La ferita: segno rosso e terapia d’arte (attraversando la Sicilia) - di Vitaldo Conte

“La ferita: segno rosso e terapia d’arte (attraversando la Sicilia)”

 

di Vitaldo Conte

 

 

“Chi ama deve sentire eternamente la mancanza, deve tenere sempre aperte le ferite” (Novalis)

 

1. Il segno-ferita della Sicilia: natura storia e corpo sacro

I. “La Sicilia è terra di ‘ferite’ e follia, della natura e storia: il taglio d’acqua dello stretto che la divide dal continente (…), il taglio di fuoco delle bocche dei suoi crateri, il taglio delle sue memorie e contaminazioni culturali, il taglio drammatico delle sue storie e narrazioni (come nelle opere dei pupi), il taglio mutilante dei corpi delle sue sante patrone (Santa Agata, Santa Lucia)”: scrissi in SottoMissione d’Amore (2007)[1]. Nell’introduzione a una mostra di costumi dedicati a Santa Agata, a Catania (2007)[2], ricollegandomi alla seduzione della ferita sacra, concludevo il testo: “il rosso, caduto su un velo bianco, traccia i percorsi di una espressione e mistica che tendono ad espandersi con lo sguardo oltre… il tempo e le parole… oltre”. Il segno-ferita può essere dunque un viaggio verso un oltre del corpo stesso.

 

2. Il segno-ferita tra creazione e sciamanesimo

Il segreto della nostra interiore “crepa” può necessitare di un esteriore segno-ferita sul corpo per fuoriuscire. Questa motivazione profonda induce alcuni artisti a ricorrere al taglio-ferita come estrema lingua di espressione, che diviene una possibile teatralità di Live Art. È un’arte vitale, dunque, in tutte le sue immagini, pure in quelle più sconvenienti per le norme sociali.

Diversi autori, nelle vicende della Body Art dalla prima metà degli anni ’60 a oggi, hanno avvertito l’esigenza di attraversare, con il segno-ferita, la propria pelle, percorrendo personalissime e sofferte flagellazioni creative. Questo rosso, che sgorga da una ferita, può divenire colore e poetica d’arte: “Siamo tutti libri di sangue; in qualunque punto ci aprono siamo rossi” (C. Barker).

L’uso rituale del sangue nella performance art può essere comparato alla teoria del sacrificio di René Girard, in cui il taglio è visto nella duplice natura di violenza: dannosa o benefica. Può insudiciare o purificare nello stesso tempo, spingere gli uomini alla follia e morte, come pure placarli e farli rinascere. L’artista mette in scena il proprio sacrificio: l’evento eleva lo spazio e il tempo a uno svolgimento rituale. Questo sangue che emerge diviene nel contempo, come in un antico rito, segno di una perdita ma anche di un nuovo destino, simile a quello dei medici-guaritori dell’antichità che “doppiavano” le ferite per poterle esorcizzare e sanare con i loro stessi corpi.

Un segno-ferita può accrescere le possibilità creative dell’essere, poiché il dolore “è come la spina nel fianco che, tenendoci sempre svegli, ci costringe a guardare oltre la soglia dell’abitudine. Ma è pur vero che affinché ciò accada deve esserci un orizzonte di speranza: la promessa di un superamento” (A. Carotenuto).

 

3. Il segno-ferita tra creatività e patologia (2001)

La ferita, come segnatura creativa, è difficilmente separabile, per la propria intrinseca espressione, dalle motivazioni oscure e interiori dell’autore e dalle sue vicende esistenziali.

Il filo rosso del segno-ferita può divenire, in un evento, rito di consapevolezza, incarnando una espressione che esprime il proprio esorcismo emozionale: “Questa arte è costituzionalmente e vocazionalmente sciamanica. Le stesse produzioni e gli allestimenti di Conte, lo testimoniano. A muovere da quello realizzato a Messina” (G. Sessa).

Per approfondire questa tematica mi sono rapportato in un laboratorio-evento su Il corpo ferito a Messina (2001)[3], anche per omaggiare l’entrante primavera, con un gruppo di psicoterapeuti (tra cui lo psicanalista Matteo Allone) e con pazienti (affetti da anomalie mentali). Fra quest’ultimi c’era qualcuno praticante il segno-ferita sul proprio corpo come insopprimibile necessità. Un ex ospedale psichiatrico (come il Mandalari) con le sue memorie di internamento, si trasmutava, per qualche ora, in uno spazio d’arte. La ferita – da segno patologico – diveniva una possibilità espressiva, costituita da comportamenti, manualità creative e musiche.

L’evento, oltre a me, univa i terapeuti e i pazienti, gli artisti collaboratori (Stello Quartarone, Wolfango Telis) nella medesima sostanza pulsionale. Eravamo tutti vestiti con una tuta e una maschera, raffigurante il nostro altro volto. Ci sdraiammo su grandi fogli di carta bianca: la nostra sagoma veniva “delineata intorno” da un altro. Su questi fogli e sulle tute, alla fine dell’evento, tutti “segnavamo”, con il colore rosso, il segno-ferita. Questo, in una sorta di psicodramma (personale e collettivo), doppiava e apriva, catarticamente, le pulsioni della propria ferita: “confine tra la carne e i meandri dell’io subcosciente, espressione di un vissuto interiore fatto di pulsioni, di vicende esistenziali, di paure, di segreti inespressi” (I. Antonuccio, La Gazzetta del Sud). L’evento si concludeva con una danza collettiva che sembrava una celebrazione.

 

4. La ferita e la sindone (2001)

Il mio interesse sul segno-ferita ha avuto, nel 2001, una prosecuzione con la mostra La ferita e la sindone[4], a Siracusa, condivisa con l’artista Wolfango Telis, ricordando il ceroplasta Gaetano Giulio Zumbo (1656-1701). Il corpo “vuole divenire arte attraverso la scrittura o la ferita. (…) Su quella ‘carta’ l’artista scrive e produce la sua opera. (…) Vitaldo Conte si sofferma al continente Mediterraneo, dove ancora lo sciamano (nel suo segreto) continua a trastullarsi  nel contatto con il trascendente” (Crisostomo Lo Presti, La Gazzetta del Sud). La sindone stessa può divenire traccia/reliquia di una ferita immaginale: “Sul concetto di confine come ‘ferita’ lavora l’artista-scrittore romano Vitaldo Conte (…). Ma la ‘ferita’ allude anche alla ‘sindone’, alla traccia del corpo e della sua sparizione: la ferita è anche evocatrice dell’assenza, come confine che delimita la presenza” (Luciana Cataldo, Puglia d’Oggi).

 

5. Nel rosso rossore (2012)

Il segno rosso della ferita “emerge” sul bianco. Suggestione che ho vissuto Nel rosso rossore[5] (Roma 2012): titolo dell’evento inserito nel progetto Human Installations web tv di Kyrahm e Julius Kaiser. Il nostro filo conduttore consisteva in un rosso che poteva diventare sangue per entrare nel colore e nelle vestizioni del bianco. Nell’incontro presentavo il dvd Nel rosso rossore (2012)[6], realizzato con Vittorio Fava, che attraversava il nomadismo della mia iperscrittura pittorica e sonora (“rumore” fisico dell’immagine), interagente con gli interventi grafici di Fava: “Le lingue erranti della scrittura s’immergono nel ‘rosso rossore’ del desiderio sinestetico”. Il dvd riprendeva un super 8 mm realizzato nel 1984, poi, con modifiche, in video-cassetta VHS nel 1986. Nell’occasione dell’evento presentavo una mia esposizione di scrittura pittorica sulle seduzioni segniche del rosso in colloquio con il bianco. “Disegni privi di cornice, scribble dall’aspetto apparentemente non curato come certi ricordi sbiaditi che riconosciamo come appartenenti ad un’altra fase della nostra vita. Conte ci restituisce su carta il segno-ferita nostalgico della poetica di Gina Pane, il pensiero per immagini” (Kyrahm, 2012).

 

6. La ferita nella narrazione terapeutica e come rigenerazione  

Scrivere sulla ferita può divenire una narrazione terapeutica. È stato rilevato infatti, in uno studio di psicosomatica, che scrivere aiuta a curare la ferita, non solo in chiave metaforica. La sua trascrizione accelera la guarigione e favorisce la cicatrizzazione del taglio. Ho verificato l’interesse verso questo argomento anche attraverso la richiesta di tesi di diverse mie allieve (Accademia di Belle Arti di Catania e Roma), percorrendo argomenti di Storia dell’Arte Contemporanea e di Arte per la Terapia.

Non so se sia stata una coincidenza il fatto che io abbia “guardato” la tematica della ferita come estremo linguaggio, in altri due eventi a Roma, in un giorno di marzo vicino all’equinozio di primavera: introducendo la manifestazione Nella mia ferita sgorga il tuo sangue (2014)[7]; nell’intervento al convegno Territori Contaminati (2015)[8]. Forse auspicavo un segno-ferita che diventasse una possibile rigenerazione.

 

 

[1] V. Conte, SottoMissione d’Amore, Rosa Rossa /3, Il Raggio Verde Ed., Lecce 2007.

[2] V. Conte, AgataSantaArte: il velo e il corpo ferito come desiderio del sacro, in Agata “Amore Mio” (mostra a c. di M.L. Nigro), Cappella Bonajuto, Catania 2007. Catalogo (Accademia di Belle Arti di Catania).  

[3] V. Conte, Il corpo ferito (laboratorio-evento), Cittadella della Salute (area L. Mandalari), Messina 21 marzo 2001.

[4] V. Conte / W. Telis, La ferita e la sindone (mostra), Il camino, Siracusa settembre 2001. Catalogo (Ed. Genia Group, Siracusa).

[5] V. Conte, Rossore nel bianco (video-proiezione e mostra), Mitreo Arte Contemporanea, 13 aprile Roma 2012.

[6] V. Conte – V. Fava, Nel rosso rossore (iperscrittura), dvd, Avanguardia 21, Roma 2012.

[7] V. Conte, introduzione a Nella mia ferita sgorga il tuo sangue (manifestazione a c. di I. Palomba), Caffè Letterario, Roma 30 marzo 2014.

[8] V. Conte, Scrivere la ferita come arte… (intervento), in Territori Contaminati (convegno a c. di L. Reghini di Pontremoli), Aula Magna, Accademia di Belle Arti di Roma, 26 marzo 2015.  

 

 

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