Evoluzionismo e creazionismo: Scienza e metafisica rispondono.

di Isacco Tacconi

 

Da Cartesio in poi, o meglio, da Guglielmo d’Ockham in poi, nell’ambito filosofico si è operata una frattura tragica che la modernità ha portato alle sue estreme conseguenze, quella fra la conoscenza metafisica e la conoscenza empirica. Questa frattura insanabile è un riverbero della sentenza sia razionalista che fideista (a seconda del punto di partenza) sull’inconciliabilità tra verità della fede everità della ragione le quali, secondo Ockham, possono anche essere in contraddizione anzi, di fatto, lo sono. Questa idea “ha camminato” nei secoli e ha messo radici nella coscienza liberale dell’Occidente fino allo scetticismo empirico-materialista contemporaneo. In realtà, all’origine di questo divorzio insanabile tra fede e ragione c’è l’averroismo con la sua dottrina della “doppia verità”, oggi tornato in auge grazie al neo-modernismo che caratterizza la filosofia e la teologia contemporanee, ben piantate sulla dialettica hegeliana tra dogma e storia, tra dottrina e prassi pastorale, tra norma e carisma e così via, tra fede e scienza e così via.

Ma è proprio vero che la metafisica è in contraddizione con i dati della scienza empirica? Ciò che io posso conoscere con “evidenza” morale attraverso i dati metafisici non ha niente a che vedere con ciò che posso conoscere con “certezza” attraverso i dati fisici? Scienza e metafisica sono insomma due rette parallele che non si incontrano mai e se si incontrano non hanno niente da dirsi?

Secondo quesito da considerare: è sostenibile armonizzare “creazione” ed “evoluzione”? Si può ammettere l’evoluzione a partire dalla creazione? E poi, è sostenibile l’affermazione secondo la quale una creatura che si evolva da se stessa o che abbia la capacità di mutare se stessa in una creatura totalmente diversa da ciò che è attualmente, sia più perfetta di una creatura in se stessa già compiuta e realizzata?

Per rispondere a questi interrogativi e per trattare oggettivamente la questione evoluzionista in maniera generale, esaminando soltanto le sue fondamenta e non ogni suo aspetto strutturale secondario, bisognerà adottare due prospettive complementari: quella metafisico-ontologica e quella scientifico-fenomenica. Le due, infatti, non si escludono a vicenda al contrario si completano e sostengono reciprocamente, e ciò che deve essere assolutamente chiaro è che entrambe, nei loro giudizi ultimi sulla realtà, devono volgere verso una concordanza, altrimenti, se si contraddicono irrimediabilmente, o l’una o l’altra, o entrambe, sono false.

Lo status quaestionis

In ambiti accademici cattolici è oggi prevalente la tesi che sostiene la conciliabilità tra evoluzione e creazione. Eppure una tale affermazione entra in collisione con diversi dati e della scienza e della fede, vediamo quali.

La cosiddetta teoria dell’evoluzione si basa sul postulato, dato per assodato, che un essere di natura inferiore, (es. la scimmia), a causa delle influenze dell’ambiente esterno, per un’innata capacità di mutamento interiore e per una serie di meccanismi estrinseci, come ad esempio “la selezione naturale”, possa “evolversi” (il termine «evolversi» propriamente significa «trasformarsi» o «mutarsi») in un essere di natura superiore, (es. l’uomo).

Ma una tale teoria (teniamo a precisare che è una teoria e non una verità) contraddice almeno tre principi evidenti e fondamentali della ragione: 1) l’effetto dipende sempre da una causa a lui superiore 2) il più perfetto non può venire dal meno perfetto 3) l’atto precede la potenza come la forma precede la materia.

Questi principi possono essere riuniti in uno solo, ossia “il più non può venire dal meno”. “Tale principio – dice padre Garrigou Lagrange – esprime che il divenire non può derivare se non dall’essere determinato, l’essere causato dall’essere non causato; il contingente dal necessario; l’imperfetto, il composto, il molteplice, dal perfetto, dal semplice, dall’uno; l’ordine dall’intelligenza. Solo il superiore spiega l’inferiore”[1].

Eppure coloro che vorrebbero conciliare evoluzione e creazione devono, per forza di cose, aggirare l’ostacolo dell’impossibilità ontologica, quindi metafisica, ma anche biologico-empirica, che dal meno perfetto possa derivare il più perfetto. Per fare ciò si deve sostenere che la perfezione di un ente non starebbe nel suo essere già compiuto bensì nella sua capacità di mutare ossia nell’indefinitezza, nella mutevolezza, in altre parole, nel suo “divenire”, cioè nella sua “evoluzione”.La perfezione, in definitiva, starebbe nell’imperfezione.

In questo modo, però, si andrebbero a negare i principi più elementari della ragione come quello per cui la perfezione risiede in un ente in atto e l’imperfezione in un ente in potenza. L’atto (in greco «enèrgheia»), nel linguaggio metafisico, indica l’essere di una cosa, il sussistere determinato e compiuto di una cosa, il suo essere realizzato e perfetto sotto un certo aspetto. La potenza (in greco «dynamis»), invece, indica deficienza, incompiutezza, indefinitezza, mutevolezza e può essere attiva, (capacità di essere qualcosa), o passiva (capacità di ricevere una perfezione).

Facciamo qualche esempio. Una quercia di cento anni è un albero in atto mentre una ghianda è un albero in potenza. Fine della ghianda non è rimanere ghianda ma divenire quercia realizzando così la propria potenzialità, passando cioè da quercia in potenza a quercia in atto. Pertanto la ghianda, in relazione alla sua finalità, sarebbe imperfetta perché non ancora giunta al suo fine che è divenire quercia. Similmente uno spermatozoo maschile che dipende nell’essere da una causa immensamente superiore (l’uomo), è un entità, singolarmente presa, imperfetta perché non ancora giunta a realizzare il fine che la sua stessa natura ci indica: fecondare una cellula uovo femminile. Esso, infatti, non esiste che per fecondare, e quello è il suo unico fine perché, nel fecondare, si esaurisce la sua ragion d’essere. Ma tale fine non è un’attribuzione estrinseco-nominale stabilita “per convenzione” dall’uomo, ma è iscritto nella sua natura che si manifesta nel suo comportamento («agere sequitur esse») che un qualsiasi medico può oggettivamente osservare non appena esso entra nell’organismo della donna.

Dunque, riassumendo, non solo ogni realtà perfetta è causa propria, cioè diretta e immediata, di un determinato effetto ad essa subordinato e ontologicamente inferiore (es. l’uomo è causa dello spermatozoo), ma ogni realtà, anche la più piccola, è finalisticamente determinata (es. lo spermatozoo è ordinato alla fecondazione).

Orbene, dire che un essere in continuo mutamento, cioè che non ha ancora raggiunto il suo fine perché in continua potenzialità, sia un essere più perfetto di uno già in atto, è come dire che la ghianda è più perfetta della quercia, anzi, equivarrebbe a dire che la ghianda, nata ghianda, ma capace di diventare castagno sia più perfetta della quercia da cui è caduta. Ancor peggio, affermare che una creatura capace di evolversi, cioè capace di mutare la propria natura, sia più perfetta di una incapace di evolversi, equivale a dire che uno spermatozoo, finalizzato di per sé alla fecondazione e alla generazione umana, che si evolva in qualcosa di diverso dall’uomo sia più perfetto dell’uomo stesso. In tutto ciò non c’è una riflessione metafisica a partire dall’oggettività del reale né, tanto meno, un’osservazione empirica perché il principio che si vorrebbe sostenere è del tutto astratto cioè idealistico e aprioristico ossia, irreale giacché non ha fondamento nella realtà.

In definitiva ciò che in questo tentativo insostenibile di conciliazione fra evoluzione e creazione si vorrebbe battezzare, è la priorità e la supremazia del divenire sull’immutabile, dell’imperfezione indefinibile sulla perfezione definita la quale è, invece, il presupposto fondamentale e imprescindibile per conoscere qualsiasi realtà o entità. Di fatto, il divenire non si può descrivere perché non possiamo fissarlo in un momento, appunto, “definito” che ci permetta di raffigurarlo per individuarne i tratti essenziali. Possiamo soltanto percepirlo ed “intuirlo” come il movimento costante a cui ogni realtà visibile è sottoposta per il suo essere inserita nella dimensione spazio-temporale. A questo proposito Aristotele con grande intuizione definì il tempo «la misura del movimento secondo il prima e il poi»[2]. Ma definire il movimento, lo ammette lo stesso Aristotele, è arduo[3] se non impossibile perciò egli tenta di spiegarlo come «atto di ciò che è in potenza in quanto in potenza»[4] ovvero un “atto incompleto”. Il movimento, in ultima analisi, è sempre un aspetto negativo di una realtà definita che la scienza empirica di per sé non può né spiegare né oggettivare perché è un sostrato comune all’essere delle creature finite che sfugge alla sperimentazione in laboratorio.

Insomma, seguendo la linea della posizione di compromesso fra evoluzione e creazione si giunge ad invertire l’ordine naturale dei fenomeni biologici oltreché l’ordine naturale della ragione.

Inoltre porre il “mutamento”, o la sola possibilità del mutamento, delle creature come un segno di maggior perfezione delle stesse, entrerebbe in piena collisione con quella che è la natura stessa di Dio, fonte e modello di ogni perfezione nel quale non può esserci mutamento alcuno. Non a caso Aristotele per definire la Perfezione della natura divina dovette ricorre all’immagine di un primo “Motore Immobile” (in greco «Kinùn Akìneton»). Dio infatti è immutabile, perché è l’Atto purissimo privo di qualsiasi potenzialità, privo di ogni difetto o mancanza. Dio, in altri termini, non può “evolvere”, non potrà cioè mai aumentare il suo essere né la sua sapienza, né la sua volontà, né i suoi attributi giacché è l’Essere Perfettissimo o, come disse il Doctor communis, Dio è «l’Ipsum Esse subsistens», in sé compiuto e immutabilmente sussistente. Ma se l’evoluzione fosse di per sé indice di maggior perfezione, Dio non sarebbe perfetto il che è assurdo.

In definitiva l’Essere Perfettissimo, cioè Dio, è immutabile, stabile, eterno, semplice, ragion per cui anche nell’ordine del creato le perfezioni particolari e finite di ogni creatura sono caratterizzate dalla stabilità e dalla definitività dell’essere di cui partecipano.

L’“evoluzionismo creazionista”, inoltre, cade in un’altra contraddizione ossia nella negazione del finalismo intrinseco e, appunto, “specifico” di ogni ente, quella che Aristotele definiva «entelechìa». Ogni realtà, lo abbiamo visto, è finalizzata o, come si dice comunemente, “ha uno scopo”. Perciò ogni essere vivente esiste per assolvere ad un compito specifico, proprio e inalienabile. Ma inserire il principio evolutivo nell’ordine della natura significherebbe ridurre il fine di ogni creatura alla sola evoluzione verso forme via via sempre più perfette, una teoria tutt’altro che suffragata dai dati archeologici, paleontologici e genetici.

Sostenere poi che l’evoluzione di una sostanza imperfetta come un vegetale possa sfociare in una sostanza più perfetta come un animale, contraddice non solo la ragione metafisica ma anche la scienza genetica la quale, grazie alla scoperta dei caratteri ereditari di padre G. Mendel, ha definitivamente acclarato che non può darsi in natura alcun salto di DNA da una specie ad un’altra come, per esempio, dal rettile all’uccello, o dalla scimmia all’uomo. Ogni mutamento di DNA, infatti, comporta una menomazione nella struttura biologica che rende quell’essere irreplicabile ossia sterile, in parole povere, incapace di generare. Questo è evidente anche negli incroci di animali fatti dall’uomo come il mulo che è sterile, o come il “leontigre”, bestia frutto dell’inseminazione in laboratorio fra il leone e la tigre, anch’essa sterile. Ciò ci dice che la natura pone delle barriere insuperabili anche fra specie tra loro simili e che ogni mutamento di DNA non porta mai ad un perfezionamento ma ad una menomazione. È ciò che succede nel caso della Trisomia 21 o “sindrome di Down” la quale consiste in un’alterazione del codice genetico umano nel quale si aggiunge un gene in più che produce i ritardi connessi a questa patologia. Possiamo osservare in questo caso che le persone affette da sindrome di Down sono incapaci di riprodursi, giacché le donne sono in rari casi feconde e gli uomini costantemente sterili perciò tra di loro non possono procreare. È ovvio perciò che non potrà mai svilupparsi una nuova razza umana “down” proprio perché ogni alterazione del DNA è una imperfezione o una privazione, non un miglioramento di quella natura.

L’aspetto ideologico dell’evoluzionismo creazionista

A sostegno della tesi di compromesso fra evoluzione e creazione, molto spesso si porta l’esempio di un inventore di computer il quale dapprima ne progetta uno con delle capacità limitate e ben definite, diciamo così, “compiuto” in se stesso. Dipoi ne progetta uno con la capacità di migliorarsi da sé, prima di aggiornarsi e poi di trasformarsi in un computer diverso e più perfetto da come era quando venne “acceso” la prima volta. Certo, si dice, l’inventore aveva previsto questo suo cambiamento ed anzi è stato lui ad inserire questa capacità di evolversi in un “super computer” in quel primo calcolatore “primordiale”. Ma questo è un esempio bello e suggestivo quanto irreale e fantastico al pari della creatura Frankestein o del Golem, giacché l’uomo non è capace (né mai lo sarà) di “creare” un intelligenza artificiale con la caratteristica propria ed esclusiva dell’essere umano che è il libero arbitrio, ovvero la capacità di autodeterminarsi al bene o al male.

La letteratura fantascientifica ha prodotto montagne di racconti sull’intelligenza artificiale che si rivolta contro l’uomo per sopraffarlo e liberarsi dal suo “dominio paterno” ma, come abbiamo detto, questo non è altro che la riproposizione in chiave tecnologico-digitale del mito di Calibano e di Frankestein. Abbiamo l’esempio di “Matrix”, “Terminator”, “War Games” come rappresentazioni della ribellione della macchina contro il suo “creatore”. Un tema che evoca quell’ancestrale peccato originale di ribellione che l’uomo perpetrò contro il suo Creatore che, come una proiezione archetipica inconsapevole, viene immaginato sottoforma di racconto fantascientifico, quasi fosse un fantasma che aleggia nel profondo del suo subcosciente.

La medesima idea dell’uomo creatore di intelligenze artificiali-robotiche può avere anche un’altra attualizzazione, ossia nel senso non di una creatura ribelle ma di una creatura devota e filiale che ringrazia suo “padre” per averla fatta libera. In questo senso abbiamo esempi letterari-cinematografici in “Intelligenza Artificiale”, “L’uomo bicentenario” o la saga di Isaac Asimov recentemente riedita grazie al film “Io robot”. Asimov, non a caso ebreo, possedeva il bagaglio giudaico-cabalistico del mito del “golem”, un essere creato dall’uomo per essere suo servo, ovvero una diabolica scimmiottatura della creazione divina in cui l’uomo vuole farsi creatore a sua volta grazie all’ausilio della magia occulta. È ciò che si sta tentando di fare oggi attraverso le aberrazioni della manipolazione genetica degli embrioni. In Inghilterra da anni si tenta di creare in laboratorio degli “embrioni-chimera” frutto del mescolamento di DNA umano e DNA animale, sacrificando vite umane divenute meri ingranaggi di macchine nelle mani dei nuovi dottor “Frankestein”. Ma tali aberrazioni scientifiche hanno tutte un medesimo esito: tutte, senza eccezioni, falliscono. Questo perché Dio ha posto il Cherubino a custodia dell’Albero della vita e la natura stessa con le sue leggi, si oppone alla nicciana e prometeica volontà di potenza che vorrebbe produrre in laboratorio il “super uomo” (pensiamo al mito di “Capitan America”).

Perché ho parlato di questo in riferimento all’evoluzione? Perché tutto ciò viene a costituire uno degli argomenti “forti” dei sostenitori della conciliazione fra creazionismo ed evoluzionismo ovvero che Dio, “creatore geniale”, avrebbe creato degli esseri “più perfetti” se sono in grado di evolversi autonomamente in forme via via più evolute. Il paragone di questa tesi con l’uomo “inventore di computer”, come abbiamo già accennato, non è sostenibile giacché l’uomo non avrà mai, per quanto possa migliorare la propria tecnologia, la capacità di inventare un essere o una macchina in grado di trasformare se stessa, cioè con le proprie forze, in un qualcosa di più di una semplice macchina programmata per svolgere delle attività predefinite che non solo non si avvicinano lontanamente ad un’intelligenza razionale quindi libera, ma neanche alla struttura vivente di un animale, ossia di un essere “sensitivo” quindi istintivo.

La fantascienza fa il suo dovere ossia produrre “fantasia scientifica” e fin qui nessun problema. Il problema sorge, invece, quando il mondo accademico (cattolico e non) prende i modelli fantascientifici per sostenere delle teorie che vengono proposte come scientifiche. Ma in fondo non dovremmo stupirci giacché evoluzionismo e fantascienza vanno così bene insieme perché hanno un fondamento comune: ossia non hanno fondamento (nella realtà).

Dunque la metafora dell’“inventore di computer” addotta per giustificare la conciliazione fra evoluzionismo e creazionismo, è del tutto invalida nonché assurda. Questo perché l’uomo, in ultima istanza, non potrà mai inventare una macchina dotata di libero arbitrio per il semplice motivo che egli non è Dio, e il libero arbitrio non è una qualità della materia che l’uomo possa manipolare o produrre in laboratorio ma un attributo dell’anima. Esso è una manifestazione dello spirito su cui la scienza empirica, a rigor di logica, non può esprimersi a meno che non voglia presentarsi come “scientismo” ossia, come ha ben dimostrato Francesco Agnoli, essa non voglia diventare “religione della scienza”.

In definitiva non solo è auspicabile ma è più che urgente recuperare le categorie della metafisica aristotelico-tomista unendole all’osservazione empirica, unica via per tentare di comprendere, anche se in minima parte, quello che è il “mistero dell’evidenza del reale”.

 

[1] Cfr. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Introduzione allo studio di Dio, Fede e Cultura, Verona 2013, p. 59; ripreso da Garrigou-Lagrange, Le divine perfezioni secondo la dottrina di S. Tommaso, F. Ferrari (Roma 1923), p. 13.

[2] Fisica, IV, 11, 219b.

[3] Cfr. Ibidem, III, 30, 201b.

[4] Ibidem, 201°.

 

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