“L'Italia dell'arte venduta” (di Fabio Isman) - Il mulino | Recensione di Giuseppe Massari

Fabio Isman è l’autore de “L’Italia dell’arte venduta”, per il Mulino. Un viaggio a ritroso nel tempo,  per porre l’attenzione sul fenomeno fin troppo trascurato del trafugamento e della fuga del nostro patrimonio artistico ammirabile oggi soprattutto oltremanica e oltreoceano o quando parte di esso, singolarmente, torna in Italia, in prestito, per alcune mostre. Scrive Isman nella sua premessa al testo: “A poco vale consolarsi con il tantissimo che ci è rimasto, se non si riflette sul moltissimo che è sparito”.  Le ragioni di queste “fughe”, di queste distruzioni, dilapidazioni sono  documentate attraverso la storia di alcune tra le più potenti famiglie nobili italiane, pronte a disfarsi dei loro capolavori per debiti di gioco, per strategie di governo, di potere o interessi politici; per lasciti e testamenti anticipati o per armare  truppe pontificie. Quindi, con la complicità diretta o indiretta della Chiesa. Quello che più conta evidenziare è ciò che scrive lo stesso autore: “Con quanto si è dileguato dai nostri lidi, si potrebbero costruire non uno,  ma dozzine di musei di straordinaria importanza: quelli della nostra cattiva coscienza”. I riflettori della ricerca, ovviamente, non sono stati puntati solo sulle opere d’arte, ma anche su molti altri capolavori, in ordine sparso e riferiti al patrimonio archeologico, i cui reperti, nella maggior parte dei casi, provenienti da scavi clandestini vengono destinati o immessi sui mercati internazionali di “raffinati cultori”; sugli oggetti di ceramica, sui libri di pregevole  valore e interesse storico. A quest’opera “distruttrice”, non hanno mancato di assestare il colpo mortale, tutti gli antiquari, italiani e stranieri, “affamati” , disposti a tutto, pur di raggiungere lo scopo, con mezzi non sempre leciti, e venire in possesso di quello che ritenevano utile e importante ai loro interessi economici ed esclusivamente  venali. Un lavoro certosino, quello di Isman, destinato a suscitare scalpore, nel momento in cui ha messo il dito  in una piaga da considerare ancora sanguinante  e dolorante, quale, appunto, il campo dell’arte e della cultura italiana. Che fu sinonimo, certo di potere, ma di opulenza, mecenatismo, sensibilità, gusto.Come dimenticare che l’Italia, un tempo, fu ricca, collezionista, maestra, detentrice di bellezze, di capolavori; esportatrice invidiata e, oggi, saccheggiata da inglesi, francesi e collezionisti senza scrupoli, provenienti da ogni angolo del mondo, non escluso quello della clandestinità? La conclusione amara, ma non disperata dell’autore, è racchiusa nelle pagine conclusive della introduzione alla lettura dell’interessante libro, corredato, tra l’altro, di molte delle opere trattate, e inserite a metà libro. “Soltanto da poco cominciamo a realizzare l’entità e la portata del danno che è avvenuto. E descrivere queste vicende, per esempi e  attraverso i casi più eclatanti, senza pretese di completezza (peraltro, forse impossibili9 né di scientificità (e ci mancherebbe), può soltanto accrescere la conoscenza di quanto è capitato nel nostro Paese. Di ciò che un giorno ha posseduto e non conserva più; e di come è migrato. Il che, comunque, è già qualcosa: specie quando troppi si riempiono la bocca con il tantissimo che è rimasto, ed è vero, senza però riflettere minimamente al moltissimo che è invece sparito”.

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