LE COLONIE GRECHE DELLA SICILIA: PROSPERITÀ E SPLENDORE DI AGRIGENTO – RICERCA STORICA DI GIOVANNI TERESI

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Benché politicamente divisi in piccoli Stati, e dispersi in colonie innumerevoli, i Greci sentirono fortemente l’unità spirituale della stirpe e si ritrovarono uniti ogni volta che un comune nemico minacciò le sorti dell’intero popolo. Come era naturale, questo sentimento si manifestava più vivo nelle colonie, dove, per la vicinanza degli stranieri, i Greci potevano veder meglio il contrasto fra due diverse civiltà ed essere fieri della loro. Per essi allora l’umanità era divisa in due grandi stirpi: da una parte gli Elleni, dall’altra parte i barbari, cioè i non elleni; i primi si riconoscevano fra loro facilmente per la comunanza di lingua, di religione, di costumi; gli altri si distinguevano subito perché erano dalla parlata inintelligibile.

A mano a mano che si faceva più viva tra i Greci la coscienza di questa loro unità spirituale, cominciava a prevalere, al di sopra delle antiche denominazioni di Achei, Eoli, Dori, Ioni, il comune nome di Elleni. Si chiamavano un tempo con tale nome gli abitanti dell’Ellade, piccola regione della Tessaglia; ma avendo costoro una parte prevalente nell’amministrazione del santuario di Apollo in Delfi, venerato da tutti i Greci come un santuario nazionale, a poco a poco il nome di Elleni si estese a tutto il popolo greco, ed Ellade fu chiamato il paese da essa abitato. E riconobbero un comune padre Elleno, il quale avrebbe avuto fra i suoi discendenti DoroEoloIono e Acheo, mitici capostipiti delle quattro stirpi greche.

La formazione di questa unità spirituale dell’Ellade è stata favorita soprattutto dalla religione, sostanzialmente identica in tutti i paesi greci, dallo sviluppo della civiltà, al quale contribuirono in vario modo, ma con indirizzo uniforme, le quattro stirpi, da certi usi politico-religiosi, come le associazioni pan-elleniche per l’amministrazione dei più celebri santuari, dette Anfizionìe, e finalmente dai giuochi pubblici (Olimpici, Istmici, Pitici e Nemei), ai quali interveniva con cordiale fraternità di entusiasmi tutta la bella gioventù dell’Ellade.

A quei tempi Agrigento godeva di una grande prosperità.

Nessuna regione della Sicilia aveva vigneti paragonabili a quelli del territorio agrigentino; né era facile vedere altrove uliveti tanto belli. Dei prodotti del suolo i cittadini esportavano gran parte a Cartagine; in compenso ricevevano molto argento, per cui divennero ricchissimi. Una prova di tale ricchezza sono i grandiosi monumenti costruiti in quei tempi ad Agrigento; monumenti più volte devastati nelle guerre successive, durante le quali la città è stata più volte presa ed incendiata.

Il tempio di Giove ha trecentoquaranta piedi di lunghezza, sessanta di larghezza, centoventi d’altezza; è il più grande rispetto agli altri templi della Sicilia ed il più bello dell’Ellade. Maestoso è pure l’Olimpio, grande edificio, cinto da colonne di venti piedi di circonferenza; le scanalature di esse possono contenere benissimo, nel cavo, un uomo.

Fuori della città si ammirava un lago artificiale, in cui si allevavano pesci d’ogni genere; sulle acque nuotavano maestosi cigni ed altri volatili tra i più rari, a diletto dei cittadini. Lussuosi erano i monumenti funebri fuori della città; ve ne erano di splendidi, dedicati perfino a cavalli che avevano vinto le corse più famose.

Poiché gli abitanti di Agrigento ebbero sempre in onore i giuochi, Esèneto di Agrigento, quando vinse i Giuochi olimpici, è stato introdotto in città su di un carro trionfale, seguito da trecento bighe, tutte tirate da cavalli bianchi.

Gli Agrigentini si erano abituati a una vita molto lussuosa, vestivano preziose stoffe, e nelle loro case tenevano  diversi vasi d’oro e d’argento. Il più ricco degli Agrigentini era allora Gèllia. Egli aveva il gusto dell’ospitalità, tanto che per i forestieri aveva fatto costruire appositi appartamenti nel suo palazzo, e davanti alla porta teneva dei servi per accoglierli. Molti cittadini finirono per imitare in questo il ricco Gèllia.

Si narra che una volta Gèllia ospitasse in casa sua ben cinquecento cavalieri, venuti da Gela, e a tutti distribuisse tuniche e mantelli. Erano famose le sue cantine che contenevano trecento botti. Questo Gèllia era però assai piccolo di statura e quasi deforme. Una volta è stato mandato come ambasciatore nella cittadina di Certuripe. Quando entrò nell’assemblea, suscitò ilarità e meraviglia, tanta era la sproporzione fra la fama del suo nome e la pochezza della sua persona. Ma egli ebbe lo spirito di rispondere ai sogghigni degli impertinenti: “ Vedo che vi meravigliate che sono piccolo e brutto: che volete? Gli Agrigentini hanno abitudine di mandare i cittadini più belli nelle città grandi e famose, mentre alle cittaduzze di poco conto riservano omiciattoli come me”.

Giovanni Teresi

 

 Bibliografia: Diodoro di Sicilia, Biblioteca storica, XVIII, 81 e segg. (riduzione)

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