Giacomo Bongiovanni & Giuseppe Vaccaro la bottega Gia-Giu

Giuseppe Vaccaro, Sciara

Arte povera la scultura, un pezzo di legno da scorticare col coltello, una pietra scheggiata per scalfirne un’altra, metamorfosi da inutili scarti a operette d’arte, creatività divina nell’impastare creta per tirarne fuori l‘uomo addormentato di Wiligelmo, un soffio nelle nari e oplà il fantoccio s’anima, dinoccola le braccia, le gambette malferme, chissà se Adamo si reggeva su due piedi o camminava gattoni. La Venere di Willendorf è una gnometta obesa, forse incinta, con due tettone da pin up ruspante, la faccia fasciata da treccine burka, non si doveva riconoscer la modella, magari era la compagna dello scultore autodidatta, immortalata su un ciottolino di roccia calcarea  di 11 cm, un passatempo nell’otium dalla caccia, un portafortuna napoletano, ante litteram, per rendere fertile la mamma terra.

La strada dell’argilla è comunque più complessa, per fare un vaso meglio inventare il tornio, ma non basta, bisogna cuocere l’impasto essiccato, raggiungendo temperature dai 600° fino ai 1000° C circa. La ceramica è documento fittile affonda giù, giù fino al Neolitico aspettando che i Sumeri creassero la scrittura per raccontare la loro storia, lì fu la svolta, perché la più grande invenzione dell’uomo non è lo smart phone di Apple ma il linguaggio.

Caltagirone viene dall’arabo Qal’at al Ghiran, Rocca dei Vasi, siamo nel IX sec. d.C. ma l’arte della Keramos era praticata da sempre con una tradizione aristocratica per la qualità dei manufatti fino a quel 11 gennaio 1693 quando un terremoto rase la città della terracotta.

«[…] Due furono i Terremoti horrendi in queste parti l‟anno 1693. à 9. Gennaro ad hore cinque in circa della notte seguente, che dessolò quasi tutti gli edificij di Campagna, fra quali correa vn gran numero di altissime, e robustissime Torri, & altri Casamenti di mezzana altezza; demolì in gran parte la Città di Catanea, & altre Città, e Terre di questo Val di Noto,[…]

L‟altro fù alli 11. del medesimo Gennaro ad hore 21. in circa, questo fù stupendo oltre la considerazione umana, di durata in circa quattro minuti con fieri dibattimenti, e di tanto risalto, che non era possibile mantenerli chiunque in piedi acceppato con le piante in vn’medesimo luogo senza far moto, e chi si buttò a Terra con tutto il corpo, fù portato dalle scosse da vn luogo all’altro, strisciando il Terreno, [...]

(Frà Paolo Boccone, frate Silvio (1633-1704) botanico italiano)

Col ‘700 l’arte ceramica calatina tornò a rifiorire sulle macerie, anzi fu questo il secolo della sua autentica esplosione perché l’argilla pervase ogni manufatto cittadino, fosse pubblico, di culto, privato. Gli artigiani lavoravano a stretto contatto con gli architetti del barocco, fornivano manufatti a tema floreale o antropomorfo, vasi lisci o a rilievi, rivestimenti per facciate e interni di chiese (  S. Pietro, SS. Salvatore, S. Domenico ), belvederi ( il balcone Ventimiglia ), Discesa del Collegio Gesuitico, teatri, palazzi, villini. La terracotta si sprigionava ovunque, dai pavimenti, alle alzate delle scale, ai rivestimento dei servizi e dei balconi, all’oggettistica d’arredo, vasellame, candelieri, lampadari, lucerne, manici di stoviglie, calamai, orinatoi e acquasantiere, ecc.. In più comparvero vere e proprie sculture non solo da giardino o da interni ma anche di soggetti popolari flashiati dalla vita quotidiana. Non potevano mancare, restando in questo genere, i “pupazzi” del presepe natalizio. Erano diversi dalla tradizione partenopea, ricca di sfarzo, barocca ma  pervasa da un inquietante gotico villano, tra gobbi, vecchie megere, zingare, compari, avventori d’osterie, pescatori, grassi frati, banchi del mercato e quant’altro di quel microcosmo pop napulitano messo in teatro da Eduardo & Peppino De Filippo, figli del prolifico Edoardo Scarpetta, o papà di Sciosciammocca.

Nel chiostro del convento fiorentino d’Ognissanti riposa lo scultore Salvatore Bongiovanni classe 1769, emigrato a Firenze per seguire la sua vocatio d’artista, lasciando la natia Caltagirone con la bottega di ceramica condivisa col fratello Giacomo. Quando morì, nel 1842, si poté dire che Salvatore nella vita era un “arrivato”, da umile figurinaio a professore di scultura dell’Accademia fiorentina, con commesse d’opere d’alto rango, s’era fatto da sé abbracciando, con ottima perizia, lo stile neoclassico di Canova con un quid popolano.

Fu così che il fratello minore (classe 1772) restò da solo a 14 anni  a modellar l’argilla, papà, mamma e le due sorelle erano sarti, lui non teneva tempo né quattrini per farsi un’istruzione, restò analfabeta, ma prese in mano quella bottega facendo passo, passo, una rivoluzione, fino ad aprirne una tutta sua nel 1794.

Dal ‘600 inoltrato le statuine  napoletane aveva solo arti e testa di legno o terracotta, l’anima era di fil di ferro rivestito di stoppa, questo permetteva di muoverle dandogli pose diverse. Grande attenzione veniva poi prestata agli abiti che le ricoprivano, in linea col genere, il lignaggio ed il mestiere o  professione, dipinti con tempera grassa oppure olio. Giacomo fece tutt’altro, le sue figurine erano completamente modellate in argilla ma ignude; quei corpicicini infreddoliti lui si divertiva a rivestirli con sottili sfoglie di creta sovrapposte modellate come abiti su misura, non per niente i genitori erano tailleurs . Ma la sua genialità, mutuata dalle statuine presepiali di Giovanni Matera, non si fermava alla tecnica, era suo stile inconfondibile trasferire ai suoi soggetti la massima naturalezza mimico-gestuale, accompagnata dalla giustezza dei panneggi nei moti delle azioni. Una modellazione del vero quotidiano, “neorealismo” catturato con occhio acuto e fretto trasmesso nell’argilla, un racconto popolare di creta che anticipava il verismo letterario, un teatro di pupazzi. Niente hi society però ma risse tra comari, pettegoli nelle botteghe, emarginati come storpi e ciechi,  fraticelli questuanti, elemosinieri, ubriaconi, braccianti, piccoli artigiani. Tutti col loro abito da commediola dell’arte o piccolo dramma quotidiano, sempre in rapporto tra loro, anime in fondo dolenti di un caravanserraglio plebeo, coi loro piccoli mondi chiusi nel solo strappar la vita coi denti. Le statuine entrarono anche nella compagnia della Natività, furono pastori, mandriani, contadini presi tra la sua gente, catalini perché Gesù nasce in ogni luogo non solo in Palestina e lì tra la sua gente manifestava la Buona Novella. Il successo della bottega fu grande, travalicando i confini cittadini e Giacomo prese con se il nipotino Giuseppe Vaccaro figlio della sorella Maria, nato a Caltagirone nel 1807, cambiando intestazione al laboratorio in Bongiovanni-Vaccaro, che in vernacolo divenne la bottega Gia-Giu.

Giuseppe “era portato” per il mestiere di plasticatore, anche il papà era ceramista, l’odore della creta perciò ce l’aveva nelle nari, fin da piccino sfrugugliava nella bottega dello zio imparando con gli occhi e con le mani, mostrando già la sua vera vocazione. In questo Giacomo l’ assecondava anzi percepiva in lui la continuità di quel lavoro non lesinando tutti gli insegnamenti necessari a esercitarlo. La fama cittadina di zio Bongovanni era così grande che la città gli aveva decretato un ritratto pittorico (opera di Giuseppe e Francesco Vaccaro) per effigiarlo tra le personalità illustri cataline e questo quand’era ancora in piedi, nel 1856. Così declama la dedica: “ A Giacomo Bongiovanni caltagironese/ Plasticatore vivente/Perché nel modellare il costume levò a bella nominanza la patria//Questa effigie pe’ Vaccaro ritratta/La Decuria un testimonio di conoscente memoria/A 17 giugno 1856 votava”. Lascerà la sua terra e la bottega il 6 dicembre del 1859.

Questa passerà al nipote ch’ aveva già apportato, nel tempo, delle sostanziali varianti alle figurine prodotte, non solo quarto stato, ma dentro anche borghesia, aristocrazia  per penetrare meglio in un mercato che desiderava specchiarsi, autocelebrarsi, godendo del proprio status symbol, bell’intuizione che aprì la bottega a mercati sempre più vasti, pensate fino a sbarcare in America. Quella svolta sugli attori del melodramma popolare l’ebbe dopo un suo viaggio napoletano, la sua gente s’arricchì d’ altri figuranti, perché no anche gioiosi, carnascialeschi. Vaccaro si sperimentò poi in altri generi,  scoprì la ritrattistica, il busto romano, famoso quello di un grasso componente della famiglia Landolina o il ritratto ceramico di suo zio Bongiovanni. Dalla Caltagirone dell’800 Giuseppe fu tentato anche dalla rappresentazione della storia  siciliana, eccolo allora all’opera ad interpretare personaggi famosi come il Conte Ruggiero nell’atto di donare a Caltagirone i propri feudi. Ma lì cedeva uno dei pilastri forti dello zio: l’osservazione del vero, per i nuovi soggetti si cadeva nell’iconografia ufficiale perdendo in umanità e realismo, diciamo ci provò ma non fu il suo meglio. Nella maturità artistica e biologica si cimentò anche con soggetti mitologici come il gruppo scultoreo di Leda e il cigno, bellissimo si dice, destinato al Giardino Pubblico di Caltagirone, mai arrivato ad ornarlo.

Gia-Giu parteciparono a molte manifestazioni d’arte ceramica quali le Esposizioni biennali delle Industrie Ceramiche siciliane del ’34, ’36, ’38 tenutesi a Palermo, conseguendo meritati riconoscimenti,  lasciando tutti stupefatti, a bocca aperta, per quell’apparente eresia del Vaccaro  quando, nel ’38, mise in mostra gruppi in terracotta non colorati, cioè del color biscotto, il risultato fu una bella medaglia d’argento. Sull’onda del successo il Comune catalino deliberò alla bottega l’ordine di ben 40 grandi  vasi ceramici da posizionare sempre nei Giardini Pubblici cittadini.

Anche Gia  proseguì la tradizione delle statuine presepiali, arricchendo la fauna dei personaggi di altri “tipi” d’ogni ceto sociale e condizione, seguendo, in questo, la ricca fantasia napoletana. Nel 1882, lo troviamo a bottega a modellare i grandi pastori e le greggi a lui affidati come commessa per il Presepe monumentale di S. Maria di Betlemme a Modica. Sempre alla sua fattura  appartengono tutte, ma proprio tutte, le figure del presepe stabile della Cattedrale di Caltagirone e furono anche queste opere a meritargli la medaglia d’oro all’Esposizione Vaticana del 1888.

Si spense ultraottantenne nella sua Caltagirone il 28 novembre del 1889 lasciando mestiere e bottega ai suoi due figli Salvatore e Giacomo provetti eredi nell’arte dei plasticatori/figurinai.

Fate un salto, per saperne di più e far godere i sensi, al Museo della ceramica cittadino.

Emanuele Casalena

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