Giampiero Mughini, "Che profumo quei libri. La biblioteca ideale di un figlio del Novecento" (Ed. Bompiani)

di Tommaso Romano

 

Giampiero Mughini è cresciuto e vive con il profumo dei libri. Li cerca, li ama, li accarezza con la certezza di trovare tracce ulteriori, risposte, enigmi nuovi da porsi o risolvere.

Non è solo un lettore onnivoro e curioso, è un bibliofilo che ha raccontato in libri diversi le sue manie e passioni collezionistiche come pochi.

Una scrittura viva, “sugosa” come definisce quelle che ama di altri scrittori e artisti, inconfondibile nello stile, senza l’ombra di falsi moralismi da strapazzo e con l’uso della lingua italiana, sempre calibratissima ed elegante.

Autore noto anche al grande pubblico televisivo, a volte irritante per gli abatini pudichi, Mughini è autentico fuori classe, capace di scrivere - dopo la militanza in movimenti estremi e la collaborazione a giornali di punta - un libro come Compagni, addio, che certo non gli ha donato simpatie in quel settore politico-culturale di sua provenienza. Ventisei volumi, quelli di Mughini, letti da chi scrive quasi tutti con fervore partecipato, fino a quest’ultimo Che profumo quei libri. La biblioteca ideale di un figlio del Novecento (Bompiani, Milano,2018), che non delude le attese, anzi.

Apparentemente può apparire un libro dei libri conservati (sì, perché è igienico privarsi, regalandoli a una biblioteca di libri che non ci piacciono), ma crestomazia di titoli nodali per l’Autore e forse non sempre per il lettore. Impressione superficiale ed errata.

Il libro di Mughini è un’autobiografia intellettuale, di passaggi, rotture, umori, di memorie di intellettuali. Non è una Bibbia, ma un libro di furori e amori, di parte, la sua. Una sfida al digitale, a internet (che pure, come noi, Mughini usa), convinto della impari lotta, eppure determinato a combattere solitario, come un cavaliere errante, questa guerra a favore delle “Creature di carta”, contro la superficialità, scrive: “pochi ed esili come sono sulle pagine che vi apprestate a leggere tutti loro vanno alla carica contro il fuoco battente dell’artiglieria digitale, contro quell’esercito unitissimo che a forza di click e di paginate eruttate fulminee dal vostro tablet o dal vostro computer, e per giunta gratis, fa il bello e il cattivo tempo del mondo della comunicazione odierna. Il mondo di Facebook e Instagram, un’armata digitale che non è usa “fare prigionieri”. Distruggono e uccidono. Hanno distrutto l’industria discografica, pure talmente vitale nei sessanta e settanta. Hanno distrutto e stanno distruggendo la fotografia analogica e i fotografi che la praticavano, le aziende editoriali che pubblicano quotidiani e settimanali di carta, noi giornalisti che sullo scrivere quei giornali ci campavamo”.

L’elogio del libro di carta è l’amore totale di Mughini per ciò che ci “costruiva e decostruiva”, per ciò che ci “poteva cambiare la vita”. Libro oggetto sacro insomma.

    Le pagine di Mughini scorrono a scovare dalle propria biblioteca libri rari, con e senza autografi, prime edizioni e non, d’artista e artigianali, le cui emozioni tattili sono pari a quelle culturali.  

   Nella Top One di Mughini ecco Pascoli con Myricae, nell’edizione livornese del 1891 di Raffaello Giusti, a seguire Svevo e De Roberto, Pirandello del Fu Mattia Pascal (con una nota di lettura difficilmente eguagliabile), Moravia e il Malaparte di Kaputt, Scerbanenco e Fenoglio.

   Grande l’ammirazione per Giuseppe Prezzolini e poi, alla “rinfusa”, come li classifica lo stesso Autore, ecco Salvemini, Rosselli, Gramsci e poi libri del geniale Fortunato Depero, il Brancati de I Fascisti invecchiano (1946), di Silone, Fortini, Sciascia ed altri. Non pochi i volumi e volumoni, o i semplici cataloghi di poche pagine, di artisti contemporanei e di avvenimenti novecenteschi, anche quelli tra le due guerre.

   Non si trascurano i marginali e non si mettono fra parentesi per snobismo, i nomi determinanti e così troviamo Burri e Mulas, Celant, Salvatti e Sottsass. Due capitoli ripropongono per titoli esemplari il Settantasette e dintorni (che Mughini ha praticato, non solo da osservatore) e l’eros fotografico e letterario, senza mai scivolare nel retorico e nel frivolo e con notazioni utilissime atte a ricostruire il secondo dopoguerra italiano, anche attraverso la storia raccontata da giornali, fogli e riviste, spesso edite in pochi numeri e copie.

   La condanna di violenza e terrorismo, di qualunque colore e latitudine, sono sempre chiarissimi, pure decretando giustamente l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, da porte di un commando militare di Lotta Continua.

   Grafica e fotografia, design e biografie essenziali di destini, successi e insuccessi, si rincorrono e ci inchiodano alla lettura febbrile e inesausta di queste belle pagine di Mughini.

Che ci regala, alla fine, in punta di piedi, un profilo di Bobi Bazlen e Umberto Saba, con la gemma ulteriore di un mucchietto di lettere inedite - strepitose, come la vita di Bazlen così ben scritta di Cristina Battocletti in un volume a lui dedicato edito da La Nave di Teseo -  di Bazlen e Anita Pittoni, ambedue triestini, il primo superiore lettore e scopritore di geni letterari, la seconda (sua amica) fondatrice e animatrice della casa editrice Lo Zibaldone.

   Non dimenticando che il vero ispiratore e cofondatore di Adelphi, fu proprio lo stesso Bazlen.

   Restano le pagine impresse e le molte fotografie che sono anch’esse parte essenziale, non corredo, di questo libro, che ci consegna, ancora, un Mughini esigente, colto e umanissimo.

 

 

 

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