchi, Orazio Tanelli, Vittorio Vettori, Lucio Zinna, Umberto Balistreri segretario), in quel 1987 ebbe due sedi di svolgimento: una appunto a Giurisprudenza, con il Premio assegnato a Del Noce, ed una nel Salone delle Conferenze di Thule, che risultò oggettivamente insufficiente per il grande concorso di partecipazione registrato al Convegno.
Del Noce, forse non eccessivamente attratto da quanto si dibatteva, si sedette nel salotto verde, anticamera di quella che allora era appunto una sala-conferenze a Thule, e volle a lungo parlarmi, con l’affettuosità gentile e il garbo che lo contraddistinguevano, sempre. Volle mettere a fuoco, da par suo, i caratteri nuovi dell’indifferentismo e dell’irreligione. Ritrovai queste riflessioni in un lucido e ampio articolo per “Il Sabato”, in un volumetto di vari autori, dal titolo La tregua di Assisi (n. 43 del 27 Ottobre 1986). Del Noce così scriveva allora: «Piuttosto che di ateismo, si ripete, si dovrebbe parlare di indifferenza. E si dice cosa giustissima, ma anche che abbisogna di essere interpretata. Indifferenza, secondo il giudizio corrente, è cosa meno grave di ateismo: quando si sta bene, si pensa poco a Dio; ci si pensa poco ma non lo si nega. Il gusto dei beni sensibili porta a un oblio provvisorio del pensiero di Dio che, col suo allungarsi nel tempo, prende l’aspetto di indifferenza. Ma l’indifferenza di oggi ha carattere del tutto diverso: significa che Dio non interessa. i problemi sociali, politici, morali, estetici possono essere risolti senza il minimo riferimento a Dio; fare intervenire Dio al loro riguardo è introdurre la dimensione ideologica, è “turbare la pace”. Non è questo in fondo anche il pensiero di molti cattolici impegnati nella politica? A essi pare che un progresso ci sia stato; all’ateismo virulento del pensiero rivoluzionario si è sostituita l’indifferenza. E qui lo sbaglio è completo. Ma c’è di più, nei caratteri dell’irreligione contemporanea. Si direbbe che l’ateismo percorra un circolo; dall’ateismo della fine del Rinascimento e dei secoli XVII e XVIII si era passati all’ateismo rivoluzionario; ora si è tornati all’ateismo del tipo libertino. Si prenda un qualsiasi libro – la letteratura è assai vasta – sul pensiero libertino del ‘600, da quello eretico a quello di costume, e ci si accorge che gli argomenti e il linguaggio della maggior parte della pubblicistica laica e della letteratura corrente ne sono la ripetizione; si è stupiti dalla quasi identità. Quasi, perché una differenza c’è ed è essenziale. Il libertinismo aristocratico di allora considerava la religione “buona per il popolo”; era una scuola di rassegnazione che lo teneva quieto. Nella dimensione odierna, nel diffuso benessere, il libertinismo è chiamato ad assolvere una funzione analoga a quella che una volta aveva la religione. Si direbbe che per una certa coscienza laica, diffusa e ad alto livello, democrazia abbia il significato di estensione del modo di pensare libertino alle masse».
Niente ho da aggiungere, se non sottolineare lo stupefacente volo d’aquila che Del Noce seppe così ben diagnosticare e che, dopo oltre trent’anni, assume il riflesso proprio di uno straordinario indicatore in un processo dissolutivo che attenta anche all’ordine naturale, alla ragione, alla morale, in profondità, e che, in sostanza, non risparmia nessuno, neppure la prassi e a volte la dottrina di sempre della Chiesa Cattolica.
Del Noce fu pure attivo nel Sindacato Libero Scrittori Italiani e molto seguiti e ascoltati furono i suoi interventi. Vi è una circostanza non lieta che mi ricollega a Del Noce e alla vita attiva del Sindacato: l’elezione del nuovo Presidente. Era il 1989. Dopo il canonico mandato, da una parte si schierò un gentiluomo anch’egli, quale fu certamente Vittorio Enzo Alfieri, sostenuto da Grisi, dai suoi e miei amici del Consiglio Nazionale. Dall’altra parte fu candidato Del Noce, apertamente e a gran voce patrocinato da un drappello anch’esso autorevole: Francesco Mercadante, Turi Vasile, Vittorio Vettori.
Fu un confronto aspro, fra amici anche miei, che affermarono due tendenze e ispirazioni diverse per il futuro del SLSI. vinse la proposta Grisi, con pochi voti di scarto. Mi dispiacque molto, comunque, e lo ammisi con sincerità, alla vigilia del pranzo, a Del Noce, il quale mi prese sottobraccio e mi ringraziò ugualmente, con fare tutto piemontese-toscano. stupito, gli chiesi il perché di quel ringraziamento; mi rispose che sarebbe stato un peso per lui, poiché la sua candidatura, contro i suoi desideri, era stata voluta da Mercadante (cosa che ribadì in suo scritto, poi pubblicato sul “Corriere” di Roma allo stesso Alfieri) e che non sopportava la burocrazia e il dovere organizzare le cose e che, tuttavia, sarebbe rimasto, come rimase, con noi. Era vero. Scrisse, infatti, ad Alfieri una nobilissima lettera (23 ottobre 1989), pubblicata sul “Corriere di Roma” di Peppino Gesualdi, segno di grande civiltà, stile e umanità. Del Noce, grande teorico e studioso, era autenticamente antipratico.
La cultura italiana soffre da decenni di oscuramento della propria memoria. Potremmo fare molti esempi (in questo stesso volume e nel primo di questa serie, come nei successivi, già ideati) illuminanti. La prova decisiva sta nella desertificazione intellettuale e morale, in gran parte dovuta a viltà del ceto culturale. Tutto questo e molto altro, Del Noce lo seppe anticipare con chiaroveggenza. Tuttavia, finché i libri non saranno bruciati o aboliti per volontà del leviatano, potremo tornare alle lucenti sorgenti del pensiero.
Potremmo così rimeditare anche Augusto Del Noce.
Va appena aggiunta una notizia: Del Noce è stato definito, come solo i miserabili della pseudocultura sanno fare in un programma della televisione di Stato, un filosofo “ateo”, testuale e senza possibilità di commenti, di equivoci o di sarcasmo. Eterogenesi della stupidità.
 

nella foto da sinistra: Tommaso Romano, Umberto Balistreri, Augusto Del Noce, Francesco Grisi, Vittorio Vettori

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