L’autobiografia di Alfieri e la “vocazione al desiderio”

di Giuseppe La Russa

 

Titanismo, esasperato individualismo, forte considerazione di sé che lo ha portato allo scontro con tutto e tutti, in particolare con il «vil secolo» a lui contemporaneo: sono questi i termini che connotano meglio, secondo la critica, il personaggio di Vittorio Alfieri, lo scrittore natio di Asti. Risulta chiaro, come hanno messo in luce i “lettori” dell’autore del Saul come Sapegno, Vitilio Masiello, lo stesso De Sanctis nella sua storia della letteratura, che questo forte egocentrismo di Alfieri nasce e si alimenta alla luce della situazione storico-culturale che vede la prorompente “avanzata” del secolo dei lumi, il cosiddetto dispotismo illuminato di Maria Teresa D’Austria e Giuseppe II, l’assolutismo francese figlio di Luigi XIV e che porterà, con i suoi successori, alla rivoluzione del 1789. Ora, se è assolutamente vero e fondamentale proiettare l’opera e il carattere di un qualsiasi autore all’interno del momento storico in cui esso si esprime, è altrettanto vero dare ascolto agli intimi sussulti dell’animo, quelli che muovono la penna, quelli che portano uno scrittore ad annotare ogni “spirare” del proprio cuore: e certamente un affondo e una lettura di una autobiografia non può tralasciare termini come passione, sentimento e non può dimenticare quella parte irrazionale che ogni essere umano porta inevitabilmente con sé. E Vittorio Alfieri fu questo, sintesi, anche se a tratti caotica e frenetica, di queste due spinte, illuministiche e razionali da un lato, spirituali e, forse, “preromantiche” dall’altro; ma aldilà di ogni costrizione ideologica, di genere e di costume, vogliamo qui provare a sentire proprio quegli istinti (utilizziamo non a caso il termine che è caro proprio ad Alfieri) che hanno portato l’autore del Saul a raccontare la sua vita.

Partiamo da un sonetto, Tardi or me punge del Saper la brama, di cui riportiamo la seconda quartina:

Nulla di quanto l’uom scienza chiama

per gli orecchi mai giunto erami al core:

ira, vendetta, libertade, amore

sonava io sol, come chi freme ed ama.

 

Da una semplicissima analisi lessicale dei termini riportati al terzo verso della quartina, si denota la presenza prorompente di una dimensione del tutto estranea al “secolo dei lumi”, al di fuori di una prospettiva materialista. Il secolo figlio di Newton e di Galileo, certamente presente nella formazione del giovane Alfieri, qui appare se non negato, perlomeno messo da parte per offrire spazio all’esplorazione di uno spazio recondito del proprio animo. Ora, e questo è il nodo del nostro discorso, non ci pare possibile ridurre al solo influsso del secolo e della storia letteraria il conflitto che abbiamo appena mostrato in Vittorio Alfieri. Francesco De Sanctis, di cui utilizzeremo più avanti una bellissima espressione sul nostro scrittore, nell’introduzione ai suoi saggi critici, si rivolge ai suoi ragazzi dicendo: «Voi volete essere avvocati, ingegneri, provvedere senza stenti alla vostra vita materiale? Bene, ne avete il diritto. Ma oltre ai vostri bisogni fisici in voi c’è il cuore, la fantasia, l’immaginazione, c’è la letteratura che è amore per tutto ciò che c’è di nobile e bello, qualcosa che non è separato da voi, ma intrinseco a voi».

Vittorio Alfieri, potremmo dire a questo punto, fa della letteratura lo strumento per dare sfogo alle sue pulsioni, ma ci pare più corretto dire che è Vittorio Alfieri lo strumento della letteratura, docile corda alla chitarra del verso. E se Alfieri è ira, vendetta, libertà e amore, lo è per impulsi che nascono in seno alla sua persona, alla sua personalissima vicenda di uomo e che poi si va ad inserire in un contesto storico bene definito. Si tratta di una impostazione diversa da quella classicamente storicista, poiché qui l’influsso della storia sull’uomo lo stiamo considerando secondario (in senso temporale e qualitativo). Si prenda l’inizio della Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso: se nell’introduzione alla stessa l’autore afferma di servire il nobile e il bello ( si ricordino le parole di De Sanctis riportate poc’anzi e si capirà a fondo il perché abbiamo definito Alfieri docile strumento della letteratura), nella prima parte così scrive: «Il nascere agiato mi fece e libero e puro; né mi lasciò servire ad altri che al vero». Dunque, la parola Libertà (volutamente in maiuscolo), è inscritta sin dalla nascita nel cuore di Vittorio Alfieri, nasce con lui ed è l’orizzonte presso il quale va assolutamente letta la sua opera, la sua vocazione poetica e, solamente a questo questo punto, il suo incontro-scontro con il tempo storico a lui contemporaneo.

Un aspetto che certamente balza agli occhi alla lettura della biografia di Alfieri – aspetto sul quale l’autore punta frequentemente il dito – è quella continua ansia, quella perpetua ricerca di afferrare l’inafferrabile cui il giovane Vittorio dà sfogo con il viaggiare; ecco che allora utilizziamo quella bella espressione di De Sanctis, presente nella sua Storia della letteratura, che avevamo preannunciato: «Se Alfieri fosse stato un cavallo, quel suo correre l’avrebbe contentato, come contenta moltissimi, che pur si chiamino uomini. Ma si sentiva uomo, e stava tristo e annoiato, e non sapeva perché. Il perché era questo, che, nato gagliardissimo di pensiero di affetto, non aveva trovato ancora un centro, intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltà». Appare, credo, evidente, come questa oltremodo espressiva descrizione dello stato d’animo alfieriano sia da porre al centro della natura umana, perché gira intorno a quello che è il nucleo più profondo della nostra esistenza, ossia il desiderio. Non esiste, sarebbe un controsenso in termini, uomo senza desiderio: ecco, leggere l’autobiografia di Vittorio Alfieri ci mette di fronte al significato della ricerca di un desiderio smisurato, pone ogni singolo davanti al proprio personalissimo desiderio, spinge ogni singolo respiro verso un centro ordinatore, verso il possesso della vita reale.

A proposito verrebbe in aiuto un passo molto bello tratto da I Pensieri leopardiani. Fermo restando che la figura di Vittorio Alfieri fu assolutamente presente al poeta di Recanati, quest’ultimo ha certamente come cardine del suo pensiero il concetto di piacere, ma utilizza spessissimo nelle sue trattazioni il termine ‘noia’, che abbiamo trovato nella sua forma verbale ‘annoiato’ nella descrizione sopra riportata di De Sanctis. Leggiamo un breve stralcio e da qui trarremo delle essenziali considerazioni: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani. Considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose di insufficienza e di nullità, e patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana».

Aldilà del fatto che questo è uno spaccato che getta luce sulla sconfinatezza dell’animo di Leopardi (ma questo è un discorso che meriterebbe in altra sede altri doverosi approfondimenti), qui è il termine desiderio che viene prepotentemente alla ribalta: Leopardi, e così Alfieri, cercano una vita all’altezza del loro desiderio e la loro noia, la loro irrequietezza sono dovuti proprio a quello spazio insondabile che sta tra la realtà tangibile e il desiderio stesso. L’appagamento e la realizzazione vitale stanno proprio nel riempimento di quello spazio. Questo è un dato di fatto, ma vero solo in parte, perché forse è già nella ricerca stessa, nella frenetica ansia di approdo che sta il significato di queste righe.

Alfieri mostra quest’animo sin da piccolo, quando, scrive in una delle prime pagine, «quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale»; poco avanti racconta come un giorno si mise a strappare dell’erba dalla terra, «malgrado il sapore ostico ed amarissimo; eppure seguendo un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui mi era ignota la fonte, mi spinsi avidamente a mangiare di quell’erba».

Un animo inquieto e “ruggente” sin dai primi anni, dunque. Quel continuo viaggiare, quasi senza meta, ne è l’esempio più lampante; nella sua autobiografia Alfieri lamenta, però, come nei primi anni gli mancasse la capacità di trasporre in rima le sue agitazioni, e lo fa in uno splendido passo: «Disgrazia mia che io in quel tempo non avessi nessunissimo mezzo di stendere in versi i miei diversi pensieri ed affetti: ché in quelle solitudini avrei versato un diluvio di rime. […] allora io mi contentava di ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che se non sono poi seguitate da nessuno scritto, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano poesia, e lo sono».

Ed è proprio qui, nella poesia e attraverso la poesia che Alfieri riesce a darsi un centro ordinatore, consegue l’agognata vocazione: il termine ‘vocazione, poi, non è affatto azzardato, perché l’autobiografia dello scrittore di Asti sembra proprio ripercorrere le tappe religiose di una conversione. Si leggano, ora, alcuni passi in cui l’autore afferma di voler riprendere in mano un abbozzo di tragedia, Antonio e Cleopatra: «Venne poi dunque quel giorno, in cui, fra quelle mie smanie e solitudine quasi che continua, buttandovi gli occhi su, ed allora soltanto quasi come un lampo insortami la somiglianza del mio stato di cuore con quello di Antonio, dissi fra me stesso: “Va proseguita quest’impresa; rifarla, se non può star così; ma in somma sviluppare in questa tragedia gli affetti che mi divorano, e farla recitare questa primavera dai comici che ci verranno”. Appena mi entrò questa idea, ch’io (quasiché vi avessi ritrovata la mia guarigione), cominciai a schiccherar fogli, rappezzare, rimutare, proseguire, ricominciare. […] Io mi andava pure davvero infiammando a poco a poco del per me nuovo bellissimo ed altissimo amore di gloria. […] Da quella fatal sera in poi, mi entrò in ogni vena un sì fatto bollore e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma teatrale, che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità assalito».

Così Alfieri, da quel momento, ha obbedito, è divenuto strumento della letteratura, suo arrendevole utensile. Alfieri sta proprio lì, in quella stessa obbedienza che fa da discrimine, secondo Davide Rondoni, tra Dante e i suoi predecessori: Dante ebbe la sensazione che qualcosa di grande gli stava dinanzi. Forse l’ebbe anche Guinizzelli. Ma Dante ha obbedito e da lì venne fuori la sua vastità d’animo e di lettere. Alfieri ha obbedito a quella vocazione, a quel qualcosa di grande che gli stava dinanzi, perché, come dice Carlo Bo, «la letteratura ad un certo punto deve cadere in noi come un destino insuperabile, alle cui domande non si può più mancare». E la lettura dell’autobiografia di Alfieri è quella domanda cui deve tendere il nostro personalissimo desiderio.

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