"La scomparsa di Leone Piccioni: ha ristabilito la grandezza di Giuseppe Ungaretti. Una condivisione letteraria nel nome della poesia” di Pierfranco Bruni

Un critico, uno storico, un amico di antica data. Lunghe discussioni, negli anni fine Ottanta, sulla poesia del Novecento e la grandiosità di Giuseppe Ungaretti. Il nostro poeta dopo D’Annunzio, amato e criticato, non condiviso ma  e citato. Il 16 maggio del 2018 è morto Leone Piccioni. Un intellettuale, un critico letterario che ha attraversato tutto il Novecento letterario e che ha cercato di interpretare quel percorso all’interno di un processo identitario della poesia in cui il punto di riferimento rimane Giuseppe Ungaretti. Un poeta che si porta dietro il vissuto di un tempo lirico che è stato spazialità di una metrica e di una semantica che ha caratterizzato il Novecento.
La linea ungarettiana, come ha ben definito Piccioni, nasce all’interno di quella visione e di quello scavo letterario umano profondamente radicato in una ricerca “cromatica” della parola che ritroviamo anche ne La Pioggia nel pineto di Gabriele D’Annunzio. Secondo Piccioni, il legame tra il D’Annunzio alcyonico e Ungaretti diventa fondamentale. Una concezione che nasce all’interno di alcune visioni e interpretazioni di natura leopardiana, sebbene vengano mutuate da D’Annunzio, con La pioggia nel pineto, e recuperate in seguito dal verso ermetico di Ungaretti, serrato tra parole, segni e simboli.
Leone Piccioni non è stato solo un critico letterario, ma anche colui che ha saputo interpretare la parola ungarettiana attraverso il senso del dolore e della metafisica. Due aspetti fondamentali di un Novecento che fa capo a quella dimensione ermeneutica di Ungaretti che si contrappone al realismo pseudo-etico di Montale. Piccioni non amava particolarmente Montale, anche se la scuola di pensiero novecentesca si snoda attraverso due percorsi letterari ed esistenziali aventi proprio come punti di riferimento Montale e Ungaretti. In Montale non c’è religiosità, bensì una forzatura laica in cui vi resta quell’immaginario realista, a volte metaforico, ma mai metafisico. Ungaretti si contrappone a questa linea. In lui il realismo viene sopraffatto dalla profondità cristiana in un percorso che, prendendo le mosse dal Porto sepolto, attraversa il senso del dolore per poi chiudersi all’interno di un cerchio che è quello della terra promessa.
L’interpretazione poetica di Ungaretti diviene un’interpretazione in cui la religiosità si spoglia della teologia e diventa cristianità nel cui centro vi è il dialogo tra Dio e l’uomo. È fondamentale che questa visione venga rappresentata da un poeta che ha saputo interpretare anche il tema del viaggio e del Mediterraneo, perché se in Montale c’è la dimensione mediterranea che nasce in Liguria e diventa profondamente realista, rimanendo all’interno di quel contesto e di quella temperie che è prettamente regionalistica, in Ungaretti questo senso è molto più marcato in quanto è presente la religiosità.
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Ungaretti nasce ad Alessandria d’Egitto. Il Porto sepolto è la metafora del porto di Alessandria all’interno di una geografia che non è solo fisica, ma che diventa geografia dell’anima quale è la cultura mediterranea-egiziana. In Ungaretti il mondo egiziano è profondamente radicato non solo nella parola, ma anche nell’immaginario nel quale compaiono i modelli della desertificazione dell’anima. La solitudine in Ungaretti diventa la metafora del deserto da lui vissuto. Le acque dei fiumi egiziani caratterizzano la sua parola e il suo linguaggio e il porto sepolto non è altro che la metafora di una memoria che vive all’interno di una cultura e di una identità profondamente radicate nella geopolitica del Mediterraneo che diviene una vera e propria forma di ontologia dell’anima.
Ecco perché Ungaretti lavora spesso con la parola scavata nella metafisica che lo ha portato ad essere un punto di contatto con tutta quella poesia che ha rappresentato il modello lirico e il modello cristiano di una visione che è quella francese, spagnola e tedesca.
Ho avuto modo più volte di incontrare Leone insieme a Francesco Grisi. Presentammo un lavoro della Presidenza del Consiglio riguardante i saggi di Ungaretti nei quali campeggia la figura di Leopardi. Un testo diventato molto raro e pubblicato in una edizione elegantissima con una copertina bianca. Il rapporto con Ungaretti p stato sempre forte, nobile tra l’umano e il letterario.
Leone Piccioni ha scavato dentro questa visione. Ha scritto diversi libri all’interno di un percorso prettamente letterario. Fu molto vicino a un critico che ha saputo rappresentare la letteratura al di là del realismo. Mi riferisco a Giuseppe De Robertis, un grande critico della storia della letteratura, ma anche un grande storico che ha rappresentato il modello unitario di una letteratura che non è “spacchettamento” regionale, bensì continuità di una storia che diventa civiltà. La letteratura è modello di civiltà, un modello che è stato dentro la dimensione di ricerca e meta-storica di un vissuto che è il vissuto di una grande interpretazione alchemica.
Ungaretti e D’Annunzio sono autori che possono essere compresi soltanto se chi legge, o chi cerca di penetrare e compenetrare la loro parola, possiede una funzione e una formazione magico-alchemica. Il critico letterario cosiddetto “puro” non riuscirà mai a comprendere né D’Annunzio né Ungaretti. Ecco perché Leone Piccioni aveva come modello di studio l’alchimia della parola che ha reso la parola stessa un segno e un simbolo della magia.
Dentro Ungaretti vi è quella cultura, non solo ottocentesca, che darà vita al Futurismo. Se il Futurismo ha avuto spazio nei primi anni Venti del Novecento per poi andare oltre, lo si deve anche a persone che hanno saputo inventarsi una parola nuova. Da una parte D’Annunzio, che preannuncia una sperimentazione futurista vera e propria in tutti i sensi e in tutti gli approdi culturali ed esistenziali, e dall’altra Ungaretti che lavora fortemente sulla parola riuscendo a rivitalizzarla e a evadere da quello schema tipicamente ottocentesco. Montale è tardo ottocentesco. In Montale sono presenti schemi che portano a una forma relativa che è manzoniana. Aspetto, questo, che non si riscontra in Pascoli, altro grande innovatore e rivoluzionario dei linguaggi e della lingua stessa.
La linea che trova nel Novecento questi punti di contatto possiede un’eredità profonda e radicata nella complessità trecentesca di Petrarca. È Petrarca la radice ungarettiana, una radice della chiarezza ma, nello stesso tempo, di una concetto di assurdo che penetrerà non solo il senso della metafisica, ma anche il senso dell’esistenzialismo. Con Ungaretti nasce in poesia la visione esistenziale del tempo. Il “male di vivere” non appartiene a Montale, bensì a Pirandello, il quale ha saputo interpretarlo attraverso la metafora del Mal giocondo che diventa poi in Ungaretti la ferita che condurrà l’uomo a comprendere il porto dal quale si parte e il porto nel quale si arriva.
Ungaretti è riuscito a lasciare il suo porto, non vi ha fatto ritorno in termini fisici, ma è lì che la sua vita è rimasta soprattutto dopo la morte del figlio Antonello. Tutto ciò costituisce un cerchio dentro il quale Leone Piccioni ha saputo registrare il dolore e la tristezza, la profonda malinconia di un Ungaretti che ha saputo aprire il Novecento.
Tra i suoi testi vanno ricordati in modo particolare: Due saggi sulla poesia di Ungaretti, 1948, Lettura leopardiana e altri saggi, 1952, La narrativa italiana tra romanzo e racconti, 1959, Maestri e amici, 1969; la straordinaria: Vita di un poeta : Giuseppe Ungaretti, 1970, Maestri veri e maestri del nulla, 1979, Ungarettiana, 1980, Linea poetica dei canti leopardiani, 1988; e i profili importanti di alcuni poeti: Profili: Saba, Cardarelli, Ungaretti, Montale, Milano, 1995.
Leone Piccioni resta non solo un innovatore della poesia, da un punto di vista critico, ma il vero interprete di un Giuseppe Ungaretti che è dentro un Novecento ancora tutto da riconsiderare. Quando affronta in Ungaretti la tematica “del male di esistere”, non fa altro che creare una trasposizione tra simbologie e metafore, da “cerchio non chiuso”. Questo significa dare senso alla vitalità. Giuseppe De Robertis è stato maestro di Leone Piccioni e di Giuseppe Ungaretti, di conseguenza l’Ungaretti che ricorre a questa forma di lettura lirica ha come punto di riferimento lo stesso percorso in De Robertis che ha avuto Leone Piccioni. Il ritratto che si fa oggi di Piccioni è legato a questa dimensione onirica, esistenziale e tragica, ma anche ironica della vita nell’attraversamento della parola del linguaggio.
Leone Piccione è morto a 93 anni a Roma. Era nato il 9 maggio del 1925 a Torino. Una storia della letteratura che va scavata nella vita.
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