L’estetica della poesia araba moderna nell’ambiente del mediterraneo

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                                                                   Mohammed Bennis

 

Mohammed Bennis, nato a Fès nel 1948, [1] poeta, scrittore e docente di lingua araba all’Università di Rabat, è uno dei nomi di più alto profilo della poesia araba contemporanea. Di lui, ha scritto il poeta e saggista francese Bernard Noël:

 « Bennis ha creato un’opera che, grazie alla ricerca paziente della sua propria precisione (justesse), è diventata esemplare nell’ambito della lingua araba. Quel che essa rappresenta è un avvenire, ed è proprio ciò che la rende fondatrice » [2].

Nella dimensione globale del nostro tempo, è necessario, secondo Bennis, ripartire dai punti di vista delle diverse prospettive per leggere la realtà e riconsiderare il passato svincolato da condizionamenti e rigide categorie. Il poeta è, in tal senso, capace di andare oltre la visione che normalmente, come scrive Francesca Corrao, « sfugge alla vista. Bennis sostiene che il messaggio poetico ha un alto valore umanitario » (Corrao in Bennis 2009, p. X).

« La mia appartenenza al Mediterraneo è appartenenza al viaggio », [3] è sufficiente leggere questa frase per entrare immediatamente nella poesia e nel pensiero di Mohammed.

A partire dal concetto di scrittura, il nostro dà importanza alla sua propria costruzione del ritmo. Si tratta di creare un lirismo dinamico, che pone il corpo e il sentire al centro della poesia. A riguardo scrive:

«La costruzione della poesia, lavorata dall’infinito della soggettività, dallo straniero e dall’impuro, subisce dei mutamenti imprevedibili. È così che la parola poetica, scritta in margine alla letteratura, non cessa di destabilizzare la sintassi, di disorientare l’immagine, di scomporre la metrica e di deformare l’ordine sedicente pulito, puro. Il cammino della poesia è quello dell’impuro, dove visione e invisibile si coniugano. Questo passaggio del seme dell’ebbrezza si concretizza nella poesia. Ed ecco l’impuro portare, d’ora in avanti, il segno del puro, del bello e dell’ignoto.».

È così che la poesia dà alla parola, nel momento in cui la cultura del consumo, delle disinformazioni e le distruzioni dell’umano trionfano, «non ciò che esprime, ma ciò che crea a me e a te, una nascita rinnovata, creazione umana, infinita, della parola».

 

La caduta del mare

Luce

su luce

scenderanno le uve

dagli antichi germogli

in una danza che si estende all’estremo sud del mare

accompagnata da un soffio anticipatore di morti.

Qui

nulla

ruba la sua traccia solare

il declivio di polvere

si nasconde di roccia

in roccia

in acqua

e questo orizzonte intento nel rito del silenzio

o dei primi uccelli luminosi.

In direzione del mare la traccia dei piedi segna l’oblio

forse solo la luce ricorda

chi venne un giorno

guidato dai tatuaggi

per liberare le onde dall’esilio delle tempeste

forse la luce cancellerà il resto

e la mia via sarà questo mare

dimenticherò

che ho preparato il latte con i datteri

per la tribù degli antenati

ho preparato l’hennè

e le tombe ho cosparso di incenso

dimenticherò

che per la grazia dei palpiti veglio

un luogo limitato da traversate di luce

e dormo

delle arterie

lieto

davanti ai loro mari.

Attizza i profumi, oh polvere

e tu l’illuminato nelle mie cellule

risvegliati palma

cinta dai quattro punti cardinali

dalla catarsi

tutto questo oceano fiorisce nei miei istanti

pioggia che irradia sino all’eccelso

panna che spande in parti eguali i tremiti di ieri

queste gemme si ammantano

dei raggi dell’arcobaleno

e la macchia sommersa minaccia il mio corpo

A quale giaciglio ho abbandonato il mio respiro

elargirò  alle quiete il tremito degli occhi

e alle mani

lascerò la quiete

della luce

un paesaggio verso l’essenza della scrittura

l’onda dell’Atlantico

trabocca

oscura

sul mio corpo.                                       (Il luogo pagano, Dâr Tûbqâl, Casablanca, 1992)

 

La poesia, per Bennis, accompagna e guida, con estasi, i solitari nella sete della loro partenza senza fine verso il bello e il libero. Il poeta può restare fedele a questo obiettivo solo se si impegna nella ricerca di un certo pensiero, di un’idea che nella poesia: «È la resistenza di fronte all’abbandono della lingua.». Una poesia che tende a conservare la parola, la nostra parola, la sua possibilità di continuare a vivere in noi e tra di noi.

Per questo, egli non smette di ricordare l’essenziale nella poesia, e cioè la necessità di essere l’emergenza di voci pure, che vegliano sull’ignoto, e scrive:

«Questa è la parola che fa durare la parola, umana, lingua dell’infinito e dell’ignoto. Che significa interazione del soffio tra il poeta e gli altri nel e con il mondo.».

 

 Campane

 Campane suonano nella stanza del mio silenzio

una schiera di soli

erranti

come me

campi

accerchiano i teatri

del senso della vita e dell’esistenza.

Erano palme quelle campane

specchi lustrati da un bimbo

nella sua quiete

nei pressi

dell’onda.

Preparati, bambino,

semina la prima ombra gravida dei carri dell’erranza

fiamma fissata nelle forme del silenzio.

Bianco orizzonte è questa notte

un paese crea la mia foresta

si eleva.

Né l’Oriente mendica

né l’Occidente è volto di macchine o tirannide reale

ed io accolgo il dettato delle palme

le campane

alla porta del mio tempo

diventano

conversione del soffio

A volte mi vedo: navi

venti

della sete primigena

mi insinuo tra le mie membra

uno spettro di luce

mi copre di un abito di polvere

Nelle tenebre della terra

le campane si mischiano

a una spiga di sofferenza?

 

Nelle campane le foglie del mondo sono trasparenti.

(Habat al farağ – La ventata del vuoto – Dâr Tûbqâl, Casablanca, 1992)

Una poetica della scrittura per la modernizzazione e della lingua e della poesia araba è descritta da Jamel Eddine Bencheikh nel modo seguente:

«Bennis sfrutta tutte le risorse della sua lingua. Varia i ritmi, gioca con gli intervalli e le disposizioni strofiche, dà alla sua poesia, sulla pagina bianca, delle forme che traducono il movimento delle significazioni (…) Ma sempre la visione si approfondisce alla ricerca di speranza.».

 

Dubbi

Per questi dubbi

che ci illuminano

Per questi esili

che tra loro

si intrecciano

Noi riveliamo il colore

della traccia

e le seminiamo

pellicani

la seminiamo

onde

o pietra.                                 (Habat al-farağ, p. 7)

 

Il poeta Claude Esteban decifra nella poetica di Mohammed   :

« … che conosce le melodie crepuscolari, se ne allontana risolutamente, vuole, come Rimbaud, che il liquore nobile dia ai “lavoratori”, in verità a quelli che penano e avanzano, e la forza e la pace; che mescoli i soffi, illumini e scorra; che ci siano dappertutto delle perle, dei gioielli, ossia un universo senza ombre, senza interdetti, senza demoni nascosti.»

Nel testo Il Mediterraneo e la Parala Bennis fa una esplicita dichiarazione di principi e d’intenti, che colpisce per la sua bruciante attualità.

«La storia della cultura mediterranea non solo prevede lo scambio, ma gli assegna una funzione di creazione. E in questo scambio creativo colgo ciò che perpetua l’essenza del Mediterraneo in quanto dimora comune. Storia latente. È questa storia della cultura che ci chiama a valorizzare la nostra dimora, in un tempo in cui l’atteggiamento di chiusura è dominante. Ogni volta che lo spirito poetico sembra compromesso, le lettere, le arti, le dottrine filosofiche, mistiche e scientifiche mi conducono verso un Mediterraneo di ospitalità».

Ripercorrendo la propria vita, l’autore propone nuove prospettive con le quali guardare e considerare lo spazio mediterraneo; uno spazio aperto che ha alle spalle una storia fatta di scambi e di incontri. Una storia, quella della colonizzazione e dell’incontro/scontro tra due culture così distanti tra loro che ha maturato in lui la consapevolezza e la forza d’animo di voler difendere la sua appartenenza alla cultura mediterranea.

 

Erranza

Ogni volta
che fraternizza con una steppa
la sua clemenza giunge copiosa
è chiamato a una soglia di luce
da una schiera di steppe
Ogni volta
che nel blu fissa
il suo fiore
nell’intangibile germogliano
altri fiori
Lui
ondeggia incantato
dalla luce che scende
su voci
che occultano altre voci
che non hanno radici
in
una gola
che si disseta al sogno di un soffio
A volte
celebra l’ignoto
altre volte
non
torna

Mohammed Bennis: “Il dono del vuoto”, traduzione di Fawzi Al Delmi, Edizioni San Marco dei Giustiziani, Genova, 2001).

Testamento

Ciò che rimane
del canto di coloro che arrivano sono frammenti
nei balbettii di quelli che partono
prendete
dai nomi
la cancellazione del cielo di ogni legge
passata
dagli anelli delle mie porte
qui un tatuaggio
là una danza
che ha svelato
le mie peregrinazioni
prendete un volto disperso
nel suo deserto
prendetelo
perché celebri il silenzio
la sua risata gioiosa
il breve
schiamazzo
aizzato dal severo
passaggio
dell’origine della lontana aurora


(Mohammed Bennis: “Il dono del vuoto”,  traduzione di Fawzi Al Delmi, Edizioni San Marco dei Giustiziani, Genova, 2001).

 

Il Mediterraneo di Bennis è una dimora comune a una pluralità di popoli e culture, è libertà, ospitalità, è condivisione; per ciò si fa carico di un compito arduo quanto importante: difendere questa dimora comune, e lo fa attraverso le sue parole, capaci di dare un nuovo significato all’idea di Mediterraneo. Vestendo gli abiti di un profeta, né cristiano, né musulmano, ma Mediterraneo, il nostro esalta il valore della concordia, della fraternità e della generosità contro ogni fanatismo occidentale quanto orientale, accecati dalla logica del disaccordo e dagli interessi.

Allo scambio tra le culture lo scrittore marocchino dà una funzione creativa ed è proprio in questa creatività che egli coglie l’essenza del Mediterraneo come dimora comune.

Solo la dimensione creativa dell’immaginazione poetica può ospitare quel sentimento di apertura alla diversità e di accoglienza dell’altro/straniero. Ed è proprio la poesia che gli consente di parlare. Già il titolo di quest’opera crea un legame che per lo scrittore sembra essere indissolubile, Mediterraneo e Parola, ma anche Mediterraneo è Parola, una parola che è viaggio, e l’appartenenza stessa al Mediterraneo è appartenenza al viaggio, a uno spazio/movimento che è apertura verso l’altro. Il linguaggio diventa, quindi, il luogo privilegiato dell’incontro tra le culture, quella barca che non carica corpi distrutti dall’orrore, ma la speranza di una convivenza civile e pacifica. E il viaggio e la poesia diventano il movimento azzurro dell’intercultura, aperto all’ignoto e all’infinito.

Il Mediterraneo e la parola, attraverso la fusione del sé e degli altri, diventa, dunque, una vera e propria lezione di tolleranza e ospitalità.

 

qui non c’è straniero
siamo fratelli, tutti
venuti a celebrare la pura acqua [4]

Desiderio

Se avessi ora ciò che non è mio
una lingua
per scoprire l’aria
un passo
che avanza nella sua propria voce
e ritorna a me
carico
della discesa del cielo
una direzione
attendo in piena quiete il momento
dell’accendersi della pulsazione
tra
un crollo di cupole
e un principio che i poeti ereditano
Se avessi
ora ciò che non
ho
finirei davanti ad un baluardo
che è mio
fatto della polvere della sera

(Mohammed Bennis: “Il dono del vuoto”, traduzione di Fawzi Al Delmi, Edizioni San Marco dei Giustiziani, Genova, 2001).

 

E poiché la poesia è canto, scrittura del canto, quest’ultimo non è soltanto un fondersi e un sovrapporsi di voci, ma, appunto, quel soffio leggero e quel respiro – emersi dal nulla – che, attraverso il suono, scandiscono le vibrazioni ritmiche del silenzio.

Cavalcando egli stesso il «movimento azzurro», Bennis giunge a definire, così, la sua poesia come quella che ha sempre «accolto gioiosamente lo straniero nella sua lingua e nella sua cultura, […] nel rispetto delle leggi dell’ospitalità». [5]

La scrittura diffida della dualità della poesia in versi e del poema in prosa. Il grado di implicazione del corpo nella prosa di Bennis non è inferiore a quello della sua poesia. Non c’è differenza tra poesia e prosa, nella sua scrittura, se non per la specificità delle forme che il poeta rispetta. La costruzione del testo si appoggia, nei due casi, su un’unità aperta, con delle frontiere sconosciute, che vengono dall’avvenire. E nel principio ritmico, visuale e acustico, di questa costruzione, si sviluppa un desiderio ardente di inventare altrettanti sistemi personali, non comuni. È ciò che scopriamo, per esempio, sia nelle sue raccolte sia nei suoi testi in prosa che si intitolano Chataha’t Li’montassafi Annahar (Trance per mezzogiorno), Al O’ubour il’a dhifaf Zarka’e (Traversata verso rive azzurre) o Kalam al- Jassad (Parole del corpo).

Nel suo Libro dell’amore si rivolge a noi con un misto di audacia e di sgomento estasiato, di cui rendono conto i versi con i quali termina la raccolta:

 

Io, Ibn Hazm,

nella tua amicizia e nel tuo amore

t’ho accompagnato

ma un altro cammina con noi

non ho temuto che la solitudine partecipe

sia il mio ultimo rifugio

essa m’offre lume e gazzella

in questo tempo di violenza

non mio.                                        (Mohammed Bennis – Libro dell’amore)

 

Le poesie della raccolta corrono, precipitano e si dissolvono nella memoria di chi le scopre, in un effluvio di immagini semplici, come disegni oscuri che svaniscono aprendo le palpebre, visioni sospese in un momento di smarrimento e di fusione che si afferma o si nega, un’alleanza che si spezza anziché durare. Dove la lettura esita, l’immagine insiste.

Bennis spiega che Il libro dell’amore è un omaggio al Collare della colomba di Ibn Hazm ed è un crocevia di testi d’amore, ricchi di citazioni della poesia e della tradizione pre-islamica, che il lettore arabo sarà subito in grado di riconoscere.

Già in epigrafe si parla della donna beduina pre-islamica:

Celato per non essere osservato/Apparente/per non essere celato/è latente/come il fuoco nella pietra/s’accende per frizione/e sparisce per distrazione/se non fosse una punta di follia/sarebbe quintessenza di magia/”.

Sono le poesie più brevi il punto di forza di Bennis: simili ad aforismi enigmatici e cruciali, fuori da qualsiasi regia, rasentano una misteriosa morbosità. Come in questi  suoi versi:

 

Il mio cielo

e sotto i cieli che inveiscono:

Cielo di spada

cielo di t’offro secondo il tuo desio

cielo di dire

cielo di chi non ha cielo

cielo di quiete

cielo d’ecco per loro

il mio cielo

cielo del legame.                           (Mohammed Bennis – Poesie brevi)

 

In un suo intervento al Convegno: “L’estetica nella poesia del Mediterraneo” – Mazara del Vallo, Maggio 1999, Bennis, riguardo l’estetica della poesia araba moderna nell’ambiente del Mediterraneo, afferma:

« La poesia araba meraviglia per la forza innovativa e per la visione universalista che la rende mediterranea per eccellenza. Essa non è più vincolata dalle idee che l’hanno dominata per un certo periodo, quali la relazione fra il sé e l’altro, l’identità, la purezza di origine. Queste tematiche sono oggi superate dalle esigenze intrinseche della poesia. Le problematiche che emergono in questi tempi sono diverse, eppure la critica non riesce a comprenderle.

Chi segue il percorso della poesia araba osserva che i suoi confini geografici sono più estesi di quelli del mondo arabo, poiché l’esilio è uno delle sue caratteristiche fondamentali: poeti arabi vivono, da diversi decenni, nei paesi della riva settentrionale del Mediterraneo, in Europa del Nord e in America. La geografia non è neutra e influisce nella elaborazione di un nuovo modello estetico; la conoscenza del movimento lirico mondiale e delle sue problematiche ha trasmesso alla esperienza di alcuni poeti arabi una prospettiva universale. La “questione” supera la conoscenza enciclopedica: la poesia araba appartiene al mondo.

Il poeta arabo non affronta problematiche del tutto differenti da quelle trattate dai poeti di altre nazionalità, anche se hanno storie e valori diversi ».

Nella filosofia antica occidentale l’antitesi del reale e dell’ideale e la ricerca per l’identificazione del bello e del vero hanno impedito, per tutto il medioevo, il formarsi di un metodo di critica estetica nel senso in cui lo si intende oggi. Lo steso è avvenuto per la poesia araba; solo intorno al X secolo Qudâma si poneva il problema della distinzione della buona poesia dalla cattiva. Sebbene Aristotele avesse già concepito l’arte come rappresentazione dell’universale e del possibile, trattando il problema estetico con particolare riferimento alla tragedia, sarebbe passato molto tempo prima che questo assunto venisse recepito dalla nostra cultura. Presso i dotti arabi, il pensiero dello stagirita fu male interpretato; il che provocò un susseguirsi di fraintendimenti cui si è posto fine solo con le traduzioni del secolo scorso. Gran parte dell’equivoco nasceva dalla cattiva traduzione di termini, quali tragedia e commedia, ma soprattutto dalla mancata conoscenza del mondo arabo dei versi cui Aristotele faceva riferimento nel formulare le sue teorie.

In riferimento alla relazione di Bennis al menzionato Convegno “L’estetica nella poesia del Mediterraneo”,  lui a tal proposito spiega:

« Avicenna nel definire la poesia scrive: – un discorso procedente per immagini composto di stichi metrici, equivalentesi, e presso gli arabi rimati -.

All’arabo sfuggiva che lo spirito aristotelico tendeva a liberare la poesia dalle necessità metriche. L’equivoca interpretazione di Averroè testimonia, tuttavia, l’interesse degli intellettuali arabi per la cultura greca e lo stimolo che questo ha rappresentato per la promozione delle traduzioni tra i dotti musulmani. Pari tensione si riscontra tra i maestri delle nostre scuole di pensiero medievali. Da noi, però, nel tempo, è prevalsa la tendenza a cancellare l’origine della fonte del sapere; per i musulmani invece restava essenziale il desiderio di confrontare e accogliere quella parte del pensiero che era a loro comprensibile dell’altrui poetica nell’intento di riconoscere le leggi universali, comuni a tutti i popoli, o almeno ai più fra essi. Se per liberare la poesia dalle necessità metriche la poesia occidentale ha lungamente atteso, quella araba la ha elaborata soltanto lo scorso secolo, ma ancora oggi l’Accademia araba stenta ad accoglierlo.

La poesia dal verso libero si è affermata nonostante le difficoltà opposte dalla cultura tradizionale, e così anche la poesia in prosa e la dialettale, anche se ancora oggi persistono tendenze di pensiero che le considerano espressione di una corrente occidentalizzante, fondamentalmente estranea alla vera poesia araba caratterizzata dal rigido metro quantitativo. Il rigoroso rispetto dei canoni estetici imposti dai critici arabi, nella struttura, nella forma, ma anche nell’uso della lingua non ha tuttavia impedito il fiorire di creazioni poetiche originali ».

[1] Mohammed Bennis, nato a Fès nel 1948, editore, scrittore e docente di lingua araba all’Università di Rabat, è presidente della Casa della poesia a Casablanca dove cura incontri e convegni internazionali di poesia. È uno dei massimi rappresentanti dell’avanguardia artistica marocchina, autore di numerosi saggi critici in sostegno dell’innovazione e della sperimentazione in poesia. È autore di numerose raccolte poetiche di cui si ricordano: Un volto Incandescente Oltre L’Espansione del Tempo (1974), La Stagione dell’Oriente (1996), La ventata del vuoto (1992), Il luogo pagano (1996), e di numerosi studi critici sulla letteratura araba: La poesia araba moderna, struttura e innovazione, e di traduzioni. Le sue opere sono state tradotte in francese e spagnolo, la raccolta Homage du vide  ha vinto il premio internazionale per la migliore traduzione in Spagna (2000). Ultime sue pubblicazioni in arabo sono : Hounaka tabk’a (Là tu resti – poesie 2007),

Kalamou l-jassad (Parole del corpo – prose 2010) e Sab’atou touyour) (Sette uccelli – poesie 2011).

È attivo, inoltre, come prosatore, come saggista, come traduttore dal francese, nonché come promotore di iniziative culturali, quali, ad esempio, la fondazione di una rivista «La Nuova Cultura», della casa editrice (Toubkal di Casablanca) e della «Casa marocchina della Poesia». Non va poi dimenticato che è in risposta a un suo appello se l’Unesco ha proclamato il 21 marzo «Giornata mondiale della Poesia».

Le sue produzioni letterarie in francese riguardano: una traduzione di Bernard Noël, in collaborazione con l’autore, della sua raccolta Le Livre de l’amour, (Edizioni Al Manar a Parigi) pubblicata con disegni di Dia Azzawi nel gennaio 2008; una traduzione della sua raccolta Feuille de la splendeur di Mounir Serhani, rivista da Bernard Noël in collaborazione con l’autore edita per Cadastre8zéro in Francia; e L’obscur dans les mots, una raccolta di poesie in comune con Bernard Noël, con i disegni di Joël Leik, per le Edizioni Al Manar – Parigi nel 2011; in italiano: Il Mediterraneo e la parola. Viaggio, poesia, ospitalità, a cura di Francesca Corrao e Maria Donzelli, Saggine ( Donzelli editoreRoma2009); in turco, şarap, Türkçesi Metin Findikçi, Kirmizi Yayinlari (Istanbul, 2009); e in spagnolo: Un río entre dos funerales (poemas), traducción de Luis Miguel Cañada ( Icaria editorial, Barcelona, 2010).

[2] B. Noël, Je suis lautre, prefazione a M. Bennis, Le don du vide (1992), tr. fr. di B. Noël, L’Escampette, Bordeaux 1999, p. 11. F. Corrao, Classicismo e libertà in Mohammed Bennis, in «Oriente Moderno», 1997, n. 2-3, pp. 223-9, lo ha definito, invece, come la «punta di diamante dell’avanguardia letteraria del Marocco» (p. 223).

[3] Bennis, Il Mediterraneo e la Parola. Viaggio, Poesia, Ospitalità – Donzelli, Roma 2009, 27

[4] M. Bennis, Canto per il giardino dellacqua.

[5] Il Mediterraneo e la Parola – p. 39.

 

                                                                Giovanni Teresi

 

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