“L'ermetico come segreto inespugnabile della poesia” di Giuseppe Modica

Si scrive sempre per dire qualcosa a qualcuno. Per se stessi - come amava osservare Umberto Eco - si scrive solo la lista della spesa. Perciò la poesia appartiene all'autore solo nell'atto della sua gestazione. Allorché nasce, essa è già del suo potenziale fruitore. Del resto le e-mozioni - ossia le tonalità profonde del poiein -, se non si versano, restano mere pulsioni interne dell’anima, graffi privati, dolente gioco di specchi. Soltanto se si versano diventano pro-mozioni, pulsioni che si donano, graffi consonanti, giochi felici di specularità.

Tuttavia la poesia non va spiegata, giacché ognuno la dispiega a suo modo, vivendola dall'interno e secondo il proprio stato d'animo, la propria Stimmung. Anzi, ogni componimento poetico è portatore di un metasignificato, di un senso che trascende continuamente se stesso nelle spire di una diversità emotiva che appartiene sia all'autore sia al fruitore.

Perciò la poesia custodisce sempre un non detto: non un sottinteso che si possa appiattire e consumare in una esplicitazione totale, ma un implicito inesauribile, che è il secretum stesso del dire poetico. Da questo punto di vista, se l'ermetismo è l'arte di esprimere l'inesprimibile, di comunicare l'incomunicabile, e, dunque, la celebrazione di un paradosso, l'ermetico può dirsi il segreto inespugnabile della poesia. E il paradosso non è un non senso, ma, al contrario, ciò che dà senso alla struttura stessa della ragione nella misura in cui ne segna i limiti costitutivi e la tendenziale tracotanza. Anzi, come amava dire Ungaretti, la poesia è poesia quando porta in sé un segreto. Il che accade anche per le poesie più semplici, giacché è l'ambiguità della parola, il suo essere ancipite, e talvolta persino polifacetica, a conferire al verso un'impronta di oscurità. D'altronde, “verso”, a differenza di “prosa” (da “pro-versus”, rivolto in avanti), deriva da vertere, significa cioè “voltare”, divergere, cambiare direzione, ciò che, di per sé, evoca la sorpresa, il senso dell'inatteso custodito nell'accapo, quasi che dietro l'angolo possa sempre nascondersi l'imprevedibile. 

Per non dire, poi, che l'abitazione del poeta è la “privazione” del luogo: non la “mancanza” del luogo - che è propria dei puri spiriti - né l'identità col luogo - che è proprio della bestia -, bensì un luogo di cui si è privi. E se la mancanza è l'assenza di ciò che per sua natura non “può” essere, la privazione è l'assenza di ciò che per sua natura “dovrebbe” essere e non è, e che, come tale, custodisce la sofferenza del distacco, la vertigine dello spaesamento, lo smarrimento della dislocazione. Per il poeta, l'atopicità è insieme fonte di affanno e condizione del furore creativo, e, quindi, il segno d'una contraddizione vitale, di un ossimoro non retorico ma esistenziale, per il quale il travaglio poietico può espellere il suo frutto nella misura in cui i termini dell'opposizione non si risolvono in una composizione irenica e pacificatrice - come avviene per un parto in carne e ossa -, ma accompagnano l'anima lungo l'intero percorso della sua vita interiore.

 

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